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Il ruolo della Giordania nella crisi in Medio Oriente

Author: Wired

Il regno di Giordania, situato tra Israele, Siria, Iraq e Arabia Saudita, è un importante alleato degli Stati Uniti nel Medio Oriente. Nonostante inizialmente sia stato uno storico rivale e oppositore di Israele, a partire dagli anni Ottanta del Novecento i due paesi hanno costruito una produttiva cooperazione in materia di sicurezza. La solidità di questa cooperazione non è stata scalfita nemmeno dalla recente invasione israeliana di Gaza, nonostante in Giordania vivano milioni di profughi palestinesi, e confermata dall’intervento giordano contro i missili e i droni lanciati dall’Iran verso Israele.

Una linea di distensione

Membro fondatore della Lega araba e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, la Giordania è un paese di maggioranza sunnita, con un 6% della popolazione di fede cristiana di varie confessioni. Queste comunità sono ben integrate nel tessuto sociale, godono di ampia libertà religiosa e hanno due seggi ministeriali riservati e nove seggi riservati al Parlamento. Come quasi tutti gli altri paesi a maggioranza sunnita anche la Giordania non ha buoni rapporti con l’Iran a guida sciita.

A infastidire particolarmente il governo giordano, per conto dell’Iran, sono le molte milizie siriane e irachene che l’Iran finanzia da anni per estendere la sua influenza nella regione in funzione anti-statunitense. Tuttavia, la politica estera della Giordania è caratterizzata da anni da una linea di distensione, che ha avuto un’importante effetto di stabilizzazione anche all’interno dei confini. Il paese ospita anche basi militari statunitensi e della Francia, che garantiscono un rafforzamento delle sue difese militari.

Un’alleanza informale

Una di queste basi statunitensi è stata attaccata lo scorso 28 gennaio proprio da una milizia irachena legata all’Iran, causando 3 morti e 30 feriti tra il personale statunitense, ricevendo la condanna da parte del governo giordano. Anche per questo motivo, la Giordania è intervenuta attivando la sua contraerea per abbattere droni e missili lanciati dall’Iran verso Israele, come ritorsione per l’omicidio di Mohammad Reza Zahedi, generale delle Guardie rivoluzionarie iraniane, ucciso durante un bombardamento israeliano a Damasco, in Siria.

Oltre alla Giordania e alle forze statunitensi, del Regno Unito e francesi presenti nell’area anche l’Arabia Saudita ha contribuito a contrastare l’attacco iraniano, portando così alla creazione di una sorta di alleanza informale in funzione anti-iraniana tra questi paesi e Israele. L’obiettivo è quello di contenere qualunque escalation del conflitto, che sta sconvolgendo Gaza e impegnando Israele su più fronti, all’intera area mediorientale.

In tutto questo, la Giordania è di importanza strategica fondamentale per le forze occidentali, fungendo da testa di ponte verso l’Iran e i suoi alleati in Iraq e Siria. Allo stesso tempo però, la vicinanza del governo giordano con Israele e gli Stati Uniti potrebbe creare problemi interni, fomentando il malcontento tra la popolazione di origine palestinese. Per questo, cercando di evitare critiche, le autorità giordane hanno detto di aver abbattuto i droni e i missili iraniani non per difendere Israele, ma per preservare la sicurezza del proprio spazio aereo.

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L’Europa vuole copiare lo scudo anti-missili di Israele

Author: Wired

In Europa l’industria della difesa è in fermento, spinta da nuove e vecchie sfide, come i due anni di guerra in Ucraina, le crescenti minacce che arrivano dalla Russia o la possibile vittoria dell’ex presidente Donald Trump alle prossime elezioni americane. Nuovi sistemi di difesa e nuovi player industriali si affacciano all’orizzonte, per migliorare e aggiornare le difese esistenti: di recente si è discusso molto dell’ipotesi di adottare nel Vecchio continente un sistema Iron Dome, il dispositivo israeliano progettato per contrastare le armi a corto raggio.

