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Ashen Recensione, la straripante bellezza del più classico dei soulslite

Annunciato nel corso dell’E3 2016, di Ashen si erano un po’ perse le tracce negli ultimi tempi, eppure il progetto di Aurora44 non si è mai davvero fermato, e, anche da dietro le quinte, ha continuato a solleticare i pensieri dell’intera community Xbox per mesi e mesi, con l’ombra del Game Pass sempre dietro l’angolo. E alla fine il colpaccio è stato fatto: Ashen, insieme a Below, è infatti disponibile fin dal day one nel servizio di Microsoft, ingigantitosi a dismisura nel corso del 2018 e arrivato in pompa magna alle porte del nuovo anno, arricchendosi di due progetti secondari, sì, ma soltanto nel budget. Con alle spalle un publisher ormai piuttosto solido come Annapurna e praticamente regalato (tenendo conto del rapporto gioco-spesa del pass) a partire dai Game Awards, Ashen non poteva che far parlare di sé in questi giorni, nel bene e nel male. Com’è anche giusto che sia, no?

Già, questo curioso soulslike in miniatura è tutt’altro che un videogioco perfetto, almeno per chi i videogiochi li giudica ancora con palette e numeretti stampati. Pur non esente da difetti in senso lato, può però essere definito autorialmente perfetto, nel senso che, con i mezzi tecnici e creativi che aveva a disposizione, il team ha compiuto un vero e proprio miracolo. Il primo elemento di Ashen che salta all’occhio e colpisce è senza dubbio la curatissima componente audiovisiva, strettamente legata alla storia. Il giocatore, calato all’interno di una lore e di un background inaspettatamente complessi, impersona uno degli ultimi umani rimasti sulla terra (customizzabile tramite un limitato editor), chiamati, per necessità legate alla sopravvivenza loro e di qualsiasi altro essere vivente, a proteggere l’Ashen, una misteriosa creatura dalle sembianze di uccello, creatrice e custode della vita stessa. Se l’introduzione è concettualmente molto simile a quella di uno qualsiasi dei Dark Souls, la narrativa si dipana in maniera ben più chiara e limpida, senza particolari scossoni o colpi di scena, giungendo ai titoli di coda dopo una dozzina di ore, che salgono a venti nel caso in cui ci si dedichi a completare tutte le attività secondarie. La struttura del gioco, molto classica e spiccatamente quest-based, è strettamente legata alla mappa, che ha un andamento sinuoso ma lineare ed è suddivisa in varie zone sbloccabili progredendo nella trama. Ciò forse uccide un po’ l’effetto sorpresa, ma se non altro ognuna di esse è ben studiata per essere esplorata da cima a fondo, anche grazie alle imprese legate ai personaggi secondari, vere e proprie subquest che esplorano la storia della nostra “tribù”, legata al gigante Bataran, pur rimanendo ad un livello generalmente elementare (caccia, raccolta oggetti, ecc.) in termini strutturali. Quel che Ashen fa da subito (e bene) è mostrare vanitosamente la sua bellezza, figlia di una direzione artistica che, pur rifacendosi chiaramente all’immaginario preistorico, non è affatto esente da spunti ed originalità, nel design dei nemici e soprattutto delle ambientazioni. Questo, d’altronde, è stato uno dei primi elementi del gioco a colpirci, e alla prova dei fatti non siamo rimasti delusi: il mondo, tratteggiato a colori pastello, è visivamente splendido, che ci si trovi alla piena luce del sole o nel buio quasi completo di una caverna. Ashen è cromaticamente delizioso, ogni elemento ha una sua coerenza visiva e, tutti insieme, sono studiati per appagare la vista; in tal senso, l’assenza del supporto all’HDR suona come una nota stonata in una sinfonia che altrimenti sarebbe stato quasi perfetta.

