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Cosa ha fatto davvero l’Italia per scongiurare un nuovo lockdown

Author: Giancarlo Sturloni Wired

Potenziare il contact tracing, la medicina territoriale, i trasporti pubblici e i piani di emergenza: la lista della spesa in vista di una seconda ondata di Covid-19 era condivisa da tutti. Ma poi è puntualmente arrivata, cogliendoci di nuovo impreparati

Ci risiamo: l’illusione che l’estate si portasse via il coronavirus e che potessimo evitare una seconda ondata si è ormai dissolta di fronte all’impennata dei contagi. Per settimane il numero di nuovi casi è rimasto contenuto, ma Sars-CoV-2 stava solo aspettando l’occasione giusta per allungare il passo. L’ha fatto nella settimana dal 7 al 13 ottobre, quando i contagi in Italia sono raddoppiati, seguiti a distanza di una settimana anche dalle vittime. Lasciandoci di sasso, a guardare increduli la fuga in avanti dell’epidemia, che ormai dilaga da nord a sud. Insomma, ci siamo fatti fregare per la seconda volta. E allora non possiamo che chiederci se in questi mesi sia stato fatto il possibile per scongiurare un’altra emergenza che nessuno, davvero nessuno, ha alcuna voglia di rivivere.

Già a maggio sapevamo perfettamente di cosa avremmo avuto bisogno per arginare una possibile seconda ondata. Anzitutto di un sistema di contact tracing più efficace per spegnere sul nascere i focolai e contenere la diffusione dell’epidemia. Quindi di potenziare la medicina territoriale, per assistere i pazienti con sintomi più lievi, evitando di gravare sugli ospedali, dove invece si doveva aumentare il numero di posti letto nei reparti di terapia intensiva. E poi ancora: investimenti per rendere più sicura la mobilità sui mezzi pubblici in vista della riapertura autunnale di scuole, fabbriche e uffici. Infine, un piano pandemico per gestire un’eventuale seconda ondata in modo coordinato e proattivo, prendendo decisioni rapide ed efficaci – perché basate sull’evidenza scientifica ormai disponibile – in caso si fossero rese necessarie restrizioni per mitigare l’epidemia.

Passata la fase acuta dell’emergenza, abbiamo avuto cinque mesi per attrezzarci in vista dell’autunno, la stagione preferita dalle infezioni respiratorie. Una volta tanto, non mancavano neppure le risorse finanziarie: bisognava soltanto spenderle bene e senza perdere tempo. Che cosa ha fatto il governo in questi mesi? E com’è riuscito il maledetto coronavirus a fregarci un’altra volta? Questa è una maratona e forse c’è ancora tempo per recuperare il terreno perduto. Perciò vale la pena chiedersi che cosa è andato storto e di cos’altro abbiamo più urgente bisogno per correre alla pari con Sars-CoV-2.

Il primo argine è crollato

Non riusciamo a tracciare tutti i contagi, a mettere noi attivamente in isolamento le persone. Chi sospetta di aver avuto un contatto a rischio o sintomi stia a casa”. Il primo grido di allarme è arrivato per bocca di Vittorio Demicheli, direttore dell’Azienda territoriale sanitaria (Ats) di Milano, in un’intervista rilasciata a SkyTg24 il 19 ottobre. Due giorni dopo gli ha fatto eco Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza: “Milano, Napoli, probabilmente Roma sono già fuori controllo sul piano del contenimento dell’epidemia, cioè test e tracciamento. Quando non riesci a contenere devi mitigare”. Nelle regioni più colpite, il contact tracing che avrebbe dovuto fare da primo argine contro la seconda ondata ha ormai ceduto.

La conferma è arrivata dai dati elaborati dalla Fondazione Gimbe nella settimana del 14-20 ottobre, quando con un brusca impennata il rapporto fra casi positivi e casi testati è passato dal 7 a quasi l’11%, certificando “il fallimento del sistema di testing & tracing per arginare la diffusione dei contagi”. Eppure su questo fronte dei miglioramenti c’erano stati. Basti pensare che la scorsa primavera, nella prima fase dell’epidemia, non si riusciva ad andare oltre i 30mila test giornalieri; inutili al fine del tracciamento perché erano riservati per lo più a pazienti ospedalizzati o con sintomi evidenti della Covid-19. Oggi siamo intorno a 150mila tamponi al giorno e il commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri ha promesso di arrivare presto a 200mila. Ma evidentemente non è abbastanza.