Iron Dome è uno strumento, fisso o mobile, che usa il radar per tracciare i razzi e può distinguere tra quelli che potrebbero colpire aree edificate: i missili intercettori vengono indirizzati solo contro i razzi che potrebbero minacciare zone popolate. Il sistema è costituito da batterie dislocate in tutto Israele, ciascuna con tre o quattro lanciatori che possono sparare venti missili intercettori. Da tempo, nelle capitali europee si discute di una sua possibile adozione sul territorio dell’Unione, con perplessità sulle applicazioni pratiche e tensioni diplomatiche sull’asse franco-tedesco.

La strategia europea

Ad aprile il dibattito in Europa sono state le parole di Armin Papperger, amministratore delegato di Rheinmetall, azienda tedesca leader in Europa nel settore della difesa. Papperger ha detto che la difesa aerea a corto raggio è “qualcosa che in Europa vorrebbero creare“, riferendosi all’iniziativa European Sky Shield, guidata dal governo tedesco e sostenuta da oltre venti Paesi, che punta allo sviluppo congiunto di nuovi sistemi di difesa aerea. “Penso anche che sia una buona idea avere una soluzione europea simile a Iron Dome“, ha aggiunto Papperger al Financial Times. Secondo molti analisti militari, però, schermare ampie zone dell’Europa continentale con un sistema analogo potrebbe essere molto complicato e presentare sfide differenti rispetto al territorio israeliano.

Quello che è certo è che lo sviluppo di sistemi di difesa aerea e missilistica è una priorità per Bruxelles, che sta spingendo le capitali europee a lavorare insieme sulle tecnologie per colmare le lacune militari dell’Unione. La strategia di difesa europea richiede un miglioramento delle “capacità relative alla difesa aerea e missilistica europea integrata” entro il 2035, e una nuova proposta industriale presentata recentemente dalla Commissione europea prevede un sostegno di bilancio a “progetti europei di difesa di interesse comune“. Bruxelles sta preparando anche una nuova strategia per incrementare gli acquisti congiunti e ha fissato l’obiettivo di rifornirsi da produttori europei anziché statunitensi.

L’idea di adottare Iron Dome sul suolo europeo non è però una novità. Da tempo si parla di questa possibilità e da quando il sistema è diventato operativo nel 2011, molti governi hanno acquistato o pensato di acquistare componenti del radar o l’intero Iron Dome per proteggere il proprio Paese. Negli ultimi dieci anni, nazioni come Ungheria, Romania e Cipro nel 2022 hanno mostrato interesse per il sistema; in generale, Israele ha trovato un numero significativo di acquirenti in tutto il mondo, dall’Asia al Medio Oriente, recentemente anche in Marocco e probabilmente negli Emirati Arabi Uniti. Il ministero della Difesa dell’Azerbaijan, per esempio, ha acquistato la sua versione dell’Iron Dome nel maggio 2021. Secondo gli esperti l’Azerbaijan sarebbe stato tra i primi Paesi a confermare l’acquisto del dispositivo, in risposta all’annoso conflitto con l’Armenia per il territorio del Nagorno-Karabakh.

Nervosismo tra Berlino e Parigi

Anche la Germania non è nuova all’adozione di strumentazione israeliana. La Commissione per il bilancio del Bundestag, il parlamento tedesco, nel giugno scorso ha sbloccato una prima tranche da oltre cinquecento milioni di euro per l’acquisto del sistema antimissile Arrow-3 di fabbricazione israeliana. Arrow-3 è in uso in Israele dal 2017 come parte della rete di protezione ed è in grado di intercettare missili balistici sparati da una distanza massima di 2.400 chilometri. Questa operazione ha suscitato reazioni discordanti in Europa, suggerendo divisioni che potrebbero riproporsi nuovamente in caso di adozione dell’Iron Dome.

Il progetto aveva fatto infuriare i funzionari francesi, che avevano bollato l’idea come strategicamente confusa e mal concepita, poiché ometteva i sistemi di difesa aerea di fabbricazione europea. Il tema dell’autonomia strategica europea è uno degli assi portanti del pensiero del presidente francese Emmanuel Macron, che poco dopo l’annuncio tedesco aveva invitato le nazioni europee a cercare una maggiore indipendenza nella difesa dello spazio aereo, suggerendo di non fare troppo affidamento sugli Stati Uniti o su altri partner, una questione a lungo dibattuta che ha assunto una nuova urgenza a causa della guerra in Ucraina. Lo European Sky Shield infatti è composto da oltre quindici nazioni europee, ma non la Francia.

