Categorie
Tecnologia

5 libri per capire i film di supereroi

Author: Raffaele Alberto Ventura Wired

Da dove viene la nostra fascinazione per vendicatori e giustizieri in costume? Una disamina in qualche titolo, nella settimana di Avengers: Endgame

Nella settimana di uscita al cinema di Avengers: Endgame, il film che chiude il grande ciclo dei supereroi Marvel con tre ore ore abbondanti di lungometraggio, non potevamo esimerci di approfondire in senso culturale il tema dei supereroi: da dove viene la nostra fascinazione (tutt’altro che recente, ma recentemente ascesa al mainstream) per vendicatori e giustizieri in costume? In questa disamina in cinque libri di Raffaele Alberto Ventura c’è anche spazio per una breve storia del fumetto supereroico, dal mal sopportato realismo degli anni Ottanta al ritorno all’età della meraviglia, in cui (finalmente) i supereroi sono tornati a fare ciò che sanno fare meglio: stupire.

Mark Millar, Bryan Hitch, Steve Dillon e P. P. Ronchetti, Ultimates (Panini Comics)

È possibile che le storie di supereroi proprio non facciano per voi, e in questo caso perché sforzarvi? Non sarò certo io a proporvi la classica lista di fumetti adulti che dovrebbero traghettarvi dalla vostra passione per James Joyce a quella per Iron Man: anche perché la verità è che i capolavori della Marvel te li godi davvero solo se di quell’universo hai esplorato prima i bassifondi, altrimenti tanto vale restare sulle cose semplici e leggere l’Ulisse. In compenso se volete leggere una buona storia di supereroi senza imbarazzarvi con decenni di fastidiosa continuity e ritrovare su carta qualcosa di simile agli eroi che avete visto al cinema, un buon punto di partenza è questo qua. Gli Ultimates erano una versione alternativa dei Vendicatori, talmente efficace ed attuale all’inizio degli anni Duemila che servirono come ispirazione per la trasposizione cinematografica. Ma visto che lo ha scritto Mark Millar, enfant terrible del fumetto anni Duemila, erano anche capaci di lasciare intravedere il lato oscuro, violento, politicamente problematico di un gruppo di giustizieri al soldo del governo. Ma scusate, non vorrei farvela sembrare una cosa noiosa. I supereroi sono fatti così: anche quando ci provi, non riesci a non intellettualizzare.

Grant Morrison, Supergods (Bao Publishing)

Il miglior libro sulla storia dei supereroi lo ha scritto uno dei migliori sceneggiatori dell’ultimo quarto di secolo, quel Grant Morrison che oltre ad essere entrato a pieno titolo nella storia del fumetto con i suoi Animal Man, Arkham Asylum, Invisibles e All-Star Superman ci ha regalato negli ultimi anni una delle più deliranti run di Batman e un sottovalutato esperimento con gli X-Men. Morrison è il simbolo di una reazione alla stagione del realismo degli anni Ottanta, la cosiddetta Dark Age dei supereroi, e di un ritorno alla primigenia età della meraviglia in cui l’eroe era puro archetipo, mito, divinità: è proprio questo che ci racconta questo saggio, trasmettendo la sua fascinazione per quella stagione e per quell’idea di fumetto, ma anche raccontando le sue diverse evoluzioni fino ai tempi più recenti. Proprio il ritorno alla dimensione epica è stato il segreto del successo della saga cinematografica degli Avengers. Altro che supereroi con superproblemi, altro che scienziati pazzi mutati dopo un’immersione prolungata in sostanze radioattive: nel dittico finale composto da Infinity War e Endgame si tratta di combattere un’entità cosmica immortale che possiede le cinque gemme del potere create all’inizio del tempo.

Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti (Lindau)

Quando nel 1949 un oscuro storico delle religioni scrive la sua summa sul mito universale dell’eroe, dagli antichi egizi a Cristo e Maometto, di certo non immagina che questo diventerà la bibbia di generazioni di sceneggiatori di Hollywood, a partire da quel George Lucas che più volte ha dichiarato di essersi ispirato alla sua teoria per congegnare l’universo di Star Wars. Le tre fasi del viaggio dell’eroe — separazione, iniziazione, ritorno — si ritrovano naturalmente anche nei film Marvel. Caso più unico che raro, Infinity War metteva in scena diverse separazioni e iniziazioni ma si chiudeva senza ritorno. A Endgame dunque il compito di chiudere il ciclo, riportando tutti (o quasi) a casa. In mezzo, diversi elementi dello schema di Campbell, tra cui il classico rifiuto della chiamata: di fronte alla tragedia causata da Thanos, la tentazione più forte è quella di arrendersi. Ma capite anche voi che questa non è un’opzione per i potenti Vendicatori.

Jim Starlin, Il guanto dell’infinito (Panini Comics)

Nel 1992, i punti di riferimento di ciò che era considerato nuovo e cool in ambito fumettistico erano le saghe realistiche ispirate al Cavaliere oscuro di Frank Miller e a Watchmen di Alan Moore. Starlin fa qualcosa di completamente diverso, ovvero spara i supereroi nello spazio: ma è uno spazio stranamente astratto, popolato da creature magiche più simili a concetti, impegnati in battaglie composte come partite a scacchi efficacemente restituite dalla composizione rigida di George Pérez e Ron Lim. In questo modo Starlin rinnova il genere della space opera superomistica di cui Jack Kirby era stato il campione. Il guanto dell’infinito è soltanto il primo capitolo di una serie che si completerà poco a poco, in virtù del suo successo e della sua originalità, restando un genere a sé stante all’interno del fumetto di supereroi, trovando poi al cinema un coronamento ideale.

Rick Veitch, Brat Pack (Phoenix)

Come insegna Thanos, ogni cosa nel cosmo è questione di ordine e di equilibrio. Quindi dopo aver parlato della dimensione mitica del supereroe, e dopo le tre ore di sacrifici e buoni sentimenti di Endgame, tocca bilanciare. Tra tutte le rivisitazioni del mito del supereroe che abbiamo letto dagli anni Ottanta in avanti, questa di Rick Veitch ci pare indubbiamente la più disgustosa. Pedofilia, sessismo, fascismo: in fondo non bisogna dimenticare che dietro alla facciata eroica c’è sempre stato tutto questo, e forse era la parte più divertente. Se fate in fretta in rete trovate ancora qualche copia usata a buon mercato della vecchia edizione Phoenix, una lettura che vi farà sentire letteralmente sporchi — e senza nemmeno un grammo della legittimità culturale che vi darebbe un Alan Moore. Finalmente!

Leggi anche

Potrebbe interessarti anche

Categorie
Tecnologia

Bebe Vio: “Come la tecnologia mi ha salvato la vita (e portato fino alla Casa Bianca)”

Author: Bebe Vio Wired

La campionessa mondiale e olimpionica di scherma si racconta a Wired, in un pezzo d’archivio che ripubblichiamo per celebrare i 10 anni del nostro magazine in Italia

Questo articolo è comparso originariamente sul numero 79 di Wired Italia, nell’inverno del 2016, e fa parte di una serie di 10 articoli storici della rivista, che vi riproponiamo per celebrare i nostri 10 anni.

(foto: Mattia Balsamini)

Lo sport unisce, crea ponti e abbatte muri. È un’avanguardia della società, anticipa e detta le tendenze. A ottobre sono stata alla Casa Bianca, scelta dal presidente del Consiglio Matteo Renzi per rappresentare l’eccellenza italiana nello sport. Tutto lo sport, non solo quello paralimpico.

È stato il secondo sogno che ho visto realizzarsi nel giro di un mese, inaspettatamente. Il primo è diventato realtà a Rio de Janeiro. Quando fai scherma, come me, fin da subito hai un obiettivo che si chiama Olimpiade. Io ho iniziato a crederci veramente solo due anni fa, quando è partito il percorso di qualifica per Rio 2016, ma avevo 5 anni le prime volte che ci ho pensato.

