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Ma quanto pesa davvero un neutrino?

Author: Wired

Il neutrino, un’entità subatomica di carica elettrica nulla, appartenente alla grande famiglia dei fermioni (tutte le particelle esistenti in natura sono classificate in due macro famiglie, fermioni e bosoni, a seconda del valore di una loro proprietà, il cosiddetto spin) e al gruppo dei leptoni, di cui fa parte, per esempio, anche l’elettrone. Come accaduto più volte nella storia della fisica, gli scienziati hanno prima previsto la sua esistenza e solo molti anni dopo sono riusciti effettivamente a vederlo: Wolfgang Pauli, nel 1930, ed Enrico Fermi, quattro anni dopo, ne postularono l’esistenza per giustificare alcune osservazioni sperimentali (per i più curiosi: quelle sullo spettro del decadimento beta); e solo dopo due decenni la particella fu osservata dai fisici Clyde Cowan e Fred Reines nel corso di una serie di esperimenti condotti nel reattore fissione di Savannah River. Oggi, a più di mezzo secolo di distanza, la nebbia sul neutrino non si è ancora diradata: una delle questioni ancora aperte riguarda, in particolare, la sua massa. La comunità scientifica sta cercando di capire esattamente quanto pesa un neutrino con esperimenti sempre più precisi e raffinati, e questo perché quel valore, al valore del peso del neutrino, sono legati modelli cosmologici fondamentali che cercano di descrivere il comportamento e l’evoluzione dell’Universo. Come racconta Davide Castelvecchi sul blog della rivista Nature, recentemente la comunità di ricercatori che si occupa del peso del neutrino si è incontrata a Genova, al workshop NuMass 2024, per discutere i risultati degli ultimi esperimenti e i punti di debolezza e di forza di approcci “alternativi” alla misura.

Una piccola digressione

In verità, ancor prima di arrivare alla questione di quanto pesi un neutrino, gli scienziati hanno dovuto risolvere un altro rompicapo. E cioè comprendere se un neutrino avesse un peso. Non è stato facile, e infatti ai ricercatori che sono riusciti a rispondere (la risposta è ) è stato riconosciuto il premio Nobel per la fisica 2015: si tratta di Takaaki Kajita e Arhtur Bruce McDonald, premiati a Stoccolma “per la scoperta delle oscillazioni di neutrino, che hanno mostrato che i neutrini hanno massa”. Kajita e McDonald, in particolare, erano riusciti a venire a capo di un enigma irrisolto da decenni nel campo della fisica fondamentale, relativo a una discrepanza tra il numero di neutrini misurati sulla Terra e quello previsto dai modelli teorici: i due compresero che il neutrino è in grado di cambiare identità – ed è questo il motivo per cui sulla Terra se ne osservano circa i due terzi in meno rispetto alle previsioni – e che, di conseguenza, sono dotati di massa. Tra le altre loro caratteristiche, infatti, i neutrini hanno quella di interagire molto debolmente con le altre particelle e dunque, di conseguenza, sono in grado di attraversare strati densissimi di materia senza lasciare traccia del proprio passaggio (ed è proprio per questo che sono così difficili da osservare). I neutrini che arrivano sulla Terra hanno origine cosmica: si pensa che alcuni di essi risalgano addirittura al Big Bang, mentre altri potrebbero essere prodotti dalle reazioni di fusioni nelle stelle attive o dalle esplosioni di supernova. E qui la storia si fa più complicata: il Modello standard, la teoria che spiega comportamento e interazioni di tutte le particelle conosciute, prevede infatti che il neutrino non abbia massa, e, in base a questo stima in modo ben preciso quanti neutrini prodotti nel Sole debbano raggiungere la Terra. La stima, però, si è rivelata essere in profondo disaccordo con i dati sperimentali (è il cosiddetto problema dei neutrini solari) e, per risolvere l’impasse, è stato necessario apportare una modifica al modello, inserendo, per l’appunto, la possibilità che il neutrino oscillasse, cioè cambiasse identità (o, come dicono i fisici, sapore), e che ciascuna identità fosse associata a una massa diversa. Ebbene, Kajita e McDonald hanno osservato, in due esperimenti separati e indipendenti, condotti rispettivamente nel 2001 e nel 2006, che i neutrini solari di sapore elettronico oscillano in neutrini di sapore mu e tau.

Le misure di Katrin

Sappiamo dunque che il neutrino ha una massa – anzi, per la precisione, tre masse, a seconda del suo sapore. È arrivato, dunque, il momento di provare a pesarlo. La misura attualmente più precisa che abbiamo a disposizione è quella eseguita a febbraio del 2022 con l’esperimento Katrin (KArlsuhe TRItium Neutrino experiment), condotto al Karlsruhe Institute of Technology, in Germania. L’esperimento esamina un tipo di decadimento radioattivo molto studiato in fisica, il decadimento beta: in particolare, si analizza la distribuzione dell’energia degli elettroni rilasciati nel decadimento, e dalla misura delle loro masse si risale, in modo indiretto, alla massa del neutrino. In questo caso i ricercatori hanno usato il tritio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno, in una macchina lunga 70 metri, che include la più potente sorgente di tritio mai costruita e un gigantesco spettrometro che serve a misurare le energie degli elettroni generati nel decadimento. I risultati dell’esperimento hanno imposto un limite superiore alla massa del neutrino, ovvero 0,8 elettronVolt (un elettronVolt è pari a 1,6 × 10-36 kg). In altre parole: ora sappiamo con certezza che un neutrino non può pesare più di 0,8 elettronVolt.

Altri approcci

Come dicevamo, però, a Genova sono stati discussi anche altri approcci, che potrebbero confermare o addirittura sostituire le misure di Katrin. Come racconta Castelvecchi, infatti, c’è la preoccupazione che il neutrino sia molto più leggero rispetto al limite superiore stimato dall’esperimento tedesco (secondo alcune stime basate sulle osservazioni delle strutture cosmiche su larga scala potrebbe addirittura pesare meno di 0,12 elettronVolt) e questo lo renderebbe sostanzialmente invisibile agli occhi di Katrin, che non riesce a “pesare” sotto gli 0,2 elettronVolt. E potrebbe essere necessario, dunque, sviluppare tecniche con cui sia possibile misurare masse ancora più leggere: un’opzione discussa a Genova coinvolge un altro elemento, l’olmio-163, un isotopo radioattivo dell’olmio, che a differenza del tritio non subisce il decadimento beta ma un processo di “cattura” di un elettrone da parte di un protone del nucleo. L’approccio si chiama infatti “cattura di elettroni” ed è stato studiato già negli anni novanta dalle équipe di Loredana Guastaldo, della University of Heidelberg, in Germania, e di Angelo Nucciotti, dell’Università di Milano-Bicocca; nel 2019 Guastaldo ha mostrato che con questa tecnica è possibile porre un limite superiore di 150 elettronVolt alla massa del neutrino (siamo ancora piuttosto lontani dall’obiettivo, insomma) e sta lavorando per migliorare questa stima di un fattore 10. “L’olmio fa parte della partita”, ha detto la scienziata a Nature.

E ancora: al workshop è stato anche discusso un altro approccio, proposto da Juliana Stachurska, fisica del Mit di Boston. Si tratta di un esperimento in cui del tritio a bassa densità viene posto in un campo magnetico che “intrappola” gli elettroni del decadimento beta: secondo i suoi progettisti questo approccio, in futuro, potrebbe abbassare la sensibilità della misura fino a 0,04 elettronVolt, e dunque all’interno dell’intervallo in cui dovrebbe trovarsi la massa del neutrino.

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