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Perché il Giappone è il pilastro di una “Nato” d’Asia

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Ma un ruolo fondamentale in questa rivisitazione dei rapporti la ricopre il fronte tecnologico. I diplomatici di Washington e Tokyo hanno firmato un memorandum per l’Innovazione globale attraverso la scienza e la tecnologia. Si stabilisce l’impegno ad approfondire la connettività tra gli imprenditori scientifici e tecnologici statunitensi e giapponesi, ad espandere le opportunità di investimento e a promuovere l’innovazione tecnologica. Il governo giapponese finanzierà interamente i partecipanti del suo Paese e i costi operativi ampliati del piano per i programmi specifici per il Giappone, mentre gli Stati Uniti forniranno competenze tecniche e faciliteranno l’elaborazione dei visti.

Tokyo snodo tech di Nato e Aukus

Via libera anche a una serie di investimenti su digitale, microchip, transizione energetica. Ma anche, ovviamente, intelligenza artificiale: Microsoft ha annunciato un piano in materia da 2,9 miliardi di dollari sul territorio giapponese. Non è un caso sporadico. Il Giappone pare destinato ad accentuare una tendenza che lo vedrà diventare sempre più uno snodo cruciale sul fronte tecnologico, con però possibili applicazioni militari e di sicurezza.

Basti ricordare che lo scorso anno Tokyo ha firmato un documento di partnership con la Nato. Tra i 16 punti del piano, si menzionano un rafforzamento dei rapporti in materia di sicurezza marittima, ma anche azione comune su sicurezza informatica, tecnologia e minacce ibride. Al prossimo summit dell’Alleanza Atlantica, in programma a luglio a Washington, potrebbe essere anche annunciata l’apertura di un ufficio di collegamento con sede a Tokyo. Un’unione anche plastica del teatro asiatico con quello euroatlantico che la Cina vede come fumo negli occhi.

Ma il trend giapponese pare irreversibile. E il prossimo, importante, passo potrebbe essere l’adesione al secondo pilastro di Aukus. Il primo pilastro del patto di sicurezza che fin qui coinvolge Stati Uniti, Regno Unito e Australia prevede lo sviluppo congiunto di sottomarini a propulsione nucleare da lasciare poi in dotazione a Canberra per il presidio del Pacifico meridionale, altra zona particolarmente delicata per gli equilibri geopolitici. Il capitolo a cui pare destinato ad aderire Tokyo riguarda ancora una volta il campo tech.

Una rete per attutire l’ipotetico Trump bis

Il cosiddetto secondo pilastro si concentra infatti su capacità e tecnologie avanzate in una serie di settori, tra cui l’informatica quantistica, la guerra sottomarina, i missili ipersonici, l’intelligenza artificiale e la cybertecnologia. Il Giappone si impegnerebbe dunque a sviluppare in modo congiunto tutta questa serie di tecnologie con infinite possibilità di applicazione in materia di difesa.

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I bombardamenti russi in Ucraina fanno impennare il prezzo del gas in Europa

Author: Wired

Gli attacchi della Russia contro le città e le infrastrutture energetiche dell’Ucraina stanno diventando più frequenti e devastanti. I rallentamenti nella fornitura di aiuti militari occidentali e le scorte in continua diminuzione hanno reso l’Ucraina più vulnerabile e con lei anche le forniture energetiche dell’Unione europea. Attraverso l’Ucraina transita infatti ancora molto gas diretto in Europa e a ogni attacco russo contro gasdotti o depositi i prezzi crescono irrimediabilmente.

Negli ultimi giorni i bombardamenti russi hanno gravemente danneggiato la più grande centrale elettrica della regione di Kyiv, lasciando tantissime persone senza luce. Nello stesso attacco, la Russia ha colpito anche due impianti di stoccaggio sotterraneo del gas ucraino, di proprietà della società statale Naftogaz Ukrainy, facendo impennare i prezzi del gas.

