Categories: Economia

I Laburisti inglesi si arrendono alla classe media e ai grandi interessi economici (prima parte)

Author: Bill Mitchell Rete MMT

Il post del mercoledì sul mio blog è ideato per darmi maggiori occasioni per scrivere.

Ma nell’ultima settimana, Syriza ha perso le elezioni in Grecia (era ora) e il partito dei Laburisti inglesi ha confermato di essere più interessato a soddisfare le richieste della classe media urbana (di Londra) e del grande business piuttosto che mantenere fede ai suoi sostenitori di riferimento, la classe lavoratrice territoriale. Molti aspetti devono esser presi in considerazione. Domani tratterò delle elezioni in Grecia. Oggi commento un po’ lo stato della Brexit nel Regno Unito e la resa del Partito Laburista. Infine metterò a disposizione un po’ di buona musica (per coloro che hanno gusti simili ai miei).

La democrazia rappresentativa

Il sistema di governo nel Regno Unito è basato sul principio della democrazia rappresentativa, con una monarchia costituzionale al vertice, una reliquia del passato.

Nella House of Commons britannica siedono i rappresentanti delle persone che li eleggono. In Australia, rendiamo questo collegamento più esplicito perché la nostra lower house si chiama House of Representatives [Camera dei Rappresentanti, NdT]. Questi rappresentanti appartengono in genere a partiti politici, ma sono anche responsabili nei confronti dei loro elettori, o, nel linguaggio britannico, nei confronti dei loro collegi elettorali per i voti che questi hanno espresso.

Loro operano all’interno di un quadro costituzionale che limita i loro poteri. C’è stato un lungo dibattito sul fatto che questi componenti debbano sempre rappresentare il punto di vista dei loro collegi elettorali o se possono esprimere il proprio giudizio, anche se sono in disaccordo con quanto desiderano gli elettori.

Il 3 novembre del 1774, il parlamentare conservatore – Edmund Burke – una luce guida per i conservatori moderni (o almeno così dicono), fu eletto per Bristol e il suo “mandato” fu delineato nel suo famoso discorso – Speech to the Electors of Bristol at the Conclusion of the Poll  [Discorso agli elettori di Bristol alla conclusione della votazione, NdT] – che è considerato il modello secondo cui cui i rappresentanti eletti non devono riflettere i desideri degli elettori, ma, piuttosto, rappresentarli usando giudizio.

Egli disse in quel discorso:

“Il tuo rappresentante ti deve non solo la sua diligenza, ma anche il suo giudizio; se sacrifica il suo giudizio alla tua opinione, lui ti tradisce invece di servirti”.

Il discorso proseguiva nel delineare un approccio al concetto di democrazia profondamente ambiguo.

Burke era contrario all’andirivieni dei parlamentari che si verifica nelle democrazie.

Egli considerava che “I dissensi nelle repubbliche sono stati e sono tanto abbondanti quanto abili come quelli nelle monarchie delle peggiori oppressioni e ingiustizie”.

Egli considerava che i processi nei quali i “dissensi” avevano voce in capitolo fossero una pericolosa minaccia per lo Stato e condizionava il modo in cui egli concepiva la democrazia rappresentativa.

Gli elettori erano inclini ad essere impulsivi e a perdere la ragione.

Questo punto di vista influenzò le sue conclusioni sul fatto che un membro eletto dovesse essere vincolato dalle opinioni degli elettori:

“… queste sono cose assolutamente sconosciute alle leggi di questa terra e che nascono da un errore di fondo sull’intero ordine e sullo spirito della nostra costituzione”.

Si, si trattava di un sistema di leggi dominato dagli interessi delle classi nobili e terriere.

Il Parlamento non era lì a servire i desideri del popolo, ma a servire gli interessi della nazione, come ritenuto dai suoi rappresentanti.

Una visione molto paternalistica, che è stata tirata fuori nel dibattito in corso sulla Brexit per giustificare il voto dei parlamentari contro i desideri dei loro collegi elettorali.