Accennavamo poc’anzi come l’ultimo figliol prodigo arrivato sui lidi del Game Pass poggi su una struttura di per sé molto classica, il che non è un male, intendiamoci, ma che alla lunga può giungere a stuccare e persino ad annoiare i più esigenti e avvezzi a videogiochi open world ben più importanti e imponenti. A conti fatti, pur piacevolmente narrata, l’avventura non è il massimo dell’originalità e presenta qualche crepa in termini di design: per citarne una, la necessità di tornare sui propri passi ogniqualvolta si completa una missione principale (e molte delle secondarie) è un qualcosa che non ha il benché minimo senso, specie se la missione svolta prevede la presenza sul campo di un compagno, al quale siamo costretti sempre e comunque a parlare di ritorno al campo base, pur avendolo lì di fianco. Volendo, Ashen è giocabile interamente in co-op con un altro giocatore, ma qualora non si disponga di un amico con cui sollazzarsi il gioco mette a disposizione alleati controllati dall’IA, senza neppure la necessità di evocarli. La gestione di questi ultimi è totalmente randomica: alle volte ci seguono come cagnolini, e la loro presenza diminuisce (e di molto) la difficoltà degli scontri, altre volte non sono in grado di tenere il passo e si perdono per strada senza un motivo apparente, lasciandoci da soli in balia di orde di nemici combattuti fianco a fianco fino a un attimo prima. I compagni si rivelano assolutamente indispensabili in alcuni frangenti, come le (non molte) battaglie con i boss, altrimenti piuttosto impegnative e pensate piuttosto bene, anche nelle loro arene, ampie o ristrette a seconda di chi stiamo affrontando. Quando si tratta di menare le mani, però, Ashen si trasforma nel più classico degli action game e perde ogni originalità: non che sia un male, intendiamoci, ma arrivati ormai a fine 2018 ci saremmo aspettati ben altro che vedere applicate in maniera scolastica certe idee che potevano suonare nuove una decina d’anni fa, peraltro facendolo senza neppure sfruttare tecnicismi come parry o backstab, ormai diventati canonici per il genere. Un soulslite più che un soulslike, insomma. E per molti potrebbe già andar bene così.

Le singole zone della mappa non brillano per level design, complesso, sì – a tratti inutilmente – ma mal interconnesso, il che, anche per una struttura delle quest spesso schizofrenica, obbliga a far ricorso a frequenti e fastidiosi fast travel che spezzano un po’ il ritmo e fanno sì che si possa facilmente perdere il filo del racconto, malgrado l’impostazione fortemente lineare di quest’ultimo. Alcune idee sono però interessanti, come ad esempio lo sfruttamento del buio come elemento di design: in alcuni dungeon, che pure sono piuttosto semplici nella struttura, è obbligatorio fare uso di una lanterna, a volte lasciandola a terra per vedere quel tanto che basta a combattere determinati nemici. Sulla mappa, la disposizione dei punti di interesse non è sempre precisissima: alcune zone, addirittura, non dispongono di un punto di fast travel ed obbligano a lunghe scarpinate, mentre i banchi da lavoro e di crafting sono disponibili solamente in punti ben precisi. Anche in questo caso, così come nella gestione del proprio inventario, Ashen non brilla certo per inventiva, limitandosi a riproporre pedissequamente una formula che però, invero, tutto sommato funziona da sempre. Le armi extra (a una mano o due), gli scudi e il vestiario possono essere ottenuti da alcune quest, ma principalmente mettendosi ad esplorare in maniera minuziosa ogni anfratto, oltre che potenziate con le Scorie, a conti fatti le Anime di Ashen. La progressione è quindi legata al proprio equipaggiamento piuttosto che allo sviluppo del personaggio, praticamente assente, se si esclude la possibilità di ottenere dei power-up detti Talismani, inseribili in quattro distinti slot. Si tratta di un sistema collaudato e non così difficile da digerire, ma nel suo complesso totalmente opzionale (stante anche la mancanza di un vero livello per i nemici e i boss), specie per chi, avendo già la pancia piena di simili esperienze, avrebbe voluto limitarsi a godere della storia e di atmosfere e colori meravigliosi, che Ashen non manca mai di sfoggiare per deliziare i sensi di chi si ferma ad ammirarlo.

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Proprio come la storia che racconta, Ashen è un videogioco fatto di luci e ombre. Molto bello esteticamente ed artisticamente, eccessivamente scolastico nel gameplay e nel design delle quest, oltre che caratterizzato da una progressione lineare che, se da un lato è tutto sommato piacevole, dall’altro rimane piuttosto classica e avara di sorprese. Diverte in compagnia, mentre in singolo è spesso minato da un’intelligenza artificiale che talvolta funziona e fa (letteralmente) stragi, altre volte si perde in un bicchier d’acqua. Ecco, questa è un po’ la perifrasi che in senso generale può descrivere tutta quanta l’avventura. Possessori del Game Pass, voi fatevi avanti senza remore e provatelo, perché Ashen è un’esperienza che merita di essere vissuta, specie se offerta così, su un piatto d’argento. Tutti gli altri, beh… pensateci un po’ su.

Author: GamesVillage.it

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