Ho iniziato piccolissima a far scherma, piccolissima e per caso. Ero al mio primo allenamento di pallavolo, mi stavo annoiando a palleggiare contro il muro. Io sono una che pensa che le cose si debbano fare solo se ci piacciono, se non fanno per noi, a quel punto, meglio lasciar perdere e cambiare. Così sono scappata e ho cercato l’uscita. Solo che ho sbagliato porta e mi sono trovata nella sala d’armi della mia città, Mogliano Veneto, davanti a tutti quei bellissimi Zorro bianchi. È stato amore a prima vista. Ho iniziato a sognare le Olimpiadi, la medaglia d’oro, l’inno di Mameli che suonava per me, ma non potevo sapere che tutto questo, un giorno di 14 anni dopo, sarebbe arrivato. E ancora meno potevo sapere come sarebbe arrivato: a una Paralimpiade, tirando in carrozzina, la prima al mondo a farlo senza mano armata.

A 11 anni mi sono ammalata. Ho preso il meningococco, un batterio che uccide nel 97% dei casi. Si può evitare, basta fare i vaccini per il tipo B e il tipo C, e il tetravalente che copre i sierotipi A, C, W135 e Y. Non è obbligatorio, ma è importantissimo che tutti lo facciano senza lasciarsi sviare dalle campagne contro i vaccini. I bambini soprattutto, ma anche gli adulti, perché è più raro ma può succedere anche a 30-40 anni. Io avevo fatto la profilassi per il tipo A, poi la Asl aveva detto a papà e mamma che non era necessario proseguire anche con quella per il tipo B, esattamente quello che mi ha colpito.

Mi sono salvata. Ho fatto 104 giorni di ospedale e mi hanno amputato le gambe sotto le ginocchia e le braccia sotto i gomiti. Dico sempre che sto bene così, che è tutto bello, ed è vero che mi diverto un sacco. Sono contenta della mia vita, ma il percorso che abbiamo fatto non è stato semplice, per me, per la mia famiglia, i miei amici e tutta Mogliano. È stato uno choc condiviso, ed è fondamentale che si diffonda la cultura dei vaccini. È per questo che ho posato senza protesi per la campagna di Anne Geddes.

Prima della malattia, la mia vita era costituita da quelle che chiamo le tre S: scherma, scout e scuola. E appena uscita dall’ospedale ho voluto riprendermele tutte e tre. Ho iniziato con la scuola, interrogata al primo giorno, poi gli scout. Con la scherma è stata più difficile: mi serviva una protesi che nessuno aveva mai creato. Ci hanno pensato mio papà, un ingegnere mancato, quello che oggi viene chiamato un maker, e i tecnici dell’Arte Ortopedica di Budrio, uno dei più importanti certi protesi d’Italia. Ho ricominciato con un fioretto di plastica attaccato con lo scotch alla protesi che uso tutti i giorni, fino ad arrivare a una soluzione decisamente più funzionale. Ora tiro infilandomi sul moncone una guaina morbida in silicone della multinazionale tedesca Össur con un perno alla fine. A questo si attacca l’invaso in carbonio a cui, con altri due perni, si incastra il fioretto.

(foto: Mattia Balsamini)

Può sembrare strano, ma le protesi sono un mondo ancora sconosciuto, anche nell’ambiente paralimpico. E spesso sorgono polemiche tra atleti con esigenze e disabilità diverse, convinti che un avversario possa essere agevolato dalla sua protesi, mentre io ho meno allungo delle avversarie, non ho il polso e devo lavorare esclusivamente di spalla e addominali. L’ultimo modello che abbiamo elaborato è meglio dei precedenti, non mi agevola in nessun modo, ma a volte, se mi ferisco e sanguino, si stacca. E capita spesso, perché io ho la pelle molto delicata. Ecco perché continuiamo a lavorare per avere protesi sempre migliori, che mi facciano meno male e siano più comode, ma che allo stesso tempo non mi facciano perdere sensibilità nell’arma.


