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L’azienda che vuole produrre in Italia i materiali per le batterie

Author: Wired

Porto Marghera – Ripartire dai sali. Quelli di litio, estratti attraverso procedimenti chimici da più di 70 anni dall’azienda Alkeemia. E così purificare la grafite naturale, come anche sviluppare la nuova tecnologia al sodio per le batterie. Qui dove le nebbie di Porto Marghera sono rimaste ombre di un passato glorioso, fatto di ricerca e industria, l’azienda italiana guidata dall’ad Lorenzo Di Donato progetta un orizzonte chiaro: realizzare la prima piattaforma continentale di materie prime per l’energy storage. Si ricomincia da un luogo tristemente noto per gli incidenti ma anche famoso per la presenza del petrolchimico che per decenni è stato un’avanguardia europea nella produzione di materiali derivati.

Le competenze, quindi, ci sono. “Siamo una delle sei aziende in Europa impegnate nella chimica del fluoro e siamo i leader europei. Il nostro mercato è sempre stato in equilibrio, data la natura estremamente tecnica dell’approvvigionamento di acido fluoridrico. Ma questo equilibrio è destinato ad infrangersi e sarà interrotto dalla produzione degli energy storage perché circa il 15% per massa di ogni batteria contiene prodotti fluorati che quindi hanno direttamente o indirettamente presenza di fluoro. Ma la competenza industriale non è facilmente sostituibile, perché l’acido fluoridrico è un prodotto molto pericoloso da gestire e produrre, dice Di Donato.

Dato che gli acidi fluorati sono alla base della produzione di batterie, si potrebbe costruire un luogo di sviluppo di tutta la componentistica dei materiali per le batterie. ⁠Ecco anche perché Alkeemia sta organizzando la seconda edizione del Battery Forum con i maggiori player del settore a livello mondiale, con lo scopo di aggregare nuovi attori lungo una filiera tutta da costruire ma che sarebbe per ora unica nel Vecchio continente. E quanto mai necessaria, viste le sfide di approvvigionamento imposte dalla transizione ecologica.

Lo stabilimento di Alkeemia

Lo stabilimento di AlkeemiaAlkeemia

Sali di litio e grafite per le nuove batterie elettriche

Grande attenzione alla ricerca e investimenti importanti per incrementare il volume della produzione industriale. Sono questi i driver di sviluppo su cui sta puntando l’azienda di Porto Marghera. Oggi conta 100 dipendenti ma da circa un anno ha aperto un’unità di ricerca dedicata agli sviluppi dei propri prodotti originali a servizio dei materiali per le batterie. Diversi ricercatori sono stati assunti e altri stanno arrivando (due dal Giappone). Obiettivo è crescere nella produzione di materiali utili per la composizione delle batterie elettriche.

“Innanzitutto, i sali di litio – spiega Lorenzo Orsini, direttore ricerca e sviluppo di Alkeemia -. Stiamo sviluppando tecnologie per introdurre il fluoro in una molecola, si chiama fluorizzazione selettiva, e ci torna utile per applicazioni in elettronica e farmaceutica. Con la ricerca intendiamo ampliare la nostra expertise sulla chimica del fluoro, realizzando elementi che conferiscono caratteristiche particolari ai prodotti. Così creiamo il sale di litio per eccellenza, per poi produrre additivi particolari, sempre a base di fluoro, che sono utili per le batterie elettriche ad alta performance”.

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Economia Tecnologia

Perché il blu di Prussia può salvare l’Europa dal monopolio cinese delle batterie

Author: Wired

Chi mai avrebbe pensato che il blu di Prussia, colore tanto amato da Vincent Van Gogh, Marc Chagall e Pablo Picasso, avrebbe potuto aiutare l’Europa a vincere la partita dell’elettrico e delle batterie contro la Cina? L’8 gennaio la Commissione europea ha autorizzato la Germania a fornire un aiuto di stato pari a 902milioni di euro nei confronti dell’innovativa azienda svedese Northvolt per la costruzione di una fabbrica di batterie per veicoli elettrici.

La motivazione è rilevante, perché da Bruxelles fanno sapere che il sussidio serve a evitare che la promettente startup svedese vada a investire negli Stati Uniti, attratta dai ricchi crediti dell’Inflation reduction act, una possente iniezione di sussidi per l’industria voluta dal presidente Joe Biden. Sebbene la manifattura delle batterie sia ancora dominata dalla Cina, che controlla la raffinazione della maggior parte dei materiali di base come il litio, il cobalto, il nichel e il manganese, esistono materiali alternativi per fabbricare questi dispositivi, così fondamentali per la transizione verde.