Del resto Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di Microbiologia dell’Università di Padova e considerato l’artefice del successo veneto nel contenere la prima ondata dell’epidemia, ripete da tempo che per riuscire a spegnere sul nascere ogni focolaio di Covid-19 ne sarebbero serviti molti di più. A maggio aveva presentato al governo un piano per dotare l’Italia di un sistema di sorveglianza attiva in grado di effettuare 400mila tamponi al giorno. Ma a quanto pare, Crisanti non ne ha saputo più nulla, e da allora quel piano giace in qualche cassetto ministeriale.

Inoltre non conta solo quanti tamponi si riescono a fare. Se passano troppi giorni per ottenere l’esito, ai fini del contact tracing è comunque inutile. I primi segni di sofferenza si sono manifestati nella seconda settimana di ottobre, quando in diverse città si sono formate code chilometriche ai drive through. “Stiamo entrando nella seconda fase e abbiamo avuto tanti mesi per prepararci. Ma le file di 8-9 ore ai drive in dimostrano che non abbiamo utilizzato adeguatamente questo tempo”, aveva ammesso Agostino Miozzo, presidente del Comitato tecnico scientifico del ministero della Salute.

Secondo Crisanti e diversi altri esperti adesso non resta che resettare il sistema con restrizioni abbastanza drastiche da abbassare la curva epidemica. Il tracciamento funziona finché i numeri dei contagi sono contenuti, ma con 19 mila casi giornalieri è impossibile. Nelle aziende sanitarie mancano gli operatori per intervistare le persone positive al tampone e rintracciare tutti i loro contatti: sebbene in molte realtà locali il personale dedicato sia stato raddoppiato o triplicato in questi mesi, in tutta Italia si stima che i tracciatori siano circa 9.200, un numero inadeguato nello scenario attuale. E senza un sistema di sorveglianza attiva in grado di mantenere bassi livelli di trasmissione non si può convivere con questo coronavirus: presto o tardi la curva epidemica si impenna e bisogna ricorrere alle restrizioni.

Un supporto tecnologico al tracciamento doveva arrivare dall’app Immuni, che però si è rivelata un flop. Azzoppata fin dal lancio da una comunicazione istituzionale incapace di spiegarne i vantaggi e motivare le persone a scaricarla, finora ha dato un contributo irrilevante al contact tracing: da giugno a oggi solo 1.134 utenti l’hanno usata per segnalare di essere positivi, appena lo 0,5% degli oltre 232 mila casi d’infezione registrati nello stesso periodo. Si è parlato molto della scarsa collaborazione degli italiani e poco del fatto che scarseggiano i contact tracer per gestire le segnalazioni e offrire un supporto alle persone che ricevono la notifica sul cellulare. E ora si scopre che persino medici e aziende sanitarie guardano l’app con diffidenza e talvolta non sanno neppure cosa fare quando arrivano le segnalazioni dagli utenti, che rischiano così di essere ignorate. Forse non è troppo tardi per correre ai ripari, visto che dovremo convivere ancora a lungo con Sars-CoV-2, ma bisogna colmare il vuoto che circonda Immuni se vogliamo che possa contribuire alla gestione dell’epidemia.

Cercansi medici e infermieri

Il secondo argine al coronavirus doveva essere la medicina territoriale: medici di base, aziende sanitarie, servizi di prevenzione. Di recente si è proposto di coinvolgere pediatri e medici di famiglia per eseguire i tamponi, ma spesso scarseggiano i dispositivi di protezione e spazi adeguati negli ambulatori per garantire la sicurezza. La telemedicina, poi, è ancora nel libro dei sogni. E così, in assenza di una rete di assistenza capillare, capita ancora che chi avverte i sintomi della malattia si precipiti al pronto soccorso. Inoltre, delle 1.200 Unità speciali di continuità assistenziale (Usca) che avrebbero dovuto garantire l’assistenza domiciliare delle persone con sintomi più lievi ne risultano  attive appena la metà.