La tecnologia migliora la vita. Quella dell’atleta e quella della ragazza Bebe che, con i “pezzi” giusti, può fare tutto: prendere in mano un bicchierino di caffè, salire le scale, persino andare a ballare coi tacchi. Le protesi che ho alle braccia sono mioelettriche, significa che rispondono agli impulsi che il mio cervello manda ai muscoli del braccio e muovono le dita corrispondenti. La sensazione di avere ancora la mia mano, quello che in gergo viene chiamato arto fantasma ed è visto come una cosa brutta, mi ha anche aiutato. Mi trovo bene con le mie protesi, anche grazie a loro ho preso la maturità in Arti grafiche e comunicazione, mangio, scrivo e disegno. Ma ce ne sono altre ancora più evolute che mi piacerebbe provare. C’è una mano nuova della Touch Bionics, un’azienda che fa protesi hi-tech recentemente acquistata dalla Össur, che funziona con lo schermo del cellulare e mi piacerebbe averla, perché ora, per usare lo smartphone, devo togliermi la protesi e digitare col moncone. Inoltre ha un’app che permette di registrare determinati impulsi muscolari abbinandoli alla risposta della protesi, aumentando la gamma di movimenti che si possono fare con la mano, come tirare su il mignolo o addirittura fare le corna.

Ho anche quattro paia di gambe: da passeggio, da corsa, da bagno e coi tacchi, che ho portato alla Casa Bianca da Obama. Ora mia mamma si è inventata le gambe-ciabatte, comodissime, alle quali non va aggiunta nessuna guaina. Da poco ho cambiato il piede, ne ho messo uno nuovo della Össur, ed è comodissimo. L’ho tenuto la mattina per fare la protesi, poi a pranzo, per due ore, ho rimesso il piede vecchio, e mi è venuto il mal di schiena. Eppure era il piede che avevo usato per cinque anni senza problemi. Per dire quanta differenza può esserci tra una protesi e un’altra. Sto per cambiare anche le gambe coi tacchi con un paio che ha il piede regolabile, in modo da poter scegliere scarpe con tacchi diversi dover rifare ogni volta la protesi.

Io non credo nel destino, ma la disabilità, per me, è stata anche un’opportunità. All’inizio non sapevo nemmeno dell’esistenza della scherma in carrozzina. Dicevo: “Datemi un paio di gambe e vedrete”. Quando l’ho scoperta, in un primo momento, non mi piaceva. Ero molto piccola, pensavo che le carrozzine fossero per i vecchi, non avevo idea di cosa fossero le protesi se non per quella volta che le avevo viste in tv, all’aeroporto di Monaco, alle gambe di Oscar Pistorius. Poi mi sono seduta, ho iniziato a tirare e non mi sono rialzata più. Ho scoperto che quel modo di tirare, così veloce, è ancora più adatto alla mia scherma istintiva di quella in piedi. E ho vinto un Mondiale e un’Olimpiade.

Lo dico spesso e ci credo: sono stata fortunata. Abbiamo creato un sacco di cose belle, come Art4Sport, l’associazione con cui aiutiamo i bambini amputati a fare sport, raccogliendo donazioni per comprare loro le protesi per l’attività agonistica, quelle che il Servizio sanitario nazionale non garantisce ai più piccoli, che non hanno copertura assicurativa o risultati sportivi per ottenere gli aiuti dell’Inail. Siamo partiti così, poi abbiamo scoperto che c’era molta ignoranza sullo sport paralimpico, e che bisognava lavorare sulla cultura e la mentalità di genitori iperprotettivi che tende a tenere i propri figli disabili in una campana di vetro. Abbiamo un gruppo molto forte, siamo 18 e diventeremo 20, tre di noi sono stati alle Paralimpiadi di Rio 2016, altri quattro o cinque potrebbero aggiungersi per Tokyo 2020.

Tutto è nato dalla mia esperienza, dalla mia voglia di tornare a vivere attraverso la scherma, dalla volontà dei miei genitori di permettere che altri bambini potessero avere la mia stessa opportunità. Perché lo sport è integrazione e inclusione, e aiuta a recuperare più in fretta, rendendo meno faticoso il processo di riabilitazione.

Art4Sport mi ha abituato al senso di appartenenza alla squadra, che per me è fondamentale. Sono tornata da Rio con due medaglie: un oro individuale e un bronzo con le mie compagne Andreea Mogos e Loredana Trigilia. Se devo dire quale delle due sento di più, è quella del metallo meno pregiato. Perché? Perché l’abbiamo conquistata insieme, e perché – se in una finale per il primo e secondo sai già che comunque salirai sul podio a prescindere dal risultato – quando perdi una semifinale, l’assalto dopo è decisivo per portare a casa una medaglia. E così è ancora più bello vincere.