L’annuncio di Northvolt

A fine novembre, però, Northvolt ha fatto un annuncio importante, facendo sapere di aver sviluppato una batteria agli ioni di sodio priva dei materiali in mano cinese. Le batterie al sodio sono strutturalmente simili a quelle agli ioni di litio, la tecnologia dominante, ma si differenziano soprattutto per il costo inferiore e per la minore densità (a parità di volume immagazzinano meno energia). Tuttavia, la dimensione e il peso della batteria sono caratteristiche cruciali se si parla di auto elettriche: per questo motivo le batteria al sodio – poco dense e quindi più grandi rispetto a quelle al litio – non hanno grande successo in questo ambito dell’automotive.

D’altra parte, per lo stoccaggio stazionario, come nei parchi eolici e fotovoltaici, le batterie al sodio risultano più efficienti, data la mancanza di restrizioni di spazio e l’interesse per soluzioni economiche (dato che il sodio ha un costo notevolmente inferiore al litio) e prestazioni affidabili anche a basse temperature (un punto debole delle batterie al litio). La tecnologia al sodio di Northvolt è infatti pensata per lo stoccaggio energetico, ma si differenzia dallo standard per due motivi. Innanzitutto perché ha una densità di 160 wattora al chilo, molto vicina a quella delle batterie al litio destinate allo storage (180 Wh/kg). E poi perché non contiene nichel, manganese e cobalto, com’è la norma. Al loro posto, utilizza un materiale chiamato bianco di Prussia, derivato dal più famoso blu di Prussia.

Il blu di Prussia per le batterie

Il blu di Prussia, noto anche come ferrocianuro ferrico, è un pigmento blu scuro utilizzato fin dal XVIII secolo per la colorazione dei tessuti e nella pittura. Oltre a queste applicazioni tradizionali, ha trovato impiego nella terapia del cancro, nel trattamento delle acque reflue e come materiale per le batterie agli ioni di sodio. Anche John Goodenough, il premio Nobel coinvolto nell’invenzione degli accumulatori al litio, aveva riconosciuto il potenziale di questo pigmento, ottenuto da una combinazione di ferro e cianuro, come un’alternativa più conveniente e performante rispetto alla triade di metalli comunemente usata nei catodi delle batterie, cioè nichel-manganese-cobalto. La struttura del blu di Prussia permette infatti una rapida intercalazione degli ioni di sodio, migliorando l’efficienza della batteria e prolungandone la durata.

Northvolt non utilizza direttamente il blu di Prussia, bensì un suo derivato: il bianco di Prussia, che contiene meno ferro e più sodio e ha una struttura più “spessa”, la quale generalmente comporta minore densità energetica ma maggiore capacità di potenza. La startup svedese sostiene di essere la prima a commercializzare batterie basate sul bianco di Prussia, definendole più sicure, convenienti e sostenibili delle chimiche tradizionali. Ma ci sono nel mondo altre aziende impegnate nello sviluppo del pigmento. Sempre in Svezia c’è Altris, che pure ha puntato sul bianco di Prussia. Negli Stati Uniti è attiva Natron Energy, che usa il blu di Prussia sia nel catodo che nell’anodo, promettendo tempi rapidissimi di carica/scarica e una lunga vita al dispositivo. La sua fabbrica si trova in Michigan, mentre la materia prima viene fornita dalla società chimica svizzera Arxada.

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Economia Tecnologia

La Norvegia è il primo paese ad autorizzare l’estrazione dei minerali sul fondo del mare

Author: Wired

La Norvegia è il primo paese al mondo ad autorizzare l’estrazione dei minerali dai fondali marini. Il 9 gennaio lo Storting, ovvero il parlamento di Oslo, ha approvato una legge che legalizza la pratica, finora ritenuta a livello internazionale quantomeno controversa a causa dell’impatto che potrebbe avere sull’ambiente. Se è vero che in fondo al mar si trovano materie prime come litio, scandio e cobalto, sempre più richieste dall’industria mondiale perché necessarie alla transizione energetica, dall’altro lato della medaglia c’è la preoccupazione relativa alla possibile distruzione della gran parte dei fondali sui quali l’estrazione sarà praticata. Anche per questa ragione, nonostante i primi tentativi in questo senso risalgano agli anni Sessanta, nessun paese si era mai spinto finora al traguardo raggiunto da quello scandinavo.

Nel dettaglio, la norma prevede per ora che la raccolta dei minerali possa avvenire solo in acque norvegesi, ma le istituzioni nazionali si starebbero già muovendo per ottenere il permesso di allargarla a quelle internazionali. La legge non prevede però un vero e proprio “liberi tutti”: le aziende interessate saranno chiamate a inviare una richiesta per ottenere la relativa licenza, indicando anche una serie di valutazioni ambientali. A quel punto, sarà lo Storting a stabilire caso per caso quali approvare a quali no.