Gerard O’Brien scrisse nel suo studio del 1993:

“Nonostante la relativa scarsità di controlli burocratici, le élite al potere della Gran Bretagna e dell’Irlanda del XVIII secolo mantennero una stretta presa sulle loro società con metodi tradizionali. In effetti, proprio l’assenza di istituzioni governative era di per sé una forma di controllo sociale in quanto circoscriveva le modalità e le opportunità di espressione delle opinioni popolari e le indirizzava verso canali stretti e manipolatori”.

(Rif. O’Brien G. (1993) “The Unimportance of Public Opinion in Eighteenth-Century Britain and Ireland” Eighteenth-Century Ireland, Vol. 8 pp 115-127 [La scarsa importanza dell’opinione pubblica nella Gran Bretagna e nell’Irlanda del XVIII secolo, NdT])

Egli andò avanti a dimostrare che, mentre c’era una apparenza in cui gli elettori (gli “outsider”) potevano “accedere … alle orecchie e alle menti dei decisori”, la realtà era abbastanza diverso [per] “. . . i dibattiti controllati dalla potente struttura politica”.

Persino in questo contesto, ci fu un acceso dibattito su quanta autonomia avrebbe dovuto avere il membro eletto.

Oltretutto, una comprensione del contesto storico è molto importante.

Il contesto in cui Burke pronunciò il suo discorso è totalmente inapplicabile alla Gran Bretagna moderna, in cui il sistema politico è dominato da partiti che offrono opzioni agli elettori e promettono di dare risultati se eletti.

Burke stava rimproverando severamente il sistema del “pegno” che i gruppi di interesse tentavano di imporre a qualsiasi futuro rappresentante – come il fatto che il membro del Parlamento non avrebbero mai cercato di mettere a rischio il governo.

Uno studio storico dell’epoca di Lucy Sutherland – Edmund Burke and the Relations Between Members of Parliament and Their Constituents  [Edmund Burke e le Relazioni tra i Parlamentari e i Loro Elettori, NdT] – pubblicato su Studies in Burke and His Time (1968), fornisce un resoconto dettagliato del perché il discorso di Burke è coerente con i suoi tempi.

Quindi, tirarlo fuori ora come un modo per giustificare i parlamentari della House of Commons che ignorano la volontà dei loro elettori è una violazione della testimonianza storica, anche se potrebbe essere conveniente avere un’autorità à la Burke per criticare il dibattito sulla Brexit teso a giustificare la richiesta ingiustificabile di un secondo referendum.

Si consideri ad esempio il tentativo del New Statesman – Sorry, the role of an MP is to be representative, not a delegate  [Siamo spiacenti, il ruolo di un deputato è quello di essere un rappresentante, non un delegato, NdT] (7 dicembre 2015).

Il punto è questo. Nell’era moderna della democrazia britannica (e nel mondo anglosassone in generale, almeno), riteniamo opportuno che un deputato, una volta eletto, non violi le preferenze degli elettori della sua circoscrizione o del suo elettorato.

Perché dico questo?

Questo post sul blog – Comparing the 2016 Referendum vote with the 2019 Withdrawal Act outcome [Confronto tra il voto referendario del 2016 e il risultato del Withdrawal Act del 2019, NdT] (16 gennaio 2019) è significativo per la discussione.

Il Referendum 2016 fu molto chiaro. La domanda era al di là di ogni complessità:

Il Regno Unito dovrebbe restare un Paese membro nell’Unione Europea o dovrebbe lasciarla?

E le istruzioni erano ugualmente semplici. Rispondete mettendo una X

  • Rimanere un Paese membro dell’Unione Europea
  • Lasciare l’Unione Europea

Questa scelta binaria è semplice così com’è. Non c’erano condizioni imposte per vincolare la scelta (accordi di ritiro ecc.).

IN O OUT!

Il governo dell’epoca promise nella sua documentazione di supporto consegnata a maggio 2016 (la “guida di 16 pagine”) che:

“Questa è una vostra decisione. Il governo farà quello che avrete deciso”

Nessuna ambiguità quindi.

