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Rita Levi Montalcini, l’Elogio dell’imperfezione della scienziata protagonista della maturità 2024

Author: Wired

Gli esami di maturità 2024 sono cominciati e in questa giornata iniziale i ragazzi stanno affrontando la prima prova, il tema di italiano. Tra le diverse tracce, c’è anche il brano “Elogio dell’imperfezione”, l’autobiografia di Rita Levi Montalcini, una delle personalità scientifiche più straordinarie di sempre. Ma chi era, di cosa si è occupata e perché ha vinto il Nobel?

Chi era Rita Levi Montalcini

Nata a Torino il 22 aprile 1909 in una famiglia ebrea, Rita Levi Montalcini si iscrisse all’Università degli studi di Torino nel 1930, conseguendo la laurea in medicina e chirurgia nel 1936 e specializzandosi poi in neurologia e psichiatrica. In seguito alle leggi razziali del 1938, in quanto ebrea, fu costretta a spostarsi continuamente, prima in Belgio, poi a Torino e a Firenze. Terminata la guerra, nel 1945 tornò a Torino e solamente l’anno successivo accettò un incarico alla Washington University. Fino al 1977 rimase negli Stati Uniti, dove condusse gli esperimenti che la portarono alla scoperta nel 1951-52 del fattore di crescita nervoso o Ngf (Nerve Growth Factor), per cui vinse il premio Nobel per la medicina nel 1986.

Cariche e riconoscimenti

Oltre al Nobel, Rita Levi Montalcini ha ricevuto altri riconoscimenti, tra cui 5 lauree honoris causa, e ricoperto molteplici cariche: ha diretto il Centro di Ricerche di neurobiologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche all’Istituto Superiore di Sanità, è stata direttrice del Laboratorio di biologia cellulare del Cnr, presidente dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla e dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Inoltre, è stata membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Accademia Nazionale delle Scienze, National Academy of Sciences statunitense e Royal Society. Ha collaborato con l’Istituto Europeo di Ricerca sul Cervello (Fondazione EBRI, European Brain Research Institute), da lei fondato nel 2001, anno in cui è stata nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. È molta il 30 dicembre 2012, all’età di 103 anni, nella sua casa a Roma.

Il premio Nobel

Nel 1986, all’età di 77 anni, Rita Levi Montalcini ha vinto il premio Nobel per la medicina, insieme all’americano Stanley Cohen, per la scoperta del fattore di crescita nervoso o Ngf (Nerve Growth Factor), pietra miliare della biologia. Ngf , ricordiamo, è una piccola proteina fondamentale per il mantenimento e la crescita dei neuroni del sistema simpatico e sensoriale, senza la quale le cellule del cervello si suicidano. Le ricerche su embrioni di pollo condotte dalla scienziata hanno dimostrato che il cervello può rigenerarsi, contrariamente a quanto creduto fino al quel momento. In altre parole l’Ngf è il regista della plasticità neuronale e, con successive ricerche, sono state scoperte decine di molecole simili, dette “neurotrofine”, che aiutano il cervello a mantenersi giovane nonostante il passare degli anni.

Altre ricerche

Il Nobel per la medicina vinto nel 1986 è solo una delle tante cose per cui ricordare l’unicità di questa ricercatrice. Ad esempio, i suoi studi hanno mostrato come l’Ngf svolga un ruolo importante nel prevenire lo sviluppo dell’Alzheimer, impedendo, infatti, la produzione della proteina beta-amiloide, responsabile della malattia,. L’Ngf, inoltre, è stato oggetto di studi sperimentali per le ulcere corneali, lesioni che possono portare a cecità. Si tratta, in particolare, del famoso collirio Montalcini, ossia gocce oculari a base dell’Ngf, approvato poi dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) per curare la cheratite neurotrofica moderata e grave.

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Il cervello umano come non lo abbiamo mai visto

Author: Wired

Molto presto riusciremo finalmente a scrutare nei meandri del cervello umano coma mai prima d’ora e a osservare qualsiasi cosa al suo interno. A dirlo è stato un team di ricercatori coordinato dal Picower Institute for Learning and Memory del Massachusetts Institute of Technology (Mit) che, servendosi di tecnologie sempre più sofisticate e innovative, è riuscito a elaborare con precisione, etichettare in modo dettagliato e visualizzare in modo nitido gli interi emisferi del cervello. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science.