Come sottolinea Il Post, sono soprattutto due i tipi di fondale in cui si trovano i metalli richiesti dal settore tecnologico. Da un lato ci sono le sorgenti idrotermali, ovvero fratture del suolo dalle quali esce acqua a una temperatura che raggiunge i 400 gradi, duecento volte maggiore rispetto ai 2 normalmente riscontrati nelle profondità oceaniche. Dall’altro ci sono delle piane abissali ricche di noduli metallici. Si tratta di montagnole sferiche di minerali dal diametro di alcuni centimetri parzialmente o totalmente sepolte, che contengono soprattutto rame, manganese, zinco e cobalto.

Tecnicamente, l’estrazione avviene in più fasi. La prima consiste nell’esplorazione del fondale, che viene effettuata con l’ausilio di veicoli sottomarini a comando remoto simili a quelli inviati nello spazio. Essi percorrono lunghi tratti di fondale per valutare l’effettiva presenza di minerali nelle aree identificate come potenzialmente ricche di materie prime, dalle quali raccolgono campioni. Successivamente, dopo aver individuato il luogo d’estrazione, si procede con l’installazione di una stazione galleggiante o di una nave da utilizzare come base operativa. Da lì, attraverso strutture simili a draghe, si passa allo scavo vero e proprio nei fondali marini e alla raccolta dei sedimenti, che in superficie vengono separati dai metalli per poi essere nuovamente rilasciati in acqua.

Tutta questa procedura si trasforma in uno stress importante per l’ambiente. Alla distruzione dei fondali marini si aggiunge infatti proprio il rilascio dei sedimenti, che raggiungono quantità giornaliere quantificabili tra i 50mila e i 150mila metri cubi. Esso avviene migliaia di metri più in superficie rispetto al fondale, quindi i sedimenti attraversano più ecosistemi e vengono spazzati dalla corrente anche a miglia di distanza dal luogo in cui avviene l’estrazione.

I materiali di scarto altereranno inoltre la composizione chimica dell’acqua, mentre il rumore delle escavatrici disturberà la fauna marina. Il 9 gennaio la Norvegia potrebbe davvero aver scritto la storia. A che prezzo, lo dirà il tempo.

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Tecnologia

La prima batteria commestibile italiana è tra le migliori invenzioni del 2023

Author: Wired

Commestibile e anche ricaricabile. Sono queste le caratteristiche che hanno permesso alla prima batteria del genere al mondo e realizzata dall’Istituto italiano di tecnologia (Iit), di entrare a far parte della lista delle Migliori Invenzioni del 2023 del Time. Dopo aver valutato centinaia di altri prodotti, basandosi sull’originalità, l’efficacia, l’ambizione e l’impatto, la rivista americana infatti ha deciso di inserire questa batteria tra le 200 invenzioni migliori dell’anno, posizionandola tra le quelle meritevoli di menzione speciale. Ma di cosa si tratta esattamente?

La batteria che si mangia

Per realizzare la prima batteria commestibile al mondo il team di ricercatori guidato da Mario Caironi, a capo del Printed and Molecular Electronics Laboratory al Centro di Iit a Milano, si è servito di componenti che si possono mangiare. In particolare, l’ anodo è realizzato con la riboflavina (o vitamina B2), presente nelle mandorle, e il catodo è composto dalla quercitina, presente per esempio nei capperi. Gli elettrodi sono stati poi incapsulati in un contenitore di cera d’api, da cui escono due contatti in oro alimentare, usato per le decorazioni di pasticceria. Per la conducibilità elettrica, il team si è servito del carbone attivo, mentre per evitare cortocircuiti è stato realizzato un separatore con alghe nori, le stesse del sushi.

Le applicazioni future

La batteria funziona a 0,65 V e quindi non è pericolosa se viene ingerita, e può fornire una corrente sufficiente per far funzionare piccoli dispositivi a bassa potenza. E le sue potenziali applicazioni sono molteplici: in ambito clinico, per esempio, per sviluppare sensori capaci di monitorare alcuni parametri di salute, ma anche nella sicurezza alimentare per verificare lo stato di conservazione degli alimenti. Potrebbe, inoltre, essere usata nei giocattoli, dove sappiamo che il rischio di ingestione dei più piccoli è alto.

“Le batterie sono onnipresenti e spesso finiscono nello stomaco dei bambini, dove possono causare lesioni devastanti, si legge sul Time. “I ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Milano hanno sviluppato una piccola batteria ricaricabile che è anche interamente commestibile. Fornendo abbastanza energia per alimentare un piccolo dispositivo LED per più di 10 minuti, non solo si potrebbe ridurre il numero di lesioni provocate dalle batterie nei bambini, ma un giorno potrebbe essere determinante nei dispositivi medici incorporati nel corpo”.

