Categories: EconomiaTecnologia

Vi racconto com’è “vendere” la propria voce per addestrare un’intelligenza artificiale

Author: Wired

Lo scorso 19 gennaio ho passato due ore a farneticare dei temi più disparati davanti a un microfono. L’obiettivo? Addestrare un’intelligenza artificiale. Un’esperienza buffa, a tratti straniante. Ma in pochi ascoltano con tanta attenzione quanto una macchina.

Cercasi addestratori

Andiamo con ordine. Io sono una giornalista praticante, ma spesso mi capita di lavorare come copywriter e traduttrice freelance. Per questo motivo sono iscritta ormai da anni a un portale che si chiama Upwork. Qui, i lavoratori indipendenti appartenenti a vari settori (dall’editoria all’informatica) trovano i loro “clienti”, ovvero le aziende che hanno bisogno di un collaboratore occasionale per un progetto. Le imprese pubblicano annunci in cui spiegano ciò di cui hanno bisogno e i freelance inviano una presentazione e una proposta.

Negli ultimi mesi sono fioriti annunci di progetti legati al settore dell’intelligenza artificiale. Ogni giorno vengono pubblicati quasi duecento post che hanno a che fare con quest’ambito. Diversi riguardano la figura di “addestratore” di programmi di apprendimento automatico. A un’entrata in più non si rinuncia mai e, considerando il mio background da laureata di lingue, il mio profilo è stato apprezzato subito dai reclutatori delle aziende coinvolte nella realizzazione di software per assistenti vocali basati sull’AI.

Chi ti istruisce su come svolgere questo lavoro può essere più o meno esigente. La prima volta, lo scorso gennaio, il mio compito era quello di ripetere 570 parole o piccole frasi. A volte c’era scritto di scandire piano, altre volte dovevo parlare velocemente. “Ciao, nome dell’assistente vocale!”, “Devo andare al Colosseo” e così via. Si trattava, a quanto ho potuto apprendere, di registrazioni finalizzate ad addestrare un software per veicoli “intelligenti”. Per inviare le mie registrazioni dovevo usare Voicelinku, un’app nata con lo scopo di acquisire questo materiale. La persona che mi ha trovata su Upwork è di Chengdu (Cina) e secondo i dati pubblicati sul portale lavorerebbe per un’azienda che si chiama Bkvoice. Attraverso una ricerca su Weibo (un famoso social network cinese) ho scoperto che potrebbe trattarsi di una realtà che fa capo a Bokai Jiayin Dubbing, azienda che si occupa di doppiaggio in diverse lingue. Il condizionale è d’obbligo, perché la catena di fornitura in questi settori è sempre lunga e non è sempre chiaro chi sia l’utilizzatore finale delle informazioni ricevute.

Spaghetti English

Ciascuno dei miei audio veniva sottoposto a una verifica delle condizioni di registrazione e della correttezza della mia pronuncia. In caso di problemi di comprensione (ce ne sono stati 71) dopo pochi minuti l’applicazione stessa mi diceva da dove ricominciare. In alcuni casi, registrazioni vocali assolutamente normali venivano interpretati come rumorosi, in altri in un inglese sgrammaticato mi veniva spiegato di pronunciare meglio alcune parole. Solitamente si trattava di annotazioni un po’ assurde. Il mio modo di parlare veniva etichettato come “poco italiano” perché leggevo le parole in inglese con una pronuncia – appunto – inglese. Secondo gli sviluppatori il mio “Hello!” doveva suonare più come un “Ello!” (rinunciando totalmente all’aspirazione della h) e il mio “Siri” doveva essere “SiRi”, con una r vibrante, ossia come verrebbe pronunciato da chi ha un accento italiano molto marcato.

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