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Huntdown Recensione: potenza di fuoco in pixel-art

Huntdown richiama un passato splendido. Team 17 e Bitmap Brothers. Floppy “fatti in casa” e pomeriggi con gli amici. Huntdown ricorda, soprattutto, la cara e vecchia Amiga. Quasi che, accettando il paradosso, il titolo firmato dai ragazzi di Easy Trigger Games sia stato pensato, programmato e concepito su hardware Commodore ultra pompato. Huntdown, oltre a solleticare la memoria, è infatti meraviglioso da vedere, con animazioni fluide, palette coraggiosa e disegno ardito. Huntdown, infine, è una pepita d’oro del Klondike da giocare, proponendo un gameplay semplice e allo stesso tempo appagante. Huntdown, insomma, è passato e futuro, nel suo essere fortemente presente.

Huntdown: ho il gameplay nelle mani

Nessuno, approcciandosi ad uno shooting bidimensionale run’n gun, pretenderà un livello di scrittura shakespeariano, ma se non altro adatto al contesto. Pescando a piene mani dall’universo cyberpunk degli anni ’80, Huntdown ha persino un incipit interessante, che chiarisce subito al giocatore come nell’universo di gioco non ci siano davvero buoni, ma solo cattivi e meno cattivi. Non tutti, ovviamente, lavorano nella stessa squadra. La nostra è composta, tanto per chiarire, da uno dei 3 cacciatori di taglie selezionabili prima di iniziare l’avventura. Anna Conda, John Sawyer e Mow Man hanno armi e abilità specifiche, preferibili a seconda delle proprie necessità in termini di agilità, potenza di fuoco e capacità di resistere ai colpi. I 3 cacciatori di taglie vengono assoldati da Madrelupa, a capo della corporazione Shinobi, per fermare le rivolte scoppiate in città e, quindi, riportare la pace ma, soprattutto, un ordine sociale ed economico che favorisca, al solito, lo status quo dei potenti del caso. I richiami, purtroppo anche recenti, a guerre tra bande e guerriglie sociali non sono casuali. Anzi. Sorvolando sui drammi della cronaca, quasi tutto, in Huntdown, è una rivisitazione di qualcos’altro. Detto di Blade Runner, impossibile non annusare gli odori di The Warriors, sempre in tema cinematografico, o di un qualsiasi Robocop. In questo caso, anche in termini ludici. Tornando ai nostri 3 anti eroi, chiamati ad onorare un rapporto principalmente economico e quindi privo di questioni ideologiche, giova evidenziare come, da un punto di vista strutturale, il cacciatore di taglie selezionato dovrà essere guidato lungo 4 macroaree, suddivise in 20 livelli di lunghezza variabile e disseminate di nemici, mid-boss e boss. Sono proprio i combattimenti finali a caratterizzare maggiormente la componente ludica di Huntdown.

Questo perché se le parti iniziali dei livelli sono tutto sommato piuttosto semplici, con sezioni tutto sommato lineari e limitate sul piano verticale, gli scontri che chiudono i livelli sono tutti originali, “costringendo” il giocatore a studiare pattern che mutano nel corso dello stesso combattimento. In ogni caso, il titolo fa leva, prima ancora che comandi particolarmente “croccanti” e basilirari, su un livello di difficoltà mediamente alto ma, almeno a livello Normal, tutt’altro che impossibile, pur richiedendo una buona dose di sezioni Trail and Error, in realtà mai fastidiosa. La sensazione è che i programmatori non abbiano voluto “strafare”, disegnando livelli tutt’altro che lunghi, ma ricchi di nemici e di situazioni varie e imprevedibili. Funziona? Alla grande. Nonostante una mobilità del protagonista fortemente limitata, in fondo si tratterà quasi sempre di sparare e saltare, uno dei meriti di Huntdown è quello di sviluppare il concetto di “copertura” in un ambiente che resta a due dimensioni. Non si tratta di una novità assoluta, esistono esempi sul tema spalmati nel corso della storia del videogioco, ma non abbiamo timore nel ritenere quest’ultimo esperimento come uno dei più riusciti di sempre. In pratica, oltre alla possibilità si sfruttare semplici elementi di scenario a mo di “scudo” semplicemente abbassandoci, il level design promuove, anche, la necessità di effettuare un movimento in profondità che consente, così, di evitare i proiettili nemici. Infine, è anche possibile effettuare schivate, a terra o in aria, per un “dash” che, in determinate circostanze, può essere convertito in attacco fisico. Quanto detto, resta tutto subordinato ad uno “sparo” praticamente continuo da parte del giocatore, chiamato anche alla raccolta di armi “speciali” e consumabili perse dai nemici o nascoste, come alcuni semplici collezionabili, lungo i variegati scenari di gioco.

L’arte dei pixel

Giusto ribadirlo: nonostante la semplicità strutturale dei livelli, l’impasto ludico funziona. I meccanismi che regolano Huntdown sono perfettamente oliati ed è davvero difficile, al netto dei gusti personali, trovare difetti oggettivi al gameplay. Un concetto che, mutatis mutandis, può essere replicato sul piano tecnico ed artistico. Perché Huntdown, come in attacco, è realmente splendido da vedere. Lasciate perdere, per un momento, opere come i recenti Wonderboy, Toki e Streets of Rage 4. Huntdown gioca in un campionato diverso, che impreziosisce ogni singolo pixel con colori, effetti e stile raramente replicati o replicabili in tempi moderni. Gli sprite, innanzitutto. Sono ricchi di particolari e soprattutto splendidamente animati. E poi, gli scenari, colmi di dettagli e pronti a sfoggiare scelte cromatiche ardite e coraggiose. Sotto l’aspetto visivo e anche stilistico, il titolo sembra davvero essere stato concepito per un’ucronica Amiga 5000: una suggestione alimentata evidentemente con cognizione di causa da un team che ha studiato non solo l’immaginario cyberpunk, ma anche i videogiochi derivati dalla scena europea di quegli anni. La ricerca e la rielaborazione puntuale e affascinante si riaffaccia anche nella soundtrack e negli effetti sonori. Tra citazioni più o meno esplicite e armonie orecchiabili, la potenza dei sinth e dei bassi che sorreggono le musiche ci ha imposto di affrontare le circa 4 ore necessarie per portare a termine la prima run con il volume cuffie settate al massimo della potenza. Le imprese successive, una volta metabolizzate le meccaniche e imparati i pattern dei nemici, scorreranno comunque più rapide. La campagna, magari alla ricerca di una partita perfetta priva di morti, può essere completata in meno di 2 ore. Anche meno se aiutati da un amico in locale per il più classico dei multiplayer, purtroppo non replicabile sul fronte online. Un peccato, un vero peccato. L’unico, probabilmente, di una produzione minore solo in apparenza e che, anzi, per qualità, travalica molti dei limiti conosciuti al panorama indie.

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Difetti? L’assenza di una componente online e quindi l’impossibilità di giocare con un amico a distanza non è da sottovalutare. Meno incisiva, invece, la scarsa differenzazione, almeno sul fronte del gameplay, dei tre personaggi selezionabili, comunque ben caratterizzati, come ogni altro nemico o alleato, sul fronte visivo. Il problema di Huntdown è che, una volta terminato per l’ennesima volta, ne vorrete di più. Il ritmo di gioco adrenalinico rischia di produrre dipendenza. Proprio come una volta. Proprio come quella volta quando, in sala giochi, inserivamo un’altra monetina nel cabinato di turno. Un passato splendido per un presente che, nel genere, ha un nuovo riferimento.

Author: GamesVillage.it

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