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Fotovoltaico spaziale, siamo più vicini di quanto crediamo

Author: Hardware Upgrade

Da diversi mesi stiamo seguendo da vicino i progressi del Space-based Solar Power Project (SSPP) di Caltech, finalizzato a creare un impianto solare nello spazio in grado di inviare, tramite wireless, energia sulla Terra, ovunque ed in qualsiasi momento.

L’ambizioso progetto potrebbe potenzialmente risolvere, o quantomeno mitigare sensibilmente, la necessità (in costante crescita) di ottenere energia da fonti rinnovabili; nell’ultimo aggiornamento, Caltech aveva rivelato che la fase di invio sulla Terra dell’energia raccolta dai moduli solari tramite wireless era stata superata con successo, aprendo le porte al periodo di monitoraggio e test del prototipo nelle difficili condizioni spaziali.

Credits to Andreas Treuer for ESA

Quelli dell’Università californiana non sono, ovviamente, gli unici pannelli solari in esercizio oltre l’atmosfera terrestre (anche l’ESA sta battendo questa strada), e di per sé (forse) la creazioni di moduli solari “spaziali” non è più una novità, almeno non da quando l’ISS (ovvero la Stazione Spaziale Internazionale) ospita equipaggio umano e ne permette la sopravvivenza grazie all’energia prodotta dai suoi pannelli.

Si tratta però di progetti e tecnologie in mano ad enti internazionali o ad Università prestigiose, con a disposizione fondi quasi illimitati, piuttosto che di una possibilità concretamente alla portata di tutti, con costi ridotti e modalità di produzione replicabili su scala industriale.

Su questo aspetto due università britanniche, l’Università di Surrey e l’Università di Swansea, hanno deciso di svolgere una ricerca congiunta per capire se, effettivamente, questi pannelli sono solo una tecnologia esclusiva oppure se, con i progressi degli ultimi anni, sono alla portata di una maggior fetta di popolazione.

I due istituti hanno progettato, realizzato e testato (in orbita) celle leggere, economiche, efficienti e durature per sei anni (5 più di quanto inizialmente previsto) dimostrando che il loro fotovoltaico a film sottile può resistere al vuoto, alle dure condizioni termiche spaziali e alle aggressive radiazioni ionizzanti.

A sviluppare questi moduli è stato il Centro per la ricerca sull’energia solare dell’Università di Swansea, utilizzando il tellururo di cadmio (CdTe), materiale fra i più adatti a sviluppare celle estremamente sottili, altamente efficienti (sensibilmente più di quelle al silicio) e a costi ridotti, ma non privo di alcune criticità legate alla sua elevata tossicità se ingerito, inalato, o maneggiato senza adeguate protezioni.

In caso di danneggiamento di un modulo, inoltre, il CdTe andrebbe inevitabilmente a disperdersi nell’ambiente circostante, inquinandolo; paradossalmente, questi limiti al suo utilizzo sono superati nell’ottica di servirsene per produrre moduli destinati allo spazio.

Per approfondimenti, potete leggere lo studio “Toxicity of Cadmium Telluride, Copper Indium Diselenide, and Copper Gallium Diselenide”.

Le celle solari in tellururo di cadmio necessitano di un’area maggiore rispetto a quella tradizionalmente dedicata ai pannelli solari (sia sulla Terra, sia nello spazio), ma i loro punti di forza (leggerezza, potenza, economicità) rendono questo aspetto non limitante, soprattutto se consideriamo che DOLCE (Deployable on-Orbit ultraLight Composite Experiment), ovvero la struttura di dispiegamento ideata da Caltech per ospitare i pannelli solari (con misure 183×183 cm), mostra concretamente la possibilità di creare un’architettura flessibile ed in grado di dispiegarsi nello spazio.

Una volta prodotte le celle, la palla è passata all’Università di Swansea, che ne ha testato la resistenza: gli accademici hanno depositato il CdTe direttamente su un vetro di ultrasottile di grado spaziale, realizzando quattro prototipi.

I moduli sono diventati parte integrante del carico utile sperimentale sviluppato da CSER e dal Surrey Space Center (SSC), per il lancio di dimostrazione tecnologica dell’Agenzia spaziale algerina (ASAL) e dell’Agenzia spaziale britannica, ovvero del AlSAT-1N CubeSat, spedito in orbita il 26 settembre 2016.

“Siamo molto lieti che una missione progettata per durare un anno funzioni ancora dopo sei anni”, ha commentato Craig Underwood, professore dell’Università del Surrey e co-autore dello studio.

In una nota, il team multi-accademico conclude dicendo:

“I risultati contribuiscono a rafforzare la tesi a favore di un ulteriore sviluppo di questa tecnologia per applicazioni spaziali. I dati, raccolti su circa 30.000 orbite, non mostrano segni di delaminazione cellulare (un potenziale rischio per tali tecnologie), nessun deterioramento della corrente di cortocircuito o della resistenza in serie. Tuttavia, è stato osservato che i fattori di riempimento di tutte e quattro le celle diminuiscono nel corso della durata della missione, a causa principalmente di una diminuzione della resistenza dello shunt. Ciò è stato attribuito alla diffusione degli atomi d’oro dai contatti elettrici posteriori. Concludiamo quindi che l’ulteriore sviluppo di questa tecnologia dovrebbe utilizzare metodologie di contatto posteriore più stabili più comunemente impiegate per i moduli CdTe terrestri. Tuttavia, questo volo ha dimostrato la validità di base della tecnologia per l’uso nello spazio”.

Lo studio “IAC-22-C3.3.8 Six years of spaceflight results from the AlSat-1N Thin-Film Solar Cell (TFSC) experiment” è pubblicato su Acta Astronautica.

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