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In Iran il rap è una spina nel fianco degli Ayatollah

Author: Wired

Tra i nomi del rap persiano arrestati dal regime in Iran ci sono Toomaj Salehi (dopo un processo nel 2021 per propaganda contro il regime, è ora accusato di aver orchestrato numerose manifestazioni e rischia di essere giustiziato), Behrad Ali Konari (imputato per l’omicidio di un miliziano) e il curdo Saman Yasin (colpevole di “guerra contro Dio”, è già stato condannato alla pena capitale). 

Il rap persiano, però, era già un problema per il regime già ben prima dell’inizio dei disordini – che, lo ricordiamo, sono scoppiati a settembre dopo la triste vicenda di Mahsa Amini, la ventiduenne presumibilmente picchiata a morte dalla polizia morale dopo essere stata arrestata per alcune ciocche di capelli che le sfuggivano dal velo. Si potrebbe dire che la sua stessa esistenza è un mistero, una sorta di anomalia del sistema: difficile immaginare un genere musicale più in conflitto con una teocrazia islamica. Quello impegnato verte interamente su tematiche di protesta o denuncia; quello meno engagé promuove un immaginario fatto di sesso, materialismo, antiproibizionismo, sovversione. Insomma, in un Paese come l’Iran aveva tutte le carte in regola per essere stroncato ancora prima di emettere i suoi primi vagiti. Come ha fatto a infiltrarsi tra le maglie della censura fino a diventare un fenomeno di costume di tale rilevanza? Un po’ di merito ce l’hanno i rapper americani che, rappresentando spesso una voce critica nei confronti della loro stessa nazione e delle sue politiche, storicamente sono stati tollerati meglio dal regime rispetto ad altre superstar occidentali. Ma per arrivare ai primi esponenti iraniani ne è dovuta passare di acqua sotto i ponti: hanno cominciato a fare la loro timida comparsa solo nel nuovo millennio, e non senza difficoltà.

Allineamenti e opposizioni

In base alle leggi varate dal governo di Teheran, in effetti, prima di pubblicare musica o fare concerti ogni artista deve sottoporre la propria produzione al Ministero della Cultura e dell’Orientamento Islamico, che rilascia un nulla osta solo a patto che le canzoni dimostrino di non tradire la tradizione persiana nella forma, e quella musulmana nella sostanza. L’hip hop presenta molteplici criticità su entrambi i fronti, ed è facile intuire che i gruppi rap autorizzati a esibirsi e pubblicare dischi siano davvero pochi. Una sparuta minoranza è allineata al regime, come Kiarash Alimi, che nel 2005 supportò attivamente la campagna dell’ex presidente Ahmadinejad con i suoi testi intrisi di critica al vetriolo verso l’Occidente e di rimandi alla religione di stato. Per gli altri, la stragrande maggioranza, è una lotta quotidiana fatta di compromessi e di piccole vittorie, nella speranza di non incorrere in conseguenze devastanti per avere osato esprimere il proprio pensiero in rima.

Emblematico è stato il caso di Hichkas, soprannominato “il padre dell’hip hop persiano” per la sua seminale importanza nella nascita della scena rap locale. Ha pubblicato il suo album di debutto Jangale Asfalt nel 2006 ma, essendo privo di autorizzazione governativa, non poteva commercializzarlo nei negozi o nei digital store. Arrestato per la prima volta nel 2006 mentre cercava di venderne alcune copie fisiche a mano per le strade di Teheran, l’ha scampata solo grazie a quella che lui stesso ha definito “auto-censura”: ovvero al fatto che, già in fase di scrittura delle canzoni, aveva evitato a prescindere linguaggio volgare, argomenti particolarmente controversi e rimandi troppo palesi all’hip hop americano, preferendo puntare su una critica sociale basata su metafore e utilizzando sonorità che campionavano gli strumenti tradizionali iraniani. 

Se le difficoltà logistiche sono diminuite con la diffusione più capillare di Internet in tutto il Paese, che ha permesso a Hichkas di avvalersi di piattaforme di streaming come SoundCloud senza mettersi a rischio vendendo CD, man mano che la sua fama aumentava cresceva anche l’ostilità del regime nei suoi confronti. Tanto che il suo secondo album – il titolo, Mojaz, sta proprio a significare ironicamente “Concesso”, come a prendersi gioco del sigillo di approvazione del ministero – era previsto per il 2008 ma è uscito solo nel 2020, dopo il suo espatrio a Londra; anche il suo produttore, il pluripremiato Mahdyar Aghajani, è dovuto fuggire a Parigi. Oggi i suoi testi sono molto più critici ed espliciti, ma cerca ancora di mediare tra ciò che vorrebbe e ciò che può dire, anche nell’ottica dei suoi occasionali ritorni in Iran. “Al di là di ciò che dicono le autorità, se fossi troppo crudo la gente non mi capirebbe, perché la nostra è una società troppo chiusa. E poi, se non puoi fare rientro nel Paese di cui parli, come fai a vedere e poi raccontare ciò che succede lì?ha dichiarato alla storica rivista Index on Censorship, che da anni si occupa di monitorare la libertà di espressione nel mondo.

Una finestra sull’altrove

Spesso è proprio chi ha la possibilità di viaggiare – e soprattutto di pubblicare musica e suonare all’estero – che riesce a trasformare la sua passione per l’hip hop in una sorta di lavoro: come Salome MC, una delle primissime donne rapper persiane, oggi residente negli Stati Uniti. Farlo dall’interno del territorio iraniano è pericoloso e disagevole, ma c’è chi continua a provarci. L’identikit è quello di giovani colti, cosmopoliti, attenti, che hanno studiato fuori dal Paese e che spesso hanno le possibilità economiche per crearsi uno studio di registrazione in casa o in una location appartata e anonima, al riparo dall’occhio scrutatore delle autorità. Chi ci mette la faccia rischia grosso, come dimostrano le vicende degli ultimi giorni. D’altra parte, più il regime si accanisce contro l’hip hop e più l’hip hop diventa un potentissimo simbolo di ribellione, allargando a macchia d’olio il suo bacino di potenziali ascoltatori. Quella tra i rapper e gli Ayatollah non è una guerra ad armi pari, ma il vincitore non è affatto scontato.

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