Il giro del mondo

In pochi mesi dalla pubblicazione dello studio, la prima batteria commestibile e ricaricabile è stata la protagonista di 250 articoli sulla stampa di tutto il mondo, tra cui Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Spagna, Germani, Brasile, Argentina, Israele. “Sono molto contento e anche molto sorpreso che il Time ci abbia selezionato; quindi, ancor di più è una soddisfazione per tutto il gruppo di ricerca, che ringrazio”, ha commentato Mario Caironi. “Nella ricerca, soprattutto quando si percorrono strade poco battute, non è scontato da un lato ottenere dei risultati, dall’altro che questi vengano notati così velocemente. Questo ci motiva ancora di più a proseguire. Un grandissimo merito va a Ivan Ilic, un ex membro del team, che ha guidato la realizzazione della batteria”.

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Economia Tecnologia

L’idea per rendere sostenibile l’estrazione del litio

Author: Wired

Sulla carta, l’estrazione diretta del litio, abbreviata in Dle, è migliore sotto ogni punto di vista. Prevede l’utilizzo di macchinari dalle dimensioni relativamente contenute che aspirano l’acqua salata dal terreno e, attraverso dei filtri, selezionano il litio e lo separano dal resto della miscela. L’opposto dell’evaporazione, in sostanza. Gli impianti di Dle non occupano gli stessi vasti spazi degli stagni, sono più economici, riducono i consumi d’acqua dolce, accorciano la durata delle operazioni (giorni, anziché mesi) e migliorano la resa (il tasso di recupero stimato è dell’80 per cento), permettendo lo sfruttamento profittevole di giacimenti dalle basse concentrazioni di litio. La tecnologia di estrazione diretta deve tuttavia ancora dimostrare di essere fattibile e commercialmente valida su larga scala.

Il progetto della miniera di litio di WoflsbergLa mappa delle future miniere di litio in Europa

Si torna a scavare nel vecchio continente per aumentare la produzione interna dei metalli e dei minerali necessari alla transizione energetica. Le imprese australiane hanno fiutato il business, mentre Bruxelles spera di svincolarsi dalla dipendenza dalla Cina

Il contributo del petrolio e della geotermia

Le compagnie petrolifere, a partire dall’americana ExxonMobil, hanno già manifestato un certo interesse per la Dle. La decarbonizzazione impone loro quantomeno una diversificazione delle attività, ma faticano a riconvertirsi alla costruzione di parchi eolici e solari perché le società elettriche sono entrate nel mercato prima e meglio. L’estrazione del litio attraverso il pompaggio e il trattamento di liquidi, invece, si adatta bene alle loro aree di competenza. Anche perché la Dle si potrebbe applicare alle acque reflue dei campi petroliferi o alle acque salate nei progetti geotermici.

Secondo la società di consulenza Enverus, in una sezione del bacino Permiano degli Stati Uniti – è il più ricco campo petrolifero del pianeta, tra il Texas e il Nuovo Messico – le acque reflue associate alle trivellazioni di idrocarburi, e di solito re-iniettate sottoterra, potrebbero produrre 225.000 tonnellate di carbonato di litio all’anno. Nell’ovest del Canada, i giacimenti ormai esausti di greggio ospitano ancora depositi di litio in salamoia. In Europa, i principali tentativi di estrazione diretta del metallo – da siti geotermici, però – sono portati avanti da Vulcan Energy, un’azienda australiana, nella valle del Reno (tra Germania e Francia) e in Italia (vicino Roma, in collaborazione con Enel).

Una filiera europea e nordamericana del litio piacerebbe sia ai governi che alle case automobilistiche: i primi vogliono emanciparsi dalla Cina per non essere esposti a ricatti e ritorsioni; le seconde vogliono avere più controllo sui flussi di materia prima – e infatti Stellantis, proprietaria del marchio Fiat, è azionista di peso di Vulcan Energy – per evitare di finire coinvolte nelle tensioni internazionali.

Il problema di fondo è che le tecnologie di Dle sono complesse da sviluppare perché non sono standardizzabili. I sorbenti chimici che permettono di separare il litio dall’acqua salata cambiano a seconda delle caratteristiche delle formazioni geologiche in cui si trovano i depositi: un sorbente adatto a una salamoia può non andare bene per un’altra, insomma, perché le concentrazioni di magnesio o di potassio potrebbero variare. Un aiuto, tuttavia, può venire dalle grandi quantità di dati sui giacimenti petroliferi in possesso dell’industria oil & gas che semplificano la fase di studio dei sedimenti.