(foto: Mattia Balsamini)

Tutte queste emozioni mi sarebbe piaciuto provarle in Italia, magari tra otto anni, con Roma 2024, anche per dare un ulteriore slancio in Italia allo sport paralimpico, che ha avuto una grossa crescita di popolarità con le ultime due edizioni dei Giochi. Il no del sindaco Raggi è qualcosa che mi rammarica moltissimo. Io sono stata a Londra, nel 2012, per portare la fiaccola olimpica. Ho visto una città più accessibile, migliorata anche grazie alle Paralimpiadi, ci sono tornata dopo e l’ho trovata ancora in crescita sotto questo profilo. A Rio, forse, non è stato così. Nel Villaggio Olimpico era tutto a misura di disabile, ma fuori no. Quello che però mancava a livello di attrezzature, i brasiliani sono stati capaci di fornirlo col calore umano. Non potevamo uscire per strada senza che decine di persone ci chiedessero se avevamo bisogno d’aiuto. Ecco, credo che Roma avrebbe potuto fare un doppio salto in avanti, sia sotto il profilo delle strutture sia sotto quello della cultura, sportiva e non. È questa la grande opportunità che abbiamo perso dicendo no a Olimpiadi e Paralimpiadi.

È anche qui un discorso di integrazione. Io vengo da un ambiente, quello della scherma, in cui settore olimpico e paralimpico sono sotto la stessa federazione, e alla guida del secondo ci sono straordinari ex atleti normodotati, come il nostro ct Simone Vanni, che è stato campione del mondo e olimpico di fioretto, o il vicepresidente federale Giampiero Pastore, ex sciabolatore medagliato ai Giochi e ai Mondiali. Ma non tutti gli sport e non tutti gli aspetti della vita quotidiana sono altrettanto fortunati. Tanta strada resta ancora resta da fare, ma già tanta ne è stata fatta. La mia mi ha portato fino alla Casa Bianca.

Leggi anche

Potrebbe interessarti anche

Categorie
Tecnologia

Avengers: Endgame, cosa funziona e cosa no

Author: Eleonora Caruso Wired

Endgame è un film colossale e il finale perfetto per questi dieci anni di cinecomic Marvel, ma non per questo è esente da difetti. Vediamo cos’ha funzionato e cosa no

L’attesa finalmente è finita, Avengers: Endgame è nei cinema e con esso si chiude una fase decennale di cinecomic Marvel e, in un certo senso, delle nostre vite di spettatori. Endgame è senza ombra di dubbio il finale perfetto, ed è anche un film colossale, emozionante, esaltante, in grado di trasformare l’atto di essere seduti al cinema in un vero e proprio evento culturale collettivo. Ciò non vuol dire che sia esente da difetti, che d’altra parte sono inevitabili in un progetto così grande.

Ecco alcune cose che, secondo noi, hanno funzionato e altre no. Siete d’accordo?

Ovviamente: spoiler.

1. Funzionano: i salti nel passato

Autocelebrazione? Sì, e doverosa: il Mcu è riuscito a tenere in piedi – con pochissimi passi falsi– un progetto decennale senza precedenti, ambizioso e coraggioso, e l’ha fatto piegando il cinema al suo linguaggio, cioè quello dei fumetti, non viceversa. Un traguardo che era giusto celebrare così, chiedendo la complicità del pubblico, come per dire: quante ne abbiamo passate insieme, eh?

2. Non funziona: Thor

In realtà, chi scrive l’articolo ha molto apprezzato il Thor appesantito, traumatizzato e impigrito di Endgame. Dietro la maschera di ciò che è iniziato come uno scherzo, è evidente che si cela un dio/uomo distrutto, pieno di rimpianto e di dolore, che ha perso tutto nel giro di un attimo e ha dovuto guardare in faccia per la prima volta la propria impotenza e fallibilità. Una sindrome da stress post-traumatico in piena regola che però, a causa degli svariati scambi comici che lo coinvolgono, forse è passato troppo come uno scherzo a una fetta di pubblico. Qualche battuta in meno avrebbe giovato.