Ancora nessuna mappa

“Abbiamo eseguito l’imaging dei tessuti cerebrali umani a risoluzioni multiple, dalle singole sinapsi agli emisferi cerebrali interi e abbiamo reso disponibili i dati”, ha commentato Kwanghun Chung, tra gli autori dello studio. “Questa piattaforma ci consente davvero di analizzare il cervello umano su più scale e può essere utilizzata per mapparlo completamente”. Il nuovo studio, quindi, non presenta già una mappa completa o un atlante dell’intero cervello, in cui ogni cellula, circuito e proteina viene identificata e analizzata, ma dimostra come questa nuova piattaforma, che combina tre innovative tecnologie, possa consentirlo.

Le tre tecnologie chiave

Il team di ricerca che ha permesso di raggiungere questi risultati è composto da Ji Wang, un ingegnere meccanico che ha sviluppato il “Megatome”, un dispositivo per tagliare gli emisferi del cervello umano così finemente da non subire danni. Juhyuk Park, ingegnere dei materiali che ha sviluppato la chimica che rende ogni porzione di cervello chiara, flessibile, durevole, espandibile e rapidamente, uniformemente e ripetutamente etichettabile, in una tecnologia chiamata “mElast“. Infine, Webster Guan, ingegnere chimico del Mit, ha creato un sistema computazionale chiamato “Unslice” in grado di riunificare perfettamente le lastre per ricostruire ciascun emisfero in 3D fino al preciso allineamento dei singoli vasi sanguigni e degli assoni neurali (i lunghi filamenti che si estendono per creare connessioni con altri neuroni).

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Come funziona Third Thumb, il terzo pollice robotico facile da usare per (quasi) tutti

Author: Wired

Interazione umano-macchina

Il progetto Third Thumb, però, non è “solo” sviluppare un dispositivo potenzialmente utile, ma è un’indagine attorno a tutto ciò che è o potrebbe diventare il rapporto tra gli esseri umani e le macchine. Nel 2021 il gruppo di ricerca aveva indagato, per esempio, come il cervello umano risponde all’utilizzo di un’estensione artificiale del corpo, dimostrando che ci adattiamo facilmente alla percezione e all’utilizzo del dito in più (in altre parole cambia la rappresentazione della mano nella corteccia cerebrale senso-motoria) e che altrettanto facilmente, una volta tolta la protesi, i cambiamenti cerebrali scompaiono.

Stop alle discriminazioni

Un altro aspetto fondamentale quando si sta sviluppando una nuova tecnologia è l’inclusività.
“La tecnologia sta cambiando la nostra stessa definizione di cosa significhi essere umani, con le macchine che diventano sempre più parte della nostra vita quotidiana e anche delle nostre menti e dei nostri corpi”, spiega Tamar Makin, responsabile del progetto di ricerca dell’Università di Cambridge. “Queste tecnologie aprono nuove entusiasmanti opportunità che possono apportare benefici alla società, ma è fondamentale considerare come possano aiutare tutte le persone allo stesso modo, in particolare le comunità emarginate che sono spesso escluse dalla ricerca e dallo sviluppo dell’innovazione”.

Il risultato finale, per il team di ricerca, dovrà essere diverso da quanto è avvenuto in passato con altre tecnologie che, benché utili, hanno prodotto discriminazioni perché non hanno tenuto conto delle differenze che esistono tra esseri umani. Andando indietro nel tempo, i sedili e le cinture delle automobili garantiscono ancora oggi maggior sicurezza per le persone di sesso maschile in caso di incidente, perché i manichini da crash-test rappresentavano un maschio medio. Un altro esempio sono diversi tipi di utensili che risultano più pericolosi se utilizzati da persone mancine, che dunque impiegano la mano sinistra o cercano di usarli con la mano non dominante. Ancora, i sistemi di riconoscimento vocale e alcune tecnologie per la realtà aumentata riconoscono peggio la voce/i movimenti degli utenti di pelle nera rispetto a quelli di pelle bianca.

“Per garantire che tutti abbiano l’opportunità di partecipare e beneficiare di questi entusiasmanti progressi – continua Makin – dobbiamo integrare e misurare esplicitamente l’inclusività durante le primissime fasi possibili del processo di ricerca e sviluppo”.

