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Megalopolis di Coppola più che un film è un delirio

Author: Wired

Megalopolis era il film più atteso di questa 77ma edizione del Festival di Cannes. Non solo perché segna il grande ritorno cinematografico di Francis Ford Coppola – ultimamente più prolifico come produttore che come regista – ma perché lui stesso ha creato un “hype” notevole parlandone da tanti anni. Un progetto su cui rimugina dagli anni Ottanta instancabilmente, non trovando mai produttori disponibili a scommetterci. Alla fine ha deciso di produrselo da solo, oltre a dirigerlo e, tasto dolente, scriverselo. Il risultato è un film-testamento, che solo un cineasta scatenato di 85 anni innamorato dell’amore e dell’utopia di cambiare il mondo avrebbe potuto concepire.

Ma partiamo dall’inizio, ovvero dal parallelo esplicito tra l’America di oggi e l’antica Roma. Finiremo anche noi vittime del potere di pochi uomini insaziabili come gli antichi romani? Coppola pone questa domanda-tormentone allo spettatore, tornandoci su per tutto il film. Sulle prime sembra un film di fantascienza, con Adam Driver che sta per buttarsi dalla sommità di un edificio tipo Chrysler Building per poi gridare: “Time stop“. Sembra un film sul potere di fermare il tempo, ma subito si trasforma in un gangster-movie ispirato alle vicende – e ai nomi, e ai costumi – dell’antica Roma. Feste promiscue e dissolute, un “Odi et amo” catulliano recitato fuori da una discoteca, corruzione dilagante. Al centro della storia, due uomini di potere si scontrano: da una parte l’archistar progressista Cesare Catilina interpretato da Adam Driver, dall’altra il sindaco conservatore Cicerone, alias Giancarlo Esposito. Nel mezzo la dolce Julia (Nathalie Emmanuel), figlia del secondo attratta dal primo, contesa tra i due. Chi guarda scopre presto la natura ibrida e multiforme di un film mai catalogalogabile e afferrabile: è il pregio e difetto di Megalopolis, un misto indefinibile di tutto, come la materia immaginifica che racconta. Ovvero il “megalon“, materiale tutto da scoprire con cui Catilina intende rifondare una nuova Roma e condurre la società verso l’utopia di un mondo migliore.

Fosse rimasto coerente con l’idea di un gangster movie ispirato alle congiure perverse dell’antica Roma, tra corse delle bighe, lotte di gladiatori, finte vestali e arriviste matrone assetate di potere, con una spruzzata di fantascienza tanto per azzerare i confini tra passato e futuro, Megalopolis avrebbe funzionato. Avremmo sospeso il giudizio sulla rilettura americana della storia romana con tanto di strafalcioni più o meno voluti (come il latino pulcher pronunciato “pulcer”) e lo avremmo accolto come un potente film-manifesto, grazie al discorso sul risveglio delle coscienze che porta consapevolmente avanti. Purtroppo invece si apre come una voragine una digressione sentimentale, comprensibile a livello umano (il film è dedicato a Eleanor Coppola, la moglie del cineasta scomparsa da poco) ma non artistico, perché scompagina la trama e fa deragliare il film altrove. Il racconto si appiattisce nell’esplorazione di un triangolo sentimentale (lui, lei e il padre di lei, chi vincerà?), con derive narrative e visive che mescolano senza criterio realtà e fantascienza, animazione e materiali di repertorio. Il tono della pellicola si risolleva giusto quando affronta temi politici, con uno Shia LaBeouf in stato di grazia nei panni del pazzoide Clodio, populista istrionico e congiurato assetato di potere che riuscirà a togliere la banca al vecchio zio Crasso. E ancora i manganelli, le proteste per la crisi abitativa, un’America ridotta sul lastrico da corruzione e sete di potere.

Adam Driver, quando non interpreta monologhi shakesperiani, si fa portavoce di Coppola stesso: “Abbiamo l’obbligo di fare domande e il bisogno di un dibattito sul futuro a cui ognuno deve prendere parte“. Nobile intento, per un calderone di immagini e narrazione scomposto, delirante, anarchico, a tratti visivamente potente, a tratti involontariamente comico, che rivela senz’altro la smisurata energia creativa di un maestro del cinema di cui un giorno sentiremo la mancanza. Perché, come dice Lawrence Fishburne nel film, “il tempo non aspetta nessuno, proprio nessuno“.

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