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Caso Regeni, da cinque anni si sceglie di non sapere

Author: Luigi Mastrodonato Wired

Il 25 gennaio 2016 spariva lo studente italiano. Il nostro Paese ha atteso la verità da parte delle autorità egiziane, sapendo benissimo che non sarebbe mai arrivata

Sono passati cinque anni esatti da quando quella che sembrava un’innocua breaking news rilanciata dalle principali agenzie italiane dava il via alla più terribile delle storie, che ancora oggi tra mille incognite continua a segnare le nostre vite. Si erano perse le tracce di un ricercatore italiano di 28 anni, Giulio Regeni, che si trovava in Egitto per motivi di studio. Il corpo senza vita venne ritrovato nove giorni dopo quel 25 gennaio del 2016, abbandonato lungo una strada e pieno di segni di vessazioni e torture.

(Photo by Stefano Montesi – Corbis/Getty Images)

Se c’è una parola che meglio di tutte le altre può definire la vicenda Regeni, oggi come ieri, è ‘omertà’. Fin dal primo momento della sua scomparsa e poi del suo ritrovamento, è apparso chiaro come la ricerca della verità su quanto gli fosse successo e sul perché sarebbe stato un tortuoso percorso a ostacoli. Dalla sua insegnante all’università di Oxford, alle istituzioni egiziane, passando perfino dai servizi segreti italiani recatisi al Cairo quando il suo corpo ancora non era stato rinvenuto, di Giulio Regeni e della sua sorte si è sempre detto troppo poco e chi poteva sapere qualcosa ha sempre preferito i depistaggi piuttosto che l’aiuto alle indagini.

Se il caso Regeni è diventato di dominio nazionale e internazionale è grazie alla testardaggine dei genitori Paola e Claudio, ma anche della società civile e delle organizzazioni come Amnesty International. Fin dal primo giorno hanno fatto sentire la loro voce, hanno sensibilizzato, hanno informato, e questo ha permesso che i riflettori continuassero a restare puntati sulla vicenda, senza che il desiderio di insabbiamento di molti riuscisse a essere portato a compimento.

Sono passati cinque anni esatti dal giorno in cui scompariva Giulio Regeni e solo ora sembra che qualcosa stia iniziando a muoversi. Il 20 gennaio scorso la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro agenti dei servizi segreti egiziani, dopo aver ricostruito il modo brutale con cui per giorni il ricercatore friulano è stato brutalmente torturato. Sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate le accuse, in quello che appare come un primo segno di cedimento del muro di omertà e un passo da gigante nella ricostruzione della verità. Il processo si terrà in Italia senza gli imputati, perché le autorità egiziane non solo continuano a non collaborare, ma a tentare di insabbiare la storia del personaggio scomodo eliminato per le sue ricerche, a favore della vecchia favoletta della rapina finita male.

Così facendo, l’Egitto ha disatteso le ripetute promesse che il suo governo aveva fatto ai nostri politici e ai genitori della vittima. Ma diciamolo, i nostri politici non si sono mai scomodati a mettere in dubbio quelle stesse promesse, prendendole per buone. Già il 4 febbraio 2016, quando il cadavere dello studente veniva rinvenuto, Al Sisi telefonava al premier Matteo Renzi promettendogli di “perseguire ogni sforzo per togliere ogni ambiguità”. Il 16 marzo, lo stesso si rivolgeva alla famiglia Regeni: “Vi prometto che faremo luce e arriveremo alla verità, che lavoreremo con le autorità italiane per dare giustizia e punire i criminali che hanno ucciso vostro figlio“. Il 17 luglio sempre del 2016, Nicola Latorre, Senatore Pd, volava al Cairo per reclamare la verità, ottenendo rassicurazioni. Le stesse parole che avrebbero ricevuto il vicepremier Salvini e altri politici a seguire.

È questo il più grande paradosso della storia di Regeni. Uno stato come l’Egitto che per cinque anni ha continuato a mistificare il reale, a deviare le indagini, a proteggere i suoi carnefici, è allo stesso tempo uno stato che ha visto crescere i rapporti economici con quell’Italia che pubblicamente gli lanciava accuse, ma che in privato firmava contratti commerciali. Il Cairo non solo continua a essere uno dei principali mercati di sbocco del made in Italy, ma lo è in particolare per quello che è un settore che suona una beffa alla luce della vicenda Regeni: l’industria bellica. In tutti questi anni, l’Italia ha continuato a mandare elicotteri militari, carri armati, armi e munizioni a un paese nella black list mondiale nell’ambito della violazione dei diritti umani e dove la prima delle vittime in questo senso è stato proprio un ragazzo italiano.

Di fronte a una tragedia come quella di Giulio Regeni verrebbe da pensare che l’Italia stia tenendo economicamente e diplomaticamente sotto scacco lo stato egiziano. Invece sta avvenendo l’esatto contrario: Roma è totalmente sottomessa al Cairo e i pochi gesti forti che sono stati fatti, come il ritiro dell’ambasciatore, hanno avuto durata limitata. Così il messaggio che passa è che i diritti umani, la democrazia, costituiscano un contorno magari desiderabile ma sicuramente non decisivo nella ragnatela dei rapporti internazionali mondiali. L’atteggiamento dell’Italia e più in generale dell’Europa ha trasmesso al regime di Al Sisi il messaggio che la repressione contro il suo popolo e contro chi calpesta il suolo egiziano potrà al massimo causare qualche condanna a parole nei consessi internazionali, ma per il resto tutto andrà avanti come prima.

Un messaggio che la dittatura egiziana sembra aver ben recepito: cinque anni dopo quella di Giulio Regeni c’è  un’altra storia simile che sta causando sdegno nella società civile e silenzio nella politica italiana ed europea. Riguarda un altro studente naturalizzato italiano, Patrick Zaki, da ormai un anno nelle carceri egiziane senza un apparente motivo. Una vicenda che va avanti con la stessa sceneggiatura di quella di Regeni: omertà, depistaggi, silenzi istituzionali e strette di mano commerciali.

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