Un progetto di co-sviluppo col pubblico

Con questo obiettivo il team di Makin e Clode nel 2022 ha portato Third Thumb fuori dal laboratorio e dalla cerchia dei test sui piccoli numeri, presentandolo alla Royal Society Summer Science Exhibition e facendolo provare a 596 persone di tutte le età, dai 3 ai 96 anni, senza selezione a priori. Il dispositivo, disponibile in due taglie, è stato leggermente modificato per questioni pratiche (alimentato in modo diretto per evitare di dover continuamente ricaricare le batterie) e igieniche (i sensori di pressione erano fissati a una piattaforma esterna anziché all’interno delle scarpe) e i ricercatori presenti hanno raccolto, dopo la firma del consenso informato, alcune informazioni sulle persone che sceglievano di mettere alla prova il terzo pollice.

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La prossima frontiera per Neuralink è la vista artificiale

Author: Wired

Complessivamente, Bussard ha 400 elettrodi impiantati: “È come una rete cellulare nel cervello“, spiega il responsabile dello studio. Una telecamera montata su un paio di occhiali riprende l’ambiente circostante. Le immagini vengono elaborate con uno speciale software e tradotte in comandi che comunicano con la rete di chip, accendendo i singoli elettrodi per stimolare i neuroni. La stimolazione produce percezioni visive chiamate fosfeni, che assomigliano a puntini luminosi, senza che la luce raggiunga effettivamente l’occhio. Poiché gli stimolatori sono raggruppati in parte della corteccia visiva, Bussard vede i fosfeni solo nella parte inferiore sinistra del suo campo visivo. Ma tutto questo è sufficiente per migliorare la sua capacità di orientarsi in una stanza e consentirgli di svolgere compiti di base, come individuare un piatto tra quattro oggetti diversi su un tavolo.

La tecnologia del futuro

Produrre immagini migliori è una delle sfide principali di questi sistemi: “Più elettrodi si hanno, più fosfeni si potrebbero produrre in teoria, e più forme complesse si potrebbero generare artificialmente“, spiega Xing Chen, assistente di oftalmologia all’Università di Pittsburgh. L’anno scorso, Chen e i suoi colleghi hanno pubblicato uno studio su una protesi visiva creata con 1024 elettrodi. Quando hanno testato il sistema nelle scimmie, gli animali sono riusciti a riconoscere lettere generate artificialmente. Per ripristinare una forma di vista nelle persone, il numero di elettrodi necessari vanno dalle centinaia alle migliaia, a seconda delle stime. Ma Troyk, il responsabile dello studio a cui si è sottoposto Brian Bussard, ritiene che l’importante non sia tanto il numero di elettrodi, quanto la loro collocazione: distribuendoli sulla corteccia visiva si potrebbero produrre più punti luminosi in un campo visivo più ampio. Il rovescio della medaglia, però, potrebbe essere un intervento chirurgico più invasivo.

Nello studio dell’Università Miguel Hernández in Spagna, i volontari hanno ricevuto un solo dispositivo contenente 100 elettrodi. Ciononostante anche questo sistema ha permesso a una donna di 60 anni di identificare linee, forme e semplici lettere, secondo i risultati pubblicati nel 2021. I ricercatori hanno poi replicato lo studio in altri tre volontari ciechi, spiega Eduardo Fernández, il neuroscienziato a capo della ricerca, il cui obiettivo principale è migliorare l’orientamento e la mobilità delle persone non vedenti. In un test, un soggetto che indossa la protesi è in grado di evitare gli oggetti mentre cammina su un tapis roulant davanti a uno schermo video per la realtà virtuale. In futuro, Fernández vuole aggiungere altri elettrodi per aumentare il numero di fosfeni e produrre immagini più dettagliate. Per ora, il suo team sta imparando molto dai quattro volontari iniziali dello studio. La corteccia visiva di ognuno dei partecipanti è un po’ diversa, quindi i ricercatori devono sperimentare diverse strategie per trovare il migliore posizionamento degli elettrodi e la quantità di stimolazione elettrica da erogare: “Personalizziamo la stimolazione per ogni volontario“, dice Fernández.

