Categories: Economia

Le radici della MMT non stanno in Keynes (seconda parte)

Author: William Mitchell Rete MMT

La maggior parte di questa analisi fu condotta sotto l’ipotesi di un’economia chiusa. Keynes si concentrò sulle fluttuazioni degli investimenti privati e del reddito nazionale e certamente non considerò cosa un deficit esterno corrente avrebbe comportato alla politica fiscale nel momento in cui il settore privato domestico fosse orientato al risparmio netto.

Il punto è che prendo le distanze dalla visione abbracciata da molti sostenitori della Teoria della Moneta Moderna (MMT) che suggeriscono che Keynes sia uno degli economisti importanti precursori per lo sviluppo della MMT.

Come ho spiegato in questo blog Corbyn should stop saying he will eliminate the deficit [1] non c’è fondamento nell’idea che i saldi fiscali debbano essere in equilibrio, ancor meno nel corso di qualche ciclo economico discrezionale (tra un picco e un altro).

Le opinioni di Keynes in questo contesto sono relativamente conservatrici e sbagliate.

  1. Emettere debito per compensare i saldi fiscali non riduce il rischio di inflazione generato dalla spesa iniziale, a prescindere dal fatto che quella spesa sia statale o non-statale.
    Semplicemente, cambia un asset finanziario – un saldo di risparmio (un deposito) – per titoli di stato. Inoltre, questi ultimi portano ad un flusso di reddito verosimilmente superiore al primo.
  1. Non c’è motivo per credere che un deficit fiscale costante sarebbe inflazionistico. Estendendo proprio la logica Keynesiana, il deficit è necessario quando la spesa non-statale non è sufficiente a generare vendite tali da giustificare il pieno impiego di tutta la forza lavoro disponibile da parte delle imprese.
    Finché le imprese possono continuare a rispondere alla crescita della domanda nominale con un aumento della produzione, non c’è una possibilità concreta di un crollo inflazionistico.

In altre parole, [la scelta di mantenere] un deficit potrebbe benissimo essere una posizione politica d’equilibrio a supporto del pieno impiego quando i saldi degli altri settori (estero e privato domestico) si trovassero in situazioni particolari [2].

Per un Paese come il Regno Unito, segnaliamo quello che segue:

  1. Un deficit esterno di ammontare ragionevole che drena la spesa domestica netta (i flussi monetari in uscita per via delle importazioni sono maggiori di quelli in entrata generati dalle esportazioni) non verrà annullato in qualsiasi momento nel breve periodo e comunque non è un problema, poiché significa che la popolazione gode di termini di scambio vantaggiosi in termini reali (gli stranieri sono disposti a fornire loro beni e servizi reali in cambio di pezzi di carta – asset finanziari).
  2. Il settore privato domestico è già altamente indebitato e non ci si può aspettare che sostenga livelli più alti di indebitamento.
  3. C’è un alto tasso di risorse non impiegate, disoccupazione, sotto-occupazione, ecc…

In questo contesto, un deficit fiscale costante è indicato.

Ricordate che un deficit fiscale è un flusso di spesa netta che si estingue in ogni periodo e, se non sostenuto, perderà il suo impatto.

Finché – in ogni periodo – quel flusso sostiene un flusso di produzione, non c’è rischio di inflazione. Questa è una posizione politica desiderabile: garantire che tutte le risorse reali siano in uso produttivo.

Se, da una posizione di pieno impiego, il deficit esterno si riduce (attraverso l’espansione delle esportazioni) o aumenta l’investimento privato domestico, a seconda della combinazione tra utilizzo di risorse private e pubbliche che la società considera desiderabile, il deficit fiscale dovrà scendere per evitare inflazione.

Ma non è la stessa cosa che invocare un ‘bilancio in pareggio nel corso del ciclo economico’. Anche quando la spesa privata è più forte, i deficit pubblici saranno necessari per mantenere il pieno impiego.

Gli Stati non dovrebbero seguire regole fiscali come quella del ‘bilancio in pareggio nel corso del ciclo economico’. Piuttosto, dovrebbero essere guidati da valutazioni che mostrino l’impatto di differenti parametri di politica fiscale sul benessere della popolazione.

Se c’è la necessità per il settore privato domestico di avere meno potere d’acquisto, allora è suggerito un aumento della tassazione. Non per generare un’entrata per il Governo, ma per ridurre il potere d’acquisto di famiglie e imprese.

