Categorie
Tecnologia

Pride Month e aziende schierate per i diritti lgbt+: è solo una mossa commerciale?

Author: Paolo Armelli Wired

Il movimento ha bisogno anche dei suoi alleati di mercato ma il rischio del rainbow washing va evitato con progetti concreti e un’attenzione sempre viva alla lotta

pride
Il Pride 2019 a San Paolo, in Brasile (foto: Getty Images)

Come da tradizione giugno è il cosiddetto Pride Month: in tutto il mondo si celebrano le parate dell’orgoglio lgbt+ e in particolare quest’anno la data è particolarmente significativa, visto che ricorrono i cinquant’anni dai moti di Stonewall, la rivolta spontanea che fra il 27 e il 28 giugno 1969 ha dato il via al movimento di rivendicazione lgbt+. Molti passi in avanti sono stati fatti in questo mezzo secolo, molti di altrettanto importanti sono ancora da fare ma la sensazione è anche la società sia comunque progredita in un senso di accettazione più o meno diffuso. A dimostrazione di questo c’è anche il numero crescente di aziende che celebrano a loro volta i diritti delle persone queer, non senza però alcune criticità.

Da un po’ di anni a questa parte, persino in un mercato di solito ritardatario come l’Italia, molte società infatti si sono prodigate per sponsorizzare iniziative o addirittura promuovere progetti che includano nei loro programmi il sostegno dei diritti lgbt+. In passato era quasi fantascientifico aspettarsi che le aziende si muovessero in questa direzione, temendo ricadute di mercato. Invece oggi l’investimento nelle politiche di diversity, interne ed esterne ai brand, è di molto cresciuto, tanto che basta girare in questi giorni le più grandi città (Milano in particolare) per accorgersi che le bandiere arcobaleno sono ovunque.

Ovviamente ogni compagnia procede secondo il percorso che le è più congeniale. Hanno iniziato i marchi più vicini al target di riferimento (perché di questo parliamo): dagli strumenti di prevenzione sessuale ai brand di moda, dai canali di intrattenimento agli alcolici, arrivando oggi a aziende alimentari, di mobili, persino di collutori. Si trattava fin dall’inizio di parlare coi propri interlocutori di riferimento e man mano questa comunanza è diventato anche una lotta comune. È innegabile che ad esempio molte corporation globali, soprattutto nel campo dell’informatica, abbiano contribuito in modo decisivo alla lotta dei diritti civili non solo grazie a politiche interne di diversity and inclusion (questa è l’espressione ora in voga) ma anche con concrete attività di lobbying.

Ora però che il carro lgbt+, lo stesso delle parate che molti vorrebbero normalizzare in quanto eccessive e scandalose, è diventato quello dei (per molti aspetti) vincitori è ovvio che ci vogliano salire tutti, anche aziende che prima non erano affatto sensibili al tema o che oggettivamente poco c’entrano con la battaglia queer in generale. Un conto sono le realtà di business in cui le persone gay, bi, lesbiche, trans ecc. sono presenti, stimate, addirittura in posizioni apicali, un altro è quello di aziende che vendono prodotti brandizzati ma poco fanno concretamente per dipendenti e società. In inglese si chiama rainbow washing, un fenomeno simile al pink washing sperimentato sull’attenzione alla donna: i marchi cioè inseguono i trend di mercato e con essi l’opportunità di cavalcare certe tematiche sociali per mostrarsi attenti e responsabili agli occhi dei consumatori.

Milano pride 2018 (Claudio Furlan/LaPresse)
Milano pride 2018 (Claudio Furlan/LaPresse)

È indubbio infatti che di consumatori si parli, visto che qualsiasi operazione sostenuta da qualsiasi società (anche la più eticamente irreprensibile) è condizionata a logiche di mercato.  Il problema è che il supporto delle aziende a manifestazioni come il Pride è complicato tanto quanto le istanze all’interno della stessa comunità lgbt+ sono variegate e a volte discordanti. Un esempio eclatante è uno degli sponsor del World Pride newyorchese, un’azienda farmaceutica affermatasi per vendere un farmaco di profilassi preventiva (la cosiddetta Prep, il cui utilizzo costante abbatte radicalmente la possibilità di contrarre l’Hiv): ebbene questo farmaco costosissimo ha come target prediletto, proprio a livello statistico, i maschi bianchi benestanti, mentre poco fa o ha fatto per le altre fasce di popolazione che si riconoscono sotto la bandiera arcobaleno. È possibile dunque scegliere gli sponsor in modo davvero equo?