Le sfide della vista artificiale

Adattare gli impianti in modo ottenere prestazioni ottimali non è semplice. Nei primi esperimenti, i ricercatori hanno utilizzato grandi elettrodi posizionati sulla superficie del cervello, che necessitavano di correnti elettriche relativamente elevate per produrre fosfeni. Per questo motivo la stimolazione a volte causava convulsioni, dolore e danni al tessuto cerebrale. Secondo Chen, è necessario trovare un equilibrio tra la necessità di una corrente abbastanza forte che produca fosfeni senza causare effetti collaterali indesiderati.

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Perché i pinguini fanno migliaia di microsonnellini ogni giorno

Author: Wired

Potrebbe far invidia a chiunque: il sonno dei pinguini è di circa 11 ore ogni giorno. Ma non tutte in una sola volta. Ad essere davvero bizzarro è il fatto che questi uccelli, e in particolare i pigoscelidi antartici (Pygoscelis antarcticus), nell’arco di una giornata fanno una miriade di microsonnellini da pochissimi secondi ognuno. A scoprirlo è stato un team di ricerca internazionale, coordinato dal Neuroscience Research Center di Lione, che ha osservato il particolarissimo modo di dormire di questa specie di pinguino che vive in Antartide. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science.

I microsonni dei pinguini

Per studiare i cicli sonno-veglia di questi uccelli, i ricercatori si sono serviti di sensori non invasivi per registrare i movimenti muscolari, dell’elettroncefalogramma per tracciare l’attività elettrica del cervello, nonché di video continui e osservazioni dirette per osservare i comportamenti degli animali legati al sonno, come chiudere gli occhi e abbassare la testa. Dalle analisi dei dati, provenienti da 14 esemplari intenti a covare le proprie uova sull’isola di re Giorgio, è emerso che questa specie dorme in media quasi metà della giornata, facendo circa 10mila sonnellini brevissimi, in media di 4 secondi ognuno, in ciò che gli esperti chiamano “microsonni”.

Il tipo di sonno

Dalle analisi, il team ha notato che durante questi pisolini, i pinguini raggiungevano il cosiddetto sonno a onde lente, fondamentale per un riposo ristoratore anche negli esseri umani. “Questa è la terza fase del sonno, il sonno più profondo che puoi raggiungere”, spiega a Science Richard Jones, neuroscienziato del New Zealand Brain Research Institute che non è stato coinvolto nello studio. “Ma quando gli esseri umani hanno un microsonno, non arrivano mai a questa fase, dove si ottengono la maggior parte dei benefici”.

I benefici dei microsonnellini

Sebbene possano essere semplicemente tentativi falliti di dormire più profondamente, i ricercatori ipotizzano che per i pinguini i frequenti pisolini siano un modo per riposarsi rimanendo comunque vigili. Consentono infatti ai pinguini di dormire abbastanza per riposarsi e difendere le uova dai predatori, mentre il partner va alla ricerca di cibo per giorni e giorni. “È davvero sorprendente che riescano a sostenere questi microsonni tutto il tempo”, ha spiegato Paul-Antoine Libourel, neuroscienziato e coautore dello studio.

I misteri del sonno

Tutt’oggi il sonno rimane un mistero e ancora più misterioso è come e perché dormono gli altri animali. Per quanto ne sappiamo, tutti abbiamo bisogno di dormire, ma c’è una enorme diversità nei modi di dormire tra i diversi animali, che va dal letargo di mesi, come quello degli orsi, ai brevi sonnellini che fanno riposare solo metà del cervello, come i polpi. Sapere di più su come dormono i diversi animali, quindi, “è fondamentale per comprendere meglio a cosa serve il sonno”, commenta a Science Chiara Cirelli, neuroscienziata dell’Università del Wisconsin-Madison, che non è stata coinvolta nella ricerca. Non solo: riuscire a studiare il sonno in natura è particolarmente importante, perché molte delle ricerche vengono condotte “in condizioni controllate e sicure, e potrebbero quindi essere fuorvianti”.

In linea generale, quest’ultimo studio fa luce su come diversi animali adattano il loro sonno per far fronte a circostanze stressanti, evidenziando la fondamentale flessibilità del sonno, almeno in termini evolutivi. “Esiste una competizione tra i benefici fisiologici del sonno e la necessità di essere svegli e vigili”, ha concluso Libourel. Questa competizione può svolgersi in modo molto diverso tra le specie, sottolineando che non esiste una notte di sonno universalmente “buona”.