Una fetta importante del dibattito si è concentrata sui posti letto nelle terapie intensive, perché è un parametro facile da misurare e perché la percentuale di occupazione è un indicatore importante per monitorare le criticità del sistema sanitario. Alcune Regioni si stanno già pericolosamente avvicinando alla soglia critica, fissata al 30% dei posti letto occupati da pazienti Covid. Oltre questa soglia assicurare cure adeguate a tutte le altre persone che necessitano di terapia intensiva per altre malattie gravi diventa sempre più difficile. Secondo il commissario Arcuri, prima della pandemia si contavano 5.179 posti letto in terapia intensiva, ora sono 6.628 e si dovrebbe arrivare a 8.288. Le attrezzature sono già stata distribuite alle Regioni ma all’appello ne mancano ancora più di 1.600 senza che nessuno sappia bene perché.

Il vero problema è però assicurare che attorno ai quei letti operi un numero adeguato di personale specializzato. Come ha raccontato a Wired Antonino Giarratano, presidente della Siaarti, per garantire otto posti letto in terapia intensiva sono necessari almeno 12 anestesisti-rianimatori e un infermiere ogni due pazienti, che diventa un infermiere per ogni paziente per le malattie contagiose come la Covid-19.

Decenni di tagli alla sanità hanno però svuotato le corsie. Nelle piante organiche degli ospedali e degli ambulatori di medicina generale si contano 20 mila posizioni vacanti tra medici, infermieri e operatori sanitari. Diverse Regioni hanno indetto concorsi, ma le assunzioni sono ancora di là da venire. La carenza di personale specializzato – difficile da reclutare in emergenza, visto che stavolta la pandemia minaccia tutte le regioni – non risparmia i reparti di terapia intensiva, dove secondo un rapporto dell’Università Cattolica di Roma si è passati da 2,5 medici per posto letto a 1,6. “Purtroppo in molte terapie intensive ci troviamo a lavorare con un infermiere ogni tre pazienti e molti meno intensivisti di quanto sarebbe necessario”, conferma Giarratano.

Si naviga ancora a vista

Grande assente nella prima ondata epidemica è stato un piano pandemico che consentisse una gestione proattiva dell’emergenza. Qualche settimana fa è stato reso pubblico un documento basato su quattro scenari e altrettante fasi d’intervento per gestire il periodo autunnale e invernale. A occhio e croce in diverse Regioni siamo già nello scenario 3, che prevede lockdown locali, ma gli interventi sembrano essere rimasti fermi allo scenario 2, peraltro attuati solo in parte, perché nelle situazioni più critiche avremmo già dovuto avviare la chiusura graduale di scuole e università, limitare gli spostamenti e far scendere le saracinesche sui locali notturni.

L’impressione è che si continui a navigare a vista, senza neppure una mappatura affidabile dei dati locali dell’epidemia che possa fare da guida per interventi mirati a livello territoriale, e rinviando le misure di contenimento necessarie a quando è già troppo tardi. Intervenire in modo proporzionato al rischio è un principio cardine della protezione civile, ma con le epidemie non sempre funziona perché si finisce per chiudere il recinto quando i buoi sono già scappati. Il concetto di rischio riguarda quel che deve ancora accadere, cosicché modulare la risposta al coronavirus basandosi sui dati odierni (che in realtà riflettono la situazione dei giorni scorsi, quando sono effetivamente avvenuti quei contagi) non è il modo migliore per affrontare quel che accadrà domani o nelle prossime settimane. Ragionando così, l’epidemia sarà sempre un passo avanti.

A maggior ragione quando la crescita dei contagi si fa esponenziale, come si osserva ormai da due settimane a questa parte. Misure graduali e commisurate alla situazione odierna sono la ricetta per il disastro. Noi corriamo guardando indietro e l’epidemia è già balzata avanti, accelerando a ogni passo. Linearità contro esponenziale: è matematica, bellezza.

Di fronte al raddoppio dei casi nelle ultime due settimane, Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, ha affermato senza mezzi termini che “l’avvicendarsi di Dpcm a cadenza settimanale e la parallela introduzione di ulteriori misure in alcune Regioni, dal coprifuoco alla chiusura dei centri commerciali nei weekend, dimostrano che la politica non ha una vera strategia per contenere la seconda ondata. Se, come riferito dal premier Conte in parlamento, l’obiettivo è quello di tutelare sia la salute che l’economia, ggoverno, Regioni ed enti locali devono prendere atto che il virus corre sempre più veloce delle loro decisioni. Non si può continuare ad inseguirlo basandosi sui numeri del giorno che riflettono i contagi di 15 giorni prima, ma occorre guardare alla proiezione delle curve a due settimane per decidere immediatamente lockdown mirati, eventuali zone rosse locali e misure restrittive molto più rigorose”.