Non si può negare, ribadiamo, che l’impegno di molti brand in questi anni è stato essenziale per veicolare un discorso sulle tematiche queer che altrimenti avrebbe fatto fatica a scardinare l’accesso a un pubblico mainstream. L’impegno di certi brand e la profondità di alcuni contenuti hanno raggiunto livelli che le associazioni di volontariato avrebbero solo potuto sognare. Vedere che il proprio marchio di vestiti preferito o la bibita che si compra sempre al supermercato o il canale che si guarda più spesso in televisione adottano lo stesso ideale di vita ha aiutato molte persone a sentirsi rappresentate, a vedersi riconosciuto un valore sociale al di là del semplice potere d’acquisto. Il coinvolgimento dei marchi ha aperto a sua volta le porte poi ai testimonial, tanto che oggi è raro trovare personalità celebri che non si schierino per l’equità di trattamento.

Non si può negare che delle preoccupazioni ci siano. C’è chi si domanda se si sia lottato duramente per tutti questi decenni, e si sia morti così in tanti, solo per permettere a certe aziende di vendere più t-shirt con l’arcobaleno stampato sopra. Ci sono molti modi però per misurare se questi progetti di business rainbow-oriented sono iniziative genuine o al contrario rappresentano un tentativo di appropriazione culturale. Ad esempio bisognerebbe valutare quando le aziende fanno al loro interno per valorizzare i propri dipendenti lgbt+ oppure se il loro merchandising proposto per i vari Pride sia finalizzato a donazioni rivolte ad associazioni ed enti che da sempre si occupano di queste battaglie. Non ci si può limitare a mettere colori iridescenti sulle vetrine dei negozi o stampigliare “Love is love” da qualche parte.

In questo argomento entra anche il paradosso del privilegio: le iniziative lgbt+ più grandi e vistose (dove quindi con maggiore probabilità s’incontrano anche grandi sponsor) sono quelle organizzate in parti del mondo, in città, in gruppi sociali che in qualche modo sono già riusciti a fare della propria rivendicazione identitaria una parte consolidata della propria vita. Il fatto che possiamo sfoggiare cappellini, magliette e calzini arcobaleno sfilando per le nostre grandi città in relativa libertà non può far dimenticare che ci sono persone e luoghi, nemmeno troppo distanti da noi, in cui tutto questo non è possibile. Il Pride è una festa, ma deve anche essere sempre una lotta radicale per ricordare chi ancora è discriminato, deriso, umiliato e ucciso per il suo orientamento: il doping capitalistico delle aziende amiche non diventi mai, dunque, un anestetico tutto esteriore rispetto a queste istanze viscerali.

Può essere avvilente da ammettere, allo stesso tempo, ma manifestazioni come il Pride riescono a essere visibili, organizzate e impattanti proprio grazie a un necessario sostegno economico (a maggior ragione, e capita sempre più spesso anche in Italia, laddove governi e autorità locali negano patrocinio e finanziamenti). Il movimento lgbt+ ha sempre avuto e sempre avrà bisogno di alleati e lo spirito di inclusione che da sempre lo caratterizza spinge ad accogliere più che ad escludere. L’importante però è sempre valutare l’impatto che queste alleanze hanno: ci deve essere un avanzamento concreto per tutti, dei progetti condivisi, uno slancio a migliorare questo mondo. Altrimenti l’arcobaleno sulle nostre magliette possiamo disegnarcelo tranquillamente da soli.

Leggi anche

Potrebbe interessarti anche

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.