L’aumento della tassazione ha una specifica funzione: quella di ridurre il potere d’acquisto del settore privato domestico, presumibilmente perché lo Stato vuole la disponibilità di spazio per ulteriori risorse reali per perseguire il proprio mandato socio-economico e/o le esportazioni sono in forte espansione.

Ha bisogno di creare uno spazio per risorse aggiuntive perché se le tasse non aumentassero ci sarebbero richieste – da parte di famiglie, imprese, Stato e settore estero – incompatibili con l’ammontare di risorse reali [disponibili], [richieste] che porterebbe a inflazione.

Ma nessuna regola può essere suggerita per assicurare che queste decisioni funzionali vengano prese automaticamente. È l’arte dei decisori politici che fa le regole e non le regole che fanno la politica.

Keynes non prese in considerazione i saldi settoriali. La MMT li rende una parte centrale della valutazione macroeconomica e dello sviluppo del quadro normativo. Comprenderli dal punto di vista contabile è solo il primo passo. L’arte sta nel capire cosa muove questi saldi e come interagiscono.

Quindi una regola di “bilancio in pareggio nel corso del ciclo economico” significherebbe che, in media, il settore privato domestico ha un ammontare di deficit pari a quello esterno nel corso dello stesso ciclo.

Perché questo è auspicabile? Questo implica che il settore privato domestico starà accumulando livelli di debito sempre crescenti, che alla fine diventeranno insostenibili.

La MMT si concentra sulle dinamiche del debito privato e considera superate le dinamiche del debito pubblico. Va oltre e raccomanda agli Stati di rompere il legame tra emissione di debito e deficit fiscali.

In questo senso, gli Stati dovrebbero usare l’Overt Monetary Financing [3], piuttosto che avvalersi della scusa di essere Stati finanziati dai possessori privati di titoli di Stato. Le vendite di titoli sono rese possibili grazie ai deficit passati, che generano asset finanziari netti per il settore non-statale.

Inoltre, sono solo un esempio di concessione alle imprese, che non è necessaria.

C’è qualche argomento progressista per cui il debito supporta i fondi pensione/previdenziali alimentandoli delle rendite sicure destinate ai lavoratori in pensione.

La mia soluzione sarebbe quella di nazionalizzare i fondi previdenziali, eliminando il guadagno dei manager [dei fondi] di parte dei risparmi dei lavoratori e utilizzando la capacità di emissione di valuta dello Stato per pagare le pensioni dei lavoratori.

Questa è Teoria della Moneta Moderna pura, non proprio Keynesiano.

Oggi ho finito il tempo, ma potreste anche voler riflettere sull’articolo di David Colander nel Journal of Economic Literature (dicembre 1984) Was Keynes Keynesian or a Lernerian? [4], che ricostruisce la tesi per cui Keynes cambiò opinione negli anni ’40 [del Novecento] e considerò la finanza funzionale di Lerner un sistema solido.

Conclusione

I progressisti dovrebbero abbandonare il concetto che attribuiscono a Keynes secondo cui – in media – il saldo fiscale deve essere zero nel corso del ciclo economico.

In questo senso, il lavoro di Abba Lerner degli anni ’40 sulla finanza funzionale è molto più importante per lo sviluppo dalla MMT rispetto a quello di Keynes, che ritengo sia antitetico ai pilastri fondamentali della MMT.

Le divulgazioni progressiste dovrebbero avere l’obiettivo di educare la popolazione alla necessità di avere continui deficit fiscali in tempi normali. A quel punto inizieremmo ad andare da qualche parte.

Ora vado a prendere un grosso aereo!

È abbastanza per oggi!

Note del Traduttore

1.^ Corbyn dovrebbe smettere di dire che eliminerà il deficit.

2.^ Come l’eccesso di risparmio.

3.^ Overt Monetary Financing: creare moneta dal nulla.

4.^ Keynes era un keynesiano o un Lerneriano? Colander, D. (1984) “Was Keynes a Keynesian or a Lernerian?”, Journal of Economic Literature, 22(4), December, 1572-1575.

Originale pubblicato il 25 agosto 2015

Traduzione a cura di Luca Giancristofaro, Supervisione di Maria Consiglia Di Fonzo

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