Categorie
Economia Tecnologia

Streaming, davvero sta uccidendo la musica

Tra i comprensibili timori legati a un ascolto distratto di musica sempre più facile, si fa largo un altro aspetto: le piattaforme spalancano orizzonti illimitati e permettono di scoprire ciò che prima era riservato a pochissimi appassionati

Author: Wired

Dalla diffusione di Spotify (e in realtà ancora prima, anche se in forme diverse) lo scenario musicale è stato trasformato. L’impressione è però che lo streaming, da una parte, abbia senz’altro favorito una fