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Biodiversità e crisi ambientale: verso una visione ecosistemica

 

La crisi ambientale, che ormai ha i connotati di un fenomeno globale che non risparmia alcuna parte del pianeta, si sta rapidamente aggravando. Il benessere, e in ampie aree geografiche anche la sopravvivenza di un numero crescente di persone, sono messi a rischio dal degrado ambientale, come ben definito nei Millennium goals delle Nazioni Unite (MA, 2005).

In estrema sintesi, la crisi si articola in:

  • scarsità delle materie prime,
  • crescente fabbisogno energetico,
  • inquinamento dell’atmosfera, dell’idrosfera e del suolo,
  • surriscaldamento globale,
  • crollo della biodiversità e degradazione del funzionamento degli ecosistemi.

Tutti i Paesi, seppur con intensità e modalità differenti, ne sono influenzati. Il bacino Mediterraneo, e l’Italia in particolare, risultano particolarmente a rischio di degrado ambientale.

Tuttavia, nel nostro Paese ancora si stenta a riconoscere che la risoluzione, o quanto meno la mitigazione degli effetti di queste molteplici crisi, non può che partire da una visione ecosistemica che le contempli tutte e prenda in considerazione le loro interrelazioni. In assenza di una simile visione, interventi di carattere pianificatorio o normativo, motivati, come spesso accade, dalla presunta vetustà delle norme attualmente vigenti non possono che operare dei mutamenti sporadici, isolati e, nella migliore delle ipotesi, affrontare alcuni aspetti specifici, senza risolvere la questione ambientale nella sua complessità ovvero favorire una tendenza in tal senso.

Dagli Uccelli alla visone ecosistemica per la biodiversità

A titolo di esempio, immaginiamo di utilizzare l’avifauna – gli Uccelli – quale nucleo di partenza, per poi allargare la visione, in prima istanza, alle altre componenti principali della biodiversità tutelate oltre che dalla Direttiva Uccelli 147/2009/CEE, dalla Direttiva Habitat 43/92/CEE, ben consapevoli che tali Direttive non includono tutte le specie e gli habitat meritori di conservazione in Italia.

Il livello delle conoscenze sugli Uccelli in Italia, ben lungi dall’essere esaustivo, consentirebbe, in linea di massima, di definire una strategia per la conservazione della nostra avifauna. Ad esempio la LIPU-BirdLife Italia, in collaborazione con ISPRA e con il CISO (Centro Italiano Studi Ornitologici) per conto del Ministero dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare, Direzione Protezione Natura, ha completato il quadro di definizione dello stato di conservazione delle 256 specie di uccelli nidificanti in Italia (Gustin et al 2009, 2010; Brambilla et al 2010). Per numerose specie è stato anche formulato un Valore di Riferimento Favorevole, volto a determinare obiettivi di conservazione esplicitamente quantitativi per ciascuna specie (dimensione della popolazione necessaria o densità riproduttiva minima sufficiente a garantire la persistenza delle specie). Per le specie a distribuzione diffusa è ora disponibile, grazie al programma MITO (Fornasari et al. 2002; LIPU e Rete Rurale Nazionale 2011), la tendenza demografica dal 2000 al 2011, che ha evidenziato ad esempio il crollo delle specie negli ambienti agricoli. Inoltre, l’Atlante della migrazione pubblicato da ISPRA (Spina e Volponi 2008) fornisce preziose informazioni circa la provenienza e la destinazione geografica dei migratori che transitano, svernano o nidificano nel nostro Paese. Per alcune specie è anche possibile definire, con buon grado di approssimazione, il loro “paesaggio ideale” (o mosaico di habitat), determinare le variabili vegetazionali e inerenti la struttura spaziale del paesaggio che determinano la qualità ambientale, e persino prevedere come i paesaggi da loro occupati evolveranno nei prossimi anni (e.g., Casale e Brambilla 2009).

Per la maggior parte delle specie, abbiamo un buon livello di conoscenza circa le loro esigenze ecologiche e le azioni da intraprendere per la loro conservazione. Possiamo anche, in modo ragionevole, formulare linee strategiche atte a conservare l’avifauna nella sua complessità e gestire eventuali esigenze ecologiche conflittuali tra le diverse specie. Invero, lo stesso decreto del Ministero dell’Ambiente “Rete Natura 2000” (n. 184/2007) sui Criteri minimi uniformi per conservazione dei siti della rete, fornisce al riguardo, per le 13 tipologie ambientali di Zone di Protezione Speciale (ZPS) individuate, un quadro piuttosto esauriente.