3. Funziona: l’arrivo degli eroi

Non giriamoci intorno: l’arrivo degli eroi perduti attraverso i portali è irripetibile. Nessuna scena vagamente simile, da oggi in poi, avrà mai lo stesso impatto, perché nessuno mai potrà più rifare per primo qualcosa del genere. Un momento quasi troppo emozionante per descriverlo, da brividi. Quello in cui Cap pronuncia finalmente il celebre motto dei fumetti – “Avengers, uniti!” – è il coronamento di un’esperienza cinematografica unica.

4. Non funziona: Hulk

hulk-smile-avengers-banner

Come da tradizione dei fumetti, ci sono personaggi che in mano ad alcuni autori risplendono, in mano ad altri si offuscano. Nel Mcu, gli unici registi ad aver gestito veramente bene il gigante verde sono stati Joss Whedon nei primi due Avengers e Taika Waititi in Thor: Ragnarok. In questo, purtroppo, i Russo non brillano: il loro Hulk è l’anello debole della formazione originale, in termini di scrittura, sia in Infinity War che in Endgame. Un peccato, perché la svolta del Professore era attesa e poteva dare di più. Non lo si vede quasi neanche combattere.

5. Funziona: la filosofia della perdita

Anche se i buoni, come da copione, alla fine vincono, Endgame non è un film sulla vittoria, ma sulla perdita. Ci sono l’eloraborazione del lutto, il rimpianto, il senso di colpa e quello del fallimento, lo slancio ad andare avanti, ma anche la tentazione terribile di lasciarsi schiacciare dal passato… tutto, dal punto di vista umano ed emotivo, funziona benissimo, e fa male. In una società come la nostra, ipertroficamente ossessionata dal successo, anche dire che a volte si perde, punto, e che non basta volere una cosa per ottenerla, è un piccolo atto rivoluzionario. Sì, gli eroi vincono, ma pagando un prezzo. Tony, Natashya, Visione, Loki (non in questa linea temporale, almeno…), tutte le vittime di Thanos precedenti allo schiocco delle dita, non torneranno. Vivere significa anche perdere. Eppure, bisogna continuare a vivere.

6. Non funziona: il momento girl power

ImminevidenzaCapMarvelfilm

Da fan sia dei film che dei fumetti, amiamo molte eroine del Mcu, non ultima Captain Marvel. Vederle combattere tutte insieme, quindi, è stato sicuramente soddisfacente. Tuttavia, bisogna ammettere che il momento del “non è sola” è stato fin troppo didascalico, ai limiti della ruffianeria. Sarebbe bastato calcarlo un po’ meno, e magari non ammucchiare proprio tutti i personaggi purché donne… va bene tutto, ma ammettiamolo: a che serve Shuri, per esempio, in un gruppo che conta Valchiria e Scarlet Witch?

7. Funziona e non funziona: la coesione

Che Endgame inizi nel modo più anticlimatico possibile, cioè con la morte inutile di un Thanos ormai innocuo, è un bel colpo d’ingenio narrativo. Questo, nel bene o nel male, dà vita a un film meno coeso di Infinity War, più singhiozzante nel ritmo e nei toni. A qualcuno piace essere sballottolato così, e lo ha trovato un pregio, ma c’è anche chi non lo ha apprezzato.

8. Funzionano: i rapporti tra i vari personaggi

Alcuni dei costumi disegnati da Jose Fernandez

Dopo dieci anni di film, è normale che gli autori si trovino a lavorare su personaggi perfettamente caratterizzati. Meno scontato era riuscire a metterli insieme in modo naturale e credibile, coltivando nuove relazioni e rafforzando quelle note. Il rapporto tra Rocket e Thor è un esempio del primo caso, quello tra Clint e Natashya del secondo. A brillare sono proprio le relazioni tra i singoli Avengers, ormai non più eroi uniti dalle circostanze, ma persone che si conoscono, che hanno visto il meglio e il peggio una dell’altra, che si vogliono bene.
“Sapete se aveva famiglia?” “Sì. Noi.”

