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Come funzionano le batterie al litio che hanno vinto il Nobel per la chimica

Author: Anna Lisa Bonfranceschi Wired

Ricaricabili e leggere hanno rivoluzionato il nostro modo di comunicare, muoversi e lavorare. Ecco come sono nate e come funzionano le batterie al litio che oggi hanno vinto il Nobel

batterie al litio
(foto via Pixabay)

Quest’anno il Nobel per la chimica va al mondo ricaricabile. A qualcosa che ha rivoluzionato il nostro modo di comunicare, muoverci e lavorare, e di conservare l’energia a partire dagli inizi degli anni Novanta. Qualcosa che vive all’interno di smartphone, computer portatili e veicoli elettrici. È arrivato così questa mattina l’annuncio dell’Accademia reale delle scienze svedese del premio Nobel per la chimica a John B Goodenough, M Stanley Whittingham e Akira Yoshino, meritevoli di aver rivoluzionato le nostre vite grazie alla creazione delle batterie al litio. Ciascuno ha contribuito a una fetta della rivoluzione che avrebbe modificato le nostre abitudini: Whittingham ha sviluppato le prime batterie al litio, Goodenough e Yoshino hanno aiutato con il loro lavoro ad aumentarne la potenza e la sicurezza, trasformando un iniziale prototipo in un prodotto commerciale oggi diffusissimo. Ma cosa sono le batterie al litio, come funzionano e perché il loro sviluppo è stato così importante?

Le batterie al litio

Il vero protagonista del Nobel, oltre gli scienziati, è lui: il litio, un metallo, l’elemento solido più leggero. Il litio puro è piuttosto instabile, più comune è invece il litio sotto forma di ione (carico positivamente, per la perdita di un elettrone). Ed è questa particella carica positivamente la base delle batterie da Nobel, dispositivi ad alta densità energetica, che possono essere ricaricati innumerevoli volte senza perdere efficacia. Una rivoluzione per immagazzinare l’energia elettrica e usarla al bisogno (l’essenza delle batterie in sé), resa possibile grazie alla capacità degli ioni litio di muoversi tra gli elettrodi della batteria senza reazioni chimiche li modificano. Grazie alla loro capacità di intercalarsi, essere ospitati, all’interno dei materiali usati negli elettrodi stessi. Una conquista avvenuta, passo dopo passo.

Per comprendere i passi che hanno portato oggi al premio Nobel è utile forse ricordare prima come funziona una batteria al litio. Si tratta di un dispositivo capace di immagazzinare e rilasciare energia elettrica, attraverso flusso di elettroni tra due elettrodi. Questo flusso di elettroni va dall’elettrodo negativo (anodo) a quello positivo (catodo), e viene ripristinato quando le batterie vengono ricaricate (permettendo al ciclo di ricompiersi). Quest’animazione della Nasa per spiegare il funzionamento di un aeroplano elettrico rende bene l’idea.

Il protagonista del Nobel: il litio

La storia del litio comincia a diventare una storia da Nobel quando negli anni Settanta, in piena crisi del petrolio e alla ricerca di modelli energetici alternativi, Stanley Whittingham viene arruolato al lavorare nel campo per conto della Exxon. Sarebbe stata proprio la capacità del litio a donare così facilmente elettroni ad attirare l’attenzione del ricercatore britannico, al lavoro per cercare soluzioni al problema dell’immagazzinamento dell’energia all’interno di batterie ricaricabili. Whittingham pensò di utilizzare il litio metallico come anodo di una batteria, ovvero come l’elettrodo negativo da cui si muovono gli elettroni. Come catodo della batteria (l’elettrodo positivo) il ricercatore utilizzò un materiale fatto di disolfuro di titanio, una sostanza che al suo interno può ospitare ioni di litio. La batteria messa a punto da Whittingham funzionava così, come mostrato nell’immagine: gli ioni litio (così come gli elettroni) si muovevano dall’anodo al catodo con disolfuro di titanio, e da qui venivano riportati indietro quando la batteria veniva rimessa in carica.

Il prototipo iniziale della batteria di Whittingham(foto: Johan Jarnestad/The Royal Swedish Academy of Science)

Batterie al litio, da prototipo a prodotto commerciale

La batteria di Whittingham però mancava di praticità: il litio metallico usato nell’anodo era troppo esplosivo. Venne aggiunto alluminio e modificato l’elettrolita, ma l’abbassamento dei prezzi del greggio fece diventare obsoleto l’interesse di Exxon nella ricerca sul campo, e così anche il lavoro di Whittingham venne interrotto. Solo con l’arrivo sulla scena di Goodenough le batterie al litio avrebbero cominciato a riguadagnare interesse e si sarebbero avviate a diventare quello che sono oggi. Nel corso degli anni Ottanta Goodenough infatti intuì che cambiando la costituzione del catodo si sarebbe potuta aumentare la potenza delle batterie: sostituendo il disolfuro di titanio con l’ossido di cobalto il ricercatore di Oxford riuscì a mettere a putno una batteria da 4 volt, il doppio di quella di Whittingham.

La batteria al litio di Goodenough, due volte più potente di quella di Whittingham (Foto: Johan Jarnestad/The Royal Swedish Academy of Science)

Sarebbe stato il bisogno di batterie leggere e potenti arrivato dall’Estremo oriente a dare una spinta decisiva alla ricerca sulle batterie agli ioni di litio. Curiosiamente pescando proprio dall’industria del petrolio. Akira Yoshino, il terzo protagonista del Nobel della chimica, pensò di utilizzare il coke petrolifero (un sottoprodotto della lavorazione del prodotto) per la costruzione del materiale dell’anodo per alloggiare gli ioni di litio, in modo analogo a quanto fatto dall’ossido di cobalto nel catodo. Ne risultò un prodotto stabile, leggero e sicuro, pronto dalla metà degli anni Ottanta a diventare un prodotto commerciale.

La batteria a litio di Yoshino, quella che divenne poi il primo prodotto commerciale (Foto: Johan Jarnestad/The Royal Swedish Academy of Science)

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