Infine, la Strategia Nazionale Biodiversità nella sua “visione” recita:

“La biodiversità e i servizi ecosistemici, nostro capitale naturale, sono conservati, valutati e, per quanto possibile, ripristinati, per il loro valore intrinseco e perché possano continuare a sostenere in modo durevole la prosperità economica e il benessere umano nonostante i profondi cambiamenti in atto a livello globale”.

Le tre tematiche cardine della strategia sono:

  • Biodiversità e servizi ecosistemici,
  • Biodiversità e cambiamenti climatici,
  • Biodiversità e politiche economiche.

Dalla teoria alla pratica. Un piano operativo per la biodiversità

Ci si può dunque chiedere, assumendo che la visione della Strategia Nazionale Biodiversità possa costituire un efficace riferimento per uscire dalla crisi ambientale, se il quadro teorico a nostra disposizione per passare alla pratica sia soddisfacente.

Ciò che certamente manca è una traduzione della strategia in un piano operativo. Tale piano, dovrebbe essere:

  • basato sui principi della landscape ecology e contenere una componente spaziale (geografica) esplicita,
  • interfacciabile con la pianificazione territoriale,
  • con una forte componente ecosistemica,
  • adattativo ai cambiamenti climatici e mitigatorio degli effetti degli stessi.

In concreto, tale piano dovrebbe operare un’integrazione dell’attuale rete delle aree protette (inclusi ovviamente i siti Rete Natura 2000), in chiave ecosistemica e adattativa. Tramite modelli predittivi si rende possibile l’individuazione di aree protette stabili (marginalmente influenzate dai cambiamenti climatici), delle specie e comunità che diverranno sotto-rappresentate, dei futuri hotspots di biodiversità. E’ necessario, inoltre, che tutto il territorio produca dei benefici per la biodiversità, e continui a fornire servizi ecosistemici, in un’ottica di multifunzionalità (si pensi in particolare agli ambienti agricoli). Occorrerà quindi aumentare la permeabilità dei paesaggi alla fauna selvatica, mantenendo o migliorando le funzioni ecosistemiche e la resilienza dei paesaggi ai cambiamenti climatici.

Le misure incluse nei Piani di Sviluppo Rurale hanno la potenzialità per raggiungere questi obiettivi. Ma occorre che l’applicazione di tali misure sia guidata da un piano (o da più piani, per le diverse tipologie di agro ecosistemi o di sistemi forestali). L’individuazione di aree agricole a elevato valore di naturalità potrà quindi indirizzare la gestione di contesti rurali di particolare pregio, sia in termini di conservazione della biodiversità, sia di risorse primarie quali l’acqua e il suolo.

Serve, inoltre, una mappa nazionale delle opportunità e priorità di ricreazione di habitat, finalizzata ad indirizzare i piani agro-ambientali, di gestione forestale e la gestione territoriale. La priorità dovrebbe essere l’estensione di fasce esistenti di habitat seminaturali, specialmente in aree strategiche per l’adattamento ai cambiamenti climatici. Analogamente, i sistemi fluviali e le zone umide necessitano di un piano di adattamento per ridurre rischi quali gli effetti delle siccità, prevedibilmente sempre maggiori nel bacino mediterraneo e i rischi di esondazione. La gestione delle nostre foreste può contribuire in modo molto significativo a raggiungere gli obiettivi di Kyoto, ma occorre che tale funzione non vada a scapito della biodiversità legata agli ambienti appenninici o alpini non forestali, molti dei quali sono in via di scomparsa. Né la massimizzazione della funzione “sink di carbonio” dei nostri boschi può costituire un obiettivo isolato. Potrebbe quindi essere opportuno finalizzare un disegno geografico di ampia scala che preveda zone di non intervento, zone di gestione attiva, ed anche zone finalizzate a massimizzare la funzione “sink”.

È infine necessario che le azioni di adattamento vengano coordinate in modo intersettoriale e sottoposte a un periodico monitoraggio per valutarne gli impatti e correggere eventuali disfunzioni.

La difficile sfida ambientale del presente e del prossimo futuro, a venticinque anni dalla Convenzione di Rio del 1992, dagli impegni, dagli obiettivi importanti che lì sono nati, consisterà nel gestire i potenziali conflitti tra i piani di adattamento dei diversi settori e, contemporaneamente, riconoscere e saper cogliere le sinergie tra loro, in particolare attraverso l’uso realmente sostenibile del territorio che potrà portare benefici agli habitat, alle specie,agli esseri umani, al pianeta intero.

di Fulvio Mamone Capria, presidente LIPU-Birdlife Italia

Autore: Rinnovabili

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