Serve coraggio, non false speranze

Adesso il governo si trova di fronte a scelte difficili, inutile negarlo. Una posizione scomoda e peraltro condivisa con molti dei nostri vicini europei, a riprova che la sfida è ardua. Resta però l’impressione che in molti ambiti non si sia fatto granché. Si pensi per esempio ai trasporti pubblici: non era difficile prevedere che con la riapertura delle scuole e la ripresa della attività produttive i nodi sarebbero venuti al pettine. Nei mesi scorsi qualche amministrazione locale si è data da fare per incrementare la flotta degli autobus, mettendoci una pezza sempre troppo corta. Ma dopo tanti discorsi sulla necessità di ripensare la mobilità urbana, ci siamo ritrovati con una manciata di piste ciclabili in più. Pochino. Che cosa si sperava che sarebbe successo per evitare gli affollamenti sui bus e i treni dei pendolari, dove per ammissione della ministra delle Infrastrutture e dei trasporti Paola De Micheli una capienza all’80% significa stipare cinque persone a metro quadro, alla faccia del distanziamento?

Forse nelle ultime settimane abbiamo passato troppo tempo a darci pacche sulle spalle e a ripeterci quanto eravamo stati bravi a contenere il contagio, sperando che qualcosa di misterioso (il clima mite? un lockdown più lungo? i comportamenti più responsabili degli italiani?) potesse evitarci la malasorte dei nostri vicini europei alle prese con numeri ben più elevati. Un po’ come dovevano aver pensato loro quando era toccato a noi a essere investiti per primi dall’epidemia. Invece avremmo fatto meglio guardare alla Francia – dove le cose andavano persino peggio: boom di contagi, tracciamento saltato, carenza di posti letto e ospedali in affanno, un’app di tracciamento che persino il premier ha ammesso di non avere scaricato – come si guarda a un possibile destino comune, solo sfasato di qualche settimana. Preparandoci all’impatto e facendo tutto il possibile per mitigare i danni.

Al contrario, affermare come è stato fatto quest’estate da un manipolo di esperti assai idolatrati della destra italiana – spesso senza neppure il conforto delle evidenze scientifiche – che il virus aveva i giorni contati, che la scienza l’avrebbe sconfitto o che sarebbe sparito con il caldo ha offerto una falsa speranza di cui ora rischiamo di pagare il conto. Ogni volta che si sminuisce il rischio, infatti, le persone sono indotte ad abbassare la guardia, a non prendere sul serio la minaccia e a non fare abbastanza per proteggersi. È stato un gioco facile perché tutti avevamo voglia di sbarazzarci dei profeti di sventure e di goderci l’estate. C’è da scommettere che se Sars-CoV-2 avesse i denti avrebbe ghignato.

Non è più il tempo delle rassicurazioni e delle false speranze. Promettere un vaccino sotto l’albero di Natale come ha fatto il premier Giuseppe Conte – mentre se anche la sperimentazione avesse successo, come ci auguriamo, per via dei tempi di approvazione, produzione e distribuzione quest’inverno saremmo ugualmente costretti a cavarcela senza – è un azzardo rischioso: le promesse non mantenute incrinano la fiducia, il capitale più importante per chi è chiamato a gestire una crisi. E non è più nemmeno il tempo di scaricare la colpa sui cittadini che non installano Immuni, che sono invitati a stare a casa anche se bar, ristoranti e palestre sono aperti, o che salgono sull’autobus pure quando è affollato non avendo altri mezzi per recarsi al lavoro.

La maggior parte delle persone non è terrorizzata, altrimenti si barricherebbe dentro casa come le vittime dei film dell’orrore, senza bisogno di divieti da parte del governo. Perciò il punto non è tranquillizzare, come si è sentito invocare più volte, anche di recente. La gente è stanca, avvilita, disorientata e forse un po’ arrabbiata, non in preda al panico. Questo è il tempo delle scelte coraggiose invocate nell’appello di cento scienziati italiani rivolto a Conte e al presidente Mattarella, per non essere costretti a ricorrere a misure ancora più drastiche in seguito, e destinate a durare più a lungo, causando così un maggior impatto sull’economia. Misure coraggiose per infondere coraggio anche tutti noi. Senza perdere altro tempo. Parafrasando il proverbio cinese, il secondo momento migliore per agire è adesso.

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