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Data Economy: un mercato da 3,7 miliardi che l’Italia fatica a sfruttare. Lo studio di The European House Ambrosetti e HPE

Author: Hardware Upgrade

Si parla molto, non sempre a proposito, del potenziale dei dati. Le tecnologie disponibili oggi sul mercato permettono di generare un enorme valore dal patrimonio informativo delle aziende, ma non sono sufficienti. È indispensabile avere una visione strategica per tutte le fasi di vita del dato, da quando viene generato, passando a come viene rilevato e, soprattutto, cosa viene fatto per elaborarlo e trasformarlo in insight di valore con cui prendere delle decisioni che abbiano un reale ritorno per le aziende. È in questo contesto generale che The European House – Ambrosetti, in collaborazione con HPE, ha effettuato una ricerca sul tema, focalizzata sul nostro Paese, da cui sono emersi degli spunti interessanti, non solo sulla gestione dei dati, ma anche sull’evoluzione del cloud in Italia.

Il potenziale della Data Economy in Italia

La ricerca è stata effettuata su un campione di 400 aziende, operanti in diversi settori e di differenti dimensioni, per cercare di dare una fotografia, il più accurata possibile, del nostro sistema imprenditoriale. Il primo dato che emerge è molto positivo, però può trarre in inganno, infatti, l’Italia si posiziona al terzo posto in Europa per il valore assoluto della Data Economy, con un risultato di 46,9 miliardi di Euro. Se però rapportiamo questo dato rispetto al PIL dei vari Paesi, l’Italia retrocede al 18mo posto in classifica, con un’incidenza del 3%, e la cosa ancora più preoccupante è che questo valore cresce molto più lentamente rispetto alla media europea. Per fare un esempio, la Germania, che guida la classifica in termini assoluti e che in percentuale vede un’incidenza dalla Data Economy del 4,3% sul PIL, è comunque avanti rispetto ai principali paesi dell’Unione Europea. In termini di crescita, la Germania guida la classifica con un valore di 143,2 per il periodo 2017-2025, con valore indice 2021=100, mentre l’Italia si attesta a 128,6 contro una media europea di 136,5. Ambrosetti stima che se la Data Economy crescesse fino al 2025 come la media europea, l’Italia potrebbe guadagnare 3,7 miliardi Euro. Si potrebbe dire che l’Italia è come uno studente brillante, con grande talento, ma che non si applica… elemento ricorrente del nostro Paese, soprattutto quando si guardano le nostre potenzialità legate alla tecnologia.

Quando si parla di dati, l’aspetto quantitativo è solo una faccia della medaglia, l’altro aspetto, troppo spesso sottovalutato, è legato invece alla qualità dei dati. La seconda parte della ricerca si è focalizzata proprio su questo aspetto e, come forse era facile prevedere, emerge che ci sono tre fattori chiave che impediscono di trarre il giusto valore dall’utilizzo dei dati in azienda: mancanza di focus strategico, barriere organizzative e competenze. Un elemento sorprendente emerso dalla ricerca è che, fra gli ostacoli alla creazione di valore dai dati, è stato indicato dal 10,7% degli intervistati come il volume dei dati sia ritenuto insufficiente. La mancanza di competenze ha quindi come conseguenza che le aziende non sono neanche in grado di valutare quanti e quali dati hanno a disposizione, se a questo aggiungiamo che per il 23% delle aziende definire una strategia data-driven è considerata una bassa priorità strategica, possiamo capire come il problema non sia solo di competenze, ma proprio di una mancanza di cultura tecnologica e di valorizzazione dei dati.

Le sfide per lo sviluppo della Data Economy

Sintetizzando i risultati della ricerca, Ambrosetti individua 5 importanti sfide per lo sviluppo della Data Economy in Italia, correlate a specifiche carenze: di una data strategy, di un budget specifico, di responsabilità organizzative, di competenze specialistiche sui dati e di specifici prodotti/servizi data driven. Andando più nello specifico, per quanto il 35% delle aziende dichiari di aver definito una propria data strategy, nella maggior parte dei casi questa risulta essere un sottoinsieme della più generale strategia IT. Un po’ come succedeva in passato, e in molti casi ancora adesso, per le strategie di cybersecurity. Dobbiamo quindi sperare che in futuro la data strategy acquisisca maggiore autonomia, in quanto trasversale a tutte le funzioni aziendali e con un’importanza pari, se non superiore in alcuni casi, a quella degli altri comparti. Anche a livello di budget, in circa il 30% dei casi gli investimenti per l’attuazione dei progetti sui dati sono considerati come un sottoinsieme del più ampio budget IT e solo nel 27% dei casi l’attuazione della strategia legata ai dati coinvolge il top management con responsabilità trasversali. Tralasciando altri elementi secondari della ricerca, già da quanto riportato emerge chiaramente che deve essere ancora fatto un percorso di maturazione, da parte delle aziende italiane, per riuscire a cogliere tutte le opportunità offerte da una concreta data strategy. E queste opportunità sono fondamentali per garantire la competitività del nostro sistema Paese nel medio e lungo termine.

L’ultima parte della ricerca si è concentrata sulla diffusione del cloud in Italia. Il primissimo dato presentato risulta a una prima analisi decisamente contradditorio, perché il 29,4% degli intervistati ha dichiarato di scegliere il cloud per le garanzie offerte in termini di sovranità e controllo dei dati. La contraddizione è spiegata dal fatto che la stragrande maggioranza delle aziende intervistate ha implementato soluzioni di private cloud e solo circa il 10% ha invece abbracciato soluzioni di public cloud. Anche in questo caso emerge un tema di cultura tecnologica, perché il private cloud può essere considerato come un primo, timido, passo nel mondo del cloud, ma il vero potenziale di questo paradigma è offerto dal public cloud, dove invece il tema della sovranità dei dati è molto dibattuto e diversi hyperscaler hanno presentato o reso disponibili soluzioni specifiche per affrontare il problema. Un dato che spiega meglio lo sviluppo del cloud è che il 24,8% delle aziende con oltre 250 dipendenti ha già implementato soluzioni di cloud ibrido, mentre solo il 6% di quelle con meno di 50 addetti ha scelto, o può permettersi, soluzioni di questo genere, percentuale che si alza a 13,2% per le aziende fra 50 e 249 addetti. Una chiave di lettura di questi dati è che servono investimenti significativi per costruire un’efficace architettura di cloud ibrido, che solo aziende di grandi dimensioni, dove è anche più facile che ci siano maggiori competenze, possono permettersi.

Non solo competenze, il problema è la cultura tecnologica

Se possiamo trarre delle conclusioni sui dati presentati da Ambrosetti, ci sentiamo di dire che la ricerca conferma un enorme potenziale per il nostro sistema imprenditoriale dallo sfruttamento del patrimonio informativo a loro disposizione, ma che ci sono degli ostacoli oggettivi, prima di tutto di carattere culturale, che impediscono di essere allineati ai paesi più virtuosi. Se le aziende di grandi dimensioni hanno le risorse per colmare autonomamente questo gap, per le altre serve uno sforzo del settore IT e, soprattutto, del sistema Paese, per evitare di perdere definitivamente il treno dell’innovazione basata sui dati.

L’evento di presentazione della ricerca ha visto poi, dopo una tavola rotonda con Andrea Toigo di Intel, Mauro Colombo di HPE, e Domenico Impellicieri di Fastweb, gli interventi della sociologa Isabella Pierantoni e di David Bevilacqua, CEO di Ammagamma.

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