Poteva essere retorica, ma non lo è. È reale, ed è il motivo per cui il film sta in piedi.

9. Non funzionano: i buchi nella trama

Magari non subito, ma alla seconda visione – passata un po’ di emozione e asciugate le lacrime – i buchi di trama diventano più evidenti, e non sono pochi. Come fa Nebula a trasportare Thanos nel presente, se era rimasta una sola particella Pym? E quale esercito richiama Thanos nell’atto finale, se era stato distrutto in Infinity War? Come fa Captain America a riportare indietro tutte le gemme – e anche concedendo il legittimo dubbio su tutte le altre –, come fa con la Gemma dell’anima?

10. Funziona: la mancanza della post-credit

Dopo dieci anni in cui ci hanno abituati ad aspettare la classica scena dopo i titoli di coda, anche scegliere di non metterne una comunica qualcosa. La fine, per esempio. Certo, l’universo cinematografico Marvel andrà avanti, ma prima di aprire un nuovo ciclo è giusto mettere un punto e tirare il respiro. È stato un lungo viaggio.

Leggi anche

Potrebbe interessarti anche

Categorie
Tecnologia

Le statue stampate in 3D degli dei contemporanei, tra tecnologia e politica

Author: Filippo Piva Wired

La mostra The Beginning of the End raccoglie le statue progettate dall’artista cileno Sebastian Errazuriz, che rendono omaggio in chiave classica ai grandi protagonisti della tecnologia e della politica dei nostri tempi

Mai come oggi tecnologia e politica sembrano essere diventate le più rilevanti divinità del nostro mondo. Ed è proprio a partire da questa osservazione che il 1° maggi, negli spazi di The Elizabeth Collective di New York, sarà inaugurata la mostra The Beginning of the End, curata da James Salomon: al suo interno sarà possibile ammirare le statue modellate e stampate in 3D dall’artista cileno Sebastian Errazuriz, che ha pensato di ricreare un vero e proprio Pantheon moderno dei più grandi protagonisti della scena globale.

Ripensati come figure classiche in arrivo da storia e mitologia.

Ecco allora che, per esempio, troviamo un monumento equestre dedicato a Jeff Bezos, battezzato The Corporate Nation, accanto a un combattivo Elon Musk nell’opera Exile and Escape, a un busto celebrativo di Mark Zuckerberg e a uno Steve Jobs pensante con iPhone in mano. The Prophet, ovviamente. La realizzazione delle statue, come spiega lo stesso artista, è stata frutto di una riflessione sulla rapidissima diffusione e sul ruolo sempre più centrale delle tecnologie nella società di oggi. Ma non solo: tra le statue figura anche l’opera The Police State, con protagonisti Vladimir Putin, Xi Jinping e Donald Trump, veri e propri monopolizzatori dell’attenzione globale degli ultimi anni. Una carrellata degli dei di questi tempi in chiaroscuro, insomma, da ammirare sfogliando le immagini nella nostra gallery.

Leggi anche

Potrebbe interessarti anche

Categorie
Tecnologia

Provate a cercare “Thanos” su Google. Ecco cosa potreste scatenare

Author: Redazione Wired

Mettetevi nei panni del titano folle e cercate di cancellare i risultati di ricerca

Avengers: Endgame, il culmine di 11 anni del Marvel Cinematic Universe, è arrivato da qualche giorno nelle sale italiane. Nella pellicola precedente infatti, metà della popolazione dell’universo era stata fatta scomparire con uno schiocco di dita da Thanos, titano folle con tanta voglia di riequilibrare la vita nello spazio in possesso delle potentissime Gemme dell’infinito. E ora Avengers e Guardiani della galassia si ritrovano a gestire le conseguenze di questa catastrofe universale. Ma non solo loro.

Infatti su Google è appena comparso un curioso Easter egg.

thanos google

Provando a cercare “Thanos“, infatti, vedrete apparire il Guanto dell’infinito: cliccandoci sopra, ci sarà un nuovo “snap” e i risultati della ricerca cominceranno a scomparire, proprio come tanti supereroi cancellati dal titano in Avengers: Infinity War.

Leggi anche

Potrebbe interessarti anche