La futura SEN sembra proprio non rispondere allo spirito della Cop21: ritenere che l’Italia debba trovare un ruolo internazionale diventando un “hub del gas” e trattare le rinnovabili e l’efficienza energetica ancora come un “lusso”, senza considerare i sussidi alle fonti fossili, non è una strategia lungimirante.
Il 2015, in particolare per il variegato mondo ecologista, è entrato nella storia come un momento di svolta epocale per le politiche ambientali internazionali.
Con l’accordo tra i capi di Stato di quasi 200 Paesi del mondo, alla COP21 di Parigi, le fonti fossili sono state relegate “dalla parte sbagliata della storia”, rendendo ineludibili e urgenti tanto la necessità di contenere l’aumento della temperatura del pianeta sotto la soglia critica dei 2 °C, quanto l’improrogabilità di un radicale cambio di strategia energetica, a livello globale.
Inutile negare quanto il passaggio di testimone tra il più grande paladino del contrasto ai cambiamenti climatici che abbia mai abitato la Casa Bianca e forse il più odioso dei tardivi negazionisti costituisca un fattore di profonda preoccupazione, in particolare per il rischio di destabilizzazione del processo avviato che porta con sé, proprio nel momento in cui i singoli Stati dovrebbero impegnarsi nella costruzione e implementazione delle necessarie politiche …
Eppure in molti segnalano quanto l’era Trump sia iniziata “troppo tardi” per arrestare un processo ormai radicato in maniera profonda in luoghi realmente impensabili solo qualche anno fa (uno su tutti, la Cina), i cui risvolti economici (ben rappresentati persino nel business advisory council di Trump) sono divenuti troppo evidenti per essere nuovamente sottostimati.
In questa situazione molto dinamica, l’Europa, a fronte di un consolidato settore dei “greenjobs” in costante crescita negli ultimi 15 anni (con 4,2 milioni di addetti nel 2013 contro i 2,4 dell’industria automobilistica), sembra aver smarrito il ruolo di leader e traino di tutta la comunità internazionale, così ben giocato con le storiche direttive 20-20-20 per il contenimento dei cambiamenti climatici. Un ruolo che sembra sia stato sostituito da un atteggiamento più conservativo e addirittura pavido sul fronte energetico, per gli impegni relativi al 2030 e 2050.
Nel frattempo, del tutto analogamente, la SEN, la nuova strategia nazionale energetica a cui sembra lavorare il Ministro Calenda e di cui si hanno alcune sommarie anticipazioni, sembra prescindere da alcune considerazioni fondamentali, specie se osservate in chiave “COP21”:
Un piano serio e completo per l’energia e il clima al 2050, ad esempio, non potrebbe prescindere dall’integrare le indicazioni che verranno dal recepimento della Direttiva sull’Economia Circolare (la cui completa definizione è attesa per la fine del 2017), per la quale si è espresso proprio pochi giorni fa il Parlamento Europeo con l’approvazione di un pacchetto di misure ambizioso che si stima produrrà in Europa 600 mld/anno di risparmio per le imprese, un taglio netto delle emissioni climalteranti (pari al 2-4% circa) e almeno 580.000 nuovi posti di lavoro.
Secondo la Ellen MacArthur Foundation e il McKinsey Center for business and Environment, il pacchetto vale il 7% del PIL europeo.
I principali temi trattati:
Un mondo, quello dell’economia circolare, che, specie se cavalcato in anticipo a partire dalle eccellenze nostrane nel mondo dell’innovazione e della tecnologia (dall’esperienza di Novamont sui bio-materiali, alla Chimica Verde, passando per gli esempi di gestione virtuosa dei rifiuti, per i numerosi brevetti per il recupero e riutilizzo dei materiali, ecc.) potrebbe vedere l’Italia protagonista sul piano internazionale, con un indotto in termini di nuovi posti di lavoro prossimo ai 200.000.
La sensazione, però, tornando alla politica, continua ad essere quella dell’assenza di coraggio e di visione. Di un gioco troppo conservatore e al ribasso, che pretende di camuffare strategie asfittiche e di auto-preservazione dei poteri acquisiti, piuttosto che liberare le nuove energie del Paese. Un esempio su tutti?
Negli Stati Uniti, recentemente, ha fatto notizia la proposta degli ex ministri del tesoro di Nixon, Reagan e Bush a favore di una tassa da 40 $ a tonnellata di CO2 prodotta (una vera e propria Carbon Tax, applicata da tempo con successo in Paesi come Canada, Svezia, Svizzera, UK) che consentirebbe di ridurre le emissioni di gas serra e distribuire alle famiglie 2.000 dollari all’anno
Non parliamo certo di ambientalisti o progressisti per definizione, ma di rappresentanti di mondi che hanno compreso il risvolto epocale (ed economico) delle sfide di cui si parla, accettando di riflettere su proposte che arrivano ormai direttamente dalla Banca Mondiale e dall’Agenzia Internazionale dell’Energia.
In Italia il dibattito politico sulla fiscalità ambientale, che, rispondendo al principio “chi inquina paghi”, mira ad internalizzare i costi sanitari e ambientali legati all’uso dei combustibili fossili e, più in generale allo sfruttamento di beni naturali non riproducibili, non riesce ad emergere a sufficienza, pur affacciandosi di tanto in tanto, a partire dagli anni ’90.
Il Kyoto Club ha avanzato, in tal senso, una proposta per l’Italia, costruita in una rigorosa logica di neutralità fiscale. Ipotizzando un livello iniziale di 20 €/t, le entrate (dell’ordine di 8 miliardi di euro), consentirebbero di tagliare del 10% le bollette elettriche, ridurre il costo del lavoro e favorire interventi sul contenimento delle emissioni.
In sintesi, non una proposta “spot”, ma uno strumento strutturale in grado di dare un contributo favorevole anche al tanto attuale (quanto cronico) dibattito sul contenimento del deficit nazionale e di rianimare una così importante discussione nell’Europa tutta, alle prese con una revisione del sistema ETS (Emissions Trading System), assolutamente insufficiente a raggiungere gli obiettivi attesi.
Uno strumento coerente con gli accordi di Parigi, che, lungi dall’essere sufficiente, segnerebbe finalmente un necessario e urgente cambio di passo.
E ad un primo passo non potranno che seguirne altri, e non potranno che essere svelti, se l’Italia e l’Europa tutta (nell’era di Trump, schiacchiati tra la Russia di Putin, il nord Africa e il medio-oriente) vorranno recuperare sia centralità nei processi internazionali, sia indipendenza ed autonomia dalle risorse e dal ricatto di Paesi troppo instabili o governati in assenza di diritti civili e sia, in ultimo, reale sicurezza, che certo non potrà venire da formule protezionistiche e nazionalistiche, ormai del tutto inadeguate a sostenere le sfide dei giorni che verranno.
L’articolo è stato originariamente pubblicato su Sbilanciamoci.info
Autore: QualEnergia.it – Il portale dell’energia sostenibile che analizza mercati e scenari
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