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Metallica: la nostra recensione di 72 Seasons

Author: Wired

I Metallica nel 2023 non cambieranno le sorti della musica, né tantomeno rivoluzioneranno un suono granitico come è quello del metal, o meglio del thrash metal – una declinazione più veloce, con influenze che arrivano dall’hardcore punk. Quello che doveva succedere da parte loro è già stato fatto e ribaltato a dovere. Però è interessante capire come una band del genere, oggi, con il nuovo album 72 Seasons si posizioni nell’attualità. Di certo ora è un momento decisamente più tranquillo, per loro.

Guardando indietro

Sono passati 20 anni da St. Anger: aprile 2003. Per chi ama la band americana, ma anche semplicemente la musica metal, quello è stato uno dei dischi più divisivi e allo stesso tempo un esperimento molto poco riuscito, secondo solo al disco collaborativo con il compianto Lou Reed, Lulu (2011), classificato all’incirca come una barzelletta o giù di lì. Poi ci sono ovviamente le rivalutazioni a distanza di anni, insomma, succede un po’ ovunque ma le tante critiche mosse a St. Anger, all’epoca, erano legate in primis a una serie di cambiamenti davvero spiazzanti. Tra i tanti c’erano gli assoli di Kirk Hammett ridotti al minimo sindacale, qualche inflessione verso il genere nu-metal che all’epoca funzionava molto e il suono della batteria di Lars Ulrich più simile a un set di pentole o, per i più esperti, semplicemente un rullante con la cordiera staccata che dà quel tipico suono di un tamburo metallico. Peraltro fu un caso questa scelta, come racconta il batterista Lars: “Sono ancora assolutamente convinto di quella scelta. In quel momento era la soluzione migliore. […] La questione del rullante è stata molto impulsiva da parte mia. James stava suonando un riff nella control room e io ho pensato ‘Devo suonare qualcosa su quel riff’. Quindi sono entrato nella sala di registrazione e ho improvvisato, dimenticandomi di agganciare la cordiera del rullante”. A tutto questo aggiungiamoci la produzione di Bob Rock che creò davvero una mezza rivoluzione nei fan con una raccolta firme per non averlo nel prossimo disco; cosa che di fatti avvenne scegliendo Rick Rubin per Death Magnetic. Bob Rock è stato d’altra parte colui che col Black Album dei Metallica ne ha in qualche modo cambiato le sorti a livello di popolarità e di alleggerimento di suono, insomma croce e delizia del gruppo.

E pensando al presente

È passato quel periodo, sono sopravvissuti al “cattivo” Napster sempre odiato e combattuto, si sono adeguati allo streaming, si sono riadattati quello che succede nel mondo e nel frattempo hanno pubblicato altri dischi più o meno innocui. Ed ecco che arriva 72 Seasons, lungo ben 77 minuti e 10 secondi, diciannove secondi in meno di Hardwired… to Self-Destruct. Giusto fino all’omonimo Metallica (o The Black Album) si sta sotto i settanta minuti, per non parlare dei primi due album (Kill ‘Em All con 51 minuti e Ride the Lightning con 47 minuti). L’apertura è una scelta un po’ banale: la title track porta al loro suono più trash metal ben sostenuto a dir la verità, con riff sensati, gli assoli dove ce li aspetteremmo e la voce di James Hetfield molto presente e definita che ci catapulta nella marzialità di Shadows Follows. A questo punto siamo già a un quarto d’ora dopo le prime due tracce e chi doveva mollare ha mollato. La ridondanza e l’eccessiva lunghezza sono le parti penalizzante ovviamente. Negli anni, il dono della sintesi dei Metallica, per quanto non fosse la loro peculiarità, lo hanno totalmente dimenticato. In questo 72 Seasons – il cui titolo rappresenterebbe i primi 18 anni di una persona – non tutto è sparato alla massima velocità: Screaming Suicide riprende le influenze più heavy mentre Sleepwalk My Life Away rallenta e diventa uno dei non pochi mid-tempo nel disco.

Sarebbe stato bello ritrovarsi un disco da 50 minuti asciutto e sparato al massimo di quello che possono fare oggi, ma non è così. Si conservano i buoni episodi come Lux Æterna di quei  3 minuti e 21 quasi perfetti con Lars Ulrich decisamente più in forma del solito; per riprendere “entusiasmo”, però, si arriva alla decima traccia tra l’epica e l’heavy metal più old school di Too Far To Gone e per una cavalcata di Room Of Mirrors prima della chiusura da undici minuti psicotici di Inamorata che non risolleva le sorti di un disco che non fa danni, non sconvolge le attese e non cambia il futuro del metal moderno. Certo, se state ancora innalzando al cielo la vostra copia di Kill’ Em All o Master Of Puppets non troverete qui la soluzione o lo stesso compiacimento, ma nessuno con un po’ di senno pensava questo. Vero?

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