Mentre le “aree di voto” o le “aree contabilizzate” stabilite dalla legge del 2015 che istituiva il referendum non erano allineate con i 650 collegi elettorali che eleggono i parlamentari (che erano per lo più definiti dai confini delle autorità locali), le successive ricerche sono state in grado di analizzare il voto sulla Brexit per collegio elettorale.

I risultati di riepilogo (riportati in maggior dettaglio in quel post del blog) sono stati:

  1. Il 62,9% dei collegi elettorali ha votato per l’uscita. Ciò significa che 409 parlamentari che sedevano nei Commons rappresentavano gli elettori che votavano per uscire.
  2. La differenza tra il 52% dei voti a favore dell’uscita e il 62,9% dei collegi elettorali è dovuta principalmente al raggruppamento dei voti rimanenti nelle aree urbane più grandi. Le suddivisioni spaziali suggeriscono che il voto a favore dell’uscita sia stato disperso in modo più uniforme in tutto il Regno Unito.
  3. E questo è il punto importante: il 60,7% dei collegi dei Laburisti molto probabilmente ha votato a favore dell’uscita, il 75,4% dei Conservatori, il 33% dei Liberaldemocratici e il 60 per cento dei DUP.

Ciò significa che 159 delle 262 circoscrizioni elettorali vinte dai Laburisti alle elezioni del 2017 (seggi alla House of Commons) hanno votato a favore dell’uscita dall’UE nel referendum del giugno 2016.

Nel complesso, la conclusione è inequivocabile: a questo proposito, ci sono molti parlamentari nei partiti principali che non rappresentano le opinioni dei loro collegi elettorali.

Il partito Laburista è il peggior responsabile. La democrazia rappresentativa richiede che questi parlamentari rappresentino i loro elettori, indipendentemente dalle loro opinioni personali.

Quando a maggio a Londra ho incontrato il parlamentare Laburista per il Derby North, Chris Williamson, mi ha detto categoricamente che aveva fatto una dura campagna per rimanere in Unione Europea, come da preferenza personale, ma il 57,2 per cento dei suoi elettori aveva votato per uscirne. Si sentiva quindi obbligato a rappresentare quella visione.

A ciò fece seguire un articolo su Morning Star – Leaving the EU and entering new economic paradigm [Lasciare l’UE ed entrare in un nuovo paradigma economico, NdT] (24 maggio 2019) – che mise a fuoco alcune delle questioni di cui abbiamo discusso circa una settimana prima.

Scrisse:

Ho portato avanti una forte campagna per rimanere e riformare l’UE. Ho bussato alle porte quasi tutte le sere durante la campagna referendaria e, quando non lo facevo, è perché stavo parlando a riunioni pubbliche in East Midlands per convincere le persone a votare a favore del “restare”. Ho organizzato banchetti nel fine settimana nel centro della città di Derby per promuovere la campagna a favore del “restare” e mi sono alzato all’alba il giorno prima e il giorno del referendum, per distribuire volantini ai pendolari del primo mattino alla stazione degli autobus e alla stazione ferroviaria di Derby.

Ma nonostante i miei sforzi migliori, il 57,2% di coloro che hanno votato nel Derby ha optato per l’uscita, la percentuale maggiore del Paese nel suo insieme. Questo è il motivo per cui credo che dobbiamo sostenere i desideri espressi in quell’esercizio democratico.

La democrazia non è una proposta “prendere o lasciare”. Le voci che chiedono un cosiddetto “voto popolare” in un referendum confermativo e quelle che chiedono l’abrogazione dell’articolo 50 stanno giocando un gioco molto pericoloso.

Ho un grande rispetto nei confronti di quella posizione.


Originale pubblicato il 10 luglio 2019 su bilbo.economicoutlook.net/blog/

Traduzione di  Pier Franco Luciani, Supervisione di  Maria Consiglia Di Fonzo

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