Per colpire le infrastrutture le forze russe hanno impiegato oltre 80 tra missili e droni, compiendo l’attacco alle prime ore dell’11 aprile. Come riporta Bloomberg, il direttore di Naftogaz, Oleksiy Chernyshov, ha fatto sapere che le strutture sono ancora operative, nonostante siano state danneggiate, e alcuni specialisti stanno valutando la portata effettiva dei danni. Fortunatamente, nessun civile o dipendente della compagnia è stato coinvolto nell’attacco.

I depositi ucraini vengono usate per stoccare gas acquistato da agenzie europee, che hanno affittato circa 2,5 miliardi di metri cubi di spazio di stoccaggio su circa 10 disponibili, come riporta il Kyiv Indipendent. Per questo motivo, contribuire alla difesa ucraina significa contribuire alla difesa di risorse e infrastrutture strategiche anche per l’Unione europea, tutelando quindi anche la popolazione da fluttuazioni di prezzo e da eventuali carenze energetiche.

Tuttavia, con il proseguire dell’invasione di Gaza da parte di Israele, l’aumentare delle tensioni in Medio Oriente e le prossime elezioni europee e negli Stati Uniti, che stanno distogliendo l’attenzione della politica dall’aggressione russa, gli alleati occidentali non stanno più garantendo un regolare flusso di aiuti militari all’Ucraina. Scarseggiano in particolare munizioni per l’artiglieria e per i sistemi antiaerei, vitali sia per respingere le offensive russe sia per proteggere città e infrastrutture ucraine.

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L’Ucraina ha colpito una raffineria in Russia a 1.300 chilometri dal fronte

Author: Wired

L’Ucraina ha colpito, con droni di sua produzione, la terza più importante raffineria di petrolio della Russia nella repubblica federale del Tatarstan, a 1.300 chilometri dalle linee del fronte. Si tratta dell’attacco più in profondità lanciato finora dalle forze ucraine nel territorio della Federazione russa, mirato a danneggiare le infrastrutture produttive che finanziano l’invasione dell’Ucraina.

Come ha raccontato il ministro ucraino per la Trasformazione digitale, Mykhailo Fedorov, al quotidiano tedesco Welt, l’Ucraina ha cominciato a produrre nuovi droni a lungo raggio in grado di viaggiare per oltre mille chilometri, per sopperire alla carenza di munizioni dovuta ai rallentamenti degli aiuti militari in arrivo dagli Stati Uniti. Le nuove armi sono destinate esplicitamente a colpire obiettivi militari in Russia, dove l’Ucraina ha promesso di non impiegare armi occidentali.

Attacco in Tartastan

A meno di un giorno di distanza da queste dichiarazioni, la Russia ha ammesso di aver subito l’attacco nelle città del Tatarstan di Yelabuga e Nizhnekamsk. A Nizhnekamsk si trova la raffineria Taneco di Tatneft, quinta compagnia petrolifera russa, che lavora circa 150mila barili di greggio al giorno e una capacità produttiva annuale di oltre 17 milioni di tonnellate, pari al 6,2% della capacità di raffinazione totale della Russia. L’unità colpita dai droni ucraini garantisce circa la metà della capacità produttiva dell’impianto, ma secondo le autorità russe, si legge su Reuters, non ci sarebbero stati danni critici.

A Yelabuga, invece, si trovano impianti metalmeccanici, petrolchimici e anche uno stabilimento russo che produce i droni a lungo raggio iraniani Shahed. Secondo le fonti ucraine, questo secondo attacco avrebbe causato “danni significativi” alla produzione dei droni kamikaze, di cui la Russia ha impiegato circa 5 mila unità per colpire l’Ucraina negli oltre 2 anni di invasione. Entrambi i paesi hanno aumentato significativamente la propria capacità produttiva di droni, ma la Russia continuerebbe ad avere un vantaggio significativo essendo un paese più grande e con maggiori risorse.

Questo attacco è un esempio del cambio di strategia che l’Ucraina sta adottando dallo scorso autunno, concentrando i suoi sforzi per danneggiare la macchina bellica russa e in particolare le sue maggiori fonti di esportazione, come il petrolio, che garantiscono enormi entrate economiche.