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La terapia psichedelica che aiuta chi soffre di stress post-traumatico

Author: Wired

Nel corso della terapia, tra i veterani sono stati rilevati casi di mal di testa e nausea. Ciononostante, non sono stati registrati effetti collaterali gravi come per esempio problemi cardiaci. I partecipanti allo studio sono poi tornati a Stanford per le valutazioni post-trattamento. A un anno di distanza, Hudak si sente ancora bene.

Sono risultati davvero impressionanti, considerando che i pazienti soffrivano di disturbi gravi e difficili da trattare”, afferma Conor Liston, professore di neuroscienze e psichiatria alla Weill Cornell Medicine, che non ha partecipato allo studio.

Le questioni irrisolte

Tuttavia, resta ancora da capire come esattamente l’ibogaina e gli altri psichedelici influiscano sulla salute mentale. Un’ipotesi è che incrementino la plasticità cerebrale, ovvero la capacità del cervello di rimodellare le proprie connessioni: “La formazione di nuove connessioni o sinapsi tra le cellule cerebrali potrebbe giocare un ruolo importante dal punto di vista terapeutico”, conferma Liston.

Un’altra tesi è che l’ibogaina agisca anche sui livelli della proteina che trasporta la serotonina, il Sert, che rappresenta il bersaglio terapeutico degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, o Ssri, farmaci comunemente usati per il trattamento della depressione.

Ma anche l’effetto dell’ibogaina sulle funzioni cognitive non è chiaro. Il gruppo di ricercatori di Stanford sta cercando di capire come la sostanza abbia migliorato la memoria di lavoro, la velocità di elaborazione e altri processi cognitivi analizzando l’attività cerebrale dei veterani attraverso tecniche di neuroimaging.

Amy Badura Brack, docente di psicologia presso la Creighton University che studia il Ptsd, resta comunque cauta di fronte alle nuove evidenze: “Sebbene i risultati siano significativi, la maggior parte degli studi psicologici riesce a dimostrare l’efficacia di qualsiasi tipo di intervento”, sottolinea. Inoltre, lo studio è stato condotto su un numero ridotto di partecipanti e non includeva né un gruppo di controllo (ovvero di un insieme di individui a cui viene somministrato un placebo al posto dell’ibogaina), né un gruppo di persone che ha ricevuto trattamenti standard con cui poter confrontare gli effetti sui pazienti che invece hanno assunto la terapia.

C’è anche da tenere in considerazione il fatto che per partecipare allo studio i volontari hanno fatto un viaggio in Messico; quest’esperienza potrebbe spiegare in parte i miglioramenti immediati: “Molti di noi sperimentano effetti psicologici positivi, e persino sottili miglioramenti neurologici, dopo un periodo di riposo e rilassamento“, afferma la professoressa.

Resta infine da capire quanto a lungo durino gli effetti della sostanza. Williams racconta di aver continuato a seguire i veterani per un anno insieme ai suoi colleghi, e prevede di pubblicare i dati del monitoraggio nel prossimo futuro. Lo studioso sostiene che i risultati della ricerca preliminare potrebbero aprire la strada a sperimentazioni più ampie, che spera possano avvenire negli Stati Uniti. “Credo che ci sia ancora del lavoro da fare – commenta Williams –, ma i risultati raccolti finora sono davvero incoraggianti”.

Questo articolo è apparso originariamente su Wired US.

Author: Wired

Nel corso della terapia, tra i veterani sono stati rilevati casi di mal di testa e nausea. Ciononostante, non sono stati registrati effetti collaterali gravi come per esempio problemi cardiaci. I partecipanti allo studio sono poi tornati a Stanford per le valutazioni post-trattamento. A un anno di distanza, Hudak si sente ancora bene.

Sono risultati davvero impressionanti, considerando che i pazienti soffrivano di disturbi gravi e difficili da trattare”, afferma Conor Liston, professore di neuroscienze e psichiatria alla Weill Cornell Medicine, che non ha partecipato allo studio.

Le questioni irrisolte

Tuttavia, resta ancora da capire come esattamente l’ibogaina e gli altri psichedelici influiscano sulla salute mentale. Un’ipotesi è che incrementino la plasticità cerebrale, ovvero la capacità del cervello di rimodellare le proprie connessioni: “La formazione di nuove connessioni o sinapsi tra le cellule cerebrali potrebbe giocare un ruolo importante dal punto di vista terapeutico”, conferma Liston.

Un’altra tesi è che l’ibogaina agisca anche sui livelli della proteina che trasporta la serotonina, il Sert, che rappresenta il bersaglio terapeutico degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, o Ssri, farmaci comunemente usati per il trattamento della depressione.

Ma anche l’effetto dell’ibogaina sulle funzioni cognitive non è chiaro. Il gruppo di ricercatori di Stanford sta cercando di capire come la sostanza abbia migliorato la memoria di lavoro, la velocità di elaborazione e altri processi cognitivi analizzando l’attività cerebrale dei veterani attraverso tecniche di neuroimaging.

Amy Badura Brack, docente di psicologia presso la Creighton University che studia il Ptsd, resta comunque cauta di fronte alle nuove evidenze: “Sebbene i risultati siano significativi, la maggior parte degli studi psicologici riesce a dimostrare l’efficacia di qualsiasi tipo di intervento”, sottolinea. Inoltre, lo studio è stato condotto su un numero ridotto di partecipanti e non includeva né un gruppo di controllo (ovvero di un insieme di individui a cui viene somministrato un placebo al posto dell’ibogaina), né un gruppo di persone che ha ricevuto trattamenti standard con cui poter confrontare gli effetti sui pazienti che invece hanno assunto la terapia.

C’è anche da tenere in considerazione il fatto che per partecipare allo studio i volontari hanno fatto un viaggio in Messico; quest’esperienza potrebbe spiegare in parte i miglioramenti immediati: “Molti di noi sperimentano effetti psicologici positivi, e persino sottili miglioramenti neurologici, dopo un periodo di riposo e rilassamento“, afferma la professoressa.

Resta infine da capire quanto a lungo durino gli effetti della sostanza. Williams racconta di aver continuato a seguire i veterani per un anno insieme ai suoi colleghi, e prevede di pubblicare i dati del monitoraggio nel prossimo futuro. Lo studioso sostiene che i risultati della ricerca preliminare potrebbero aprire la strada a sperimentazioni più ampie, che spera possano avvenire negli Stati Uniti. “Credo che ci sia ancora del lavoro da fare – commenta Williams –, ma i risultati raccolti finora sono davvero incoraggianti”.

Questo articolo è apparso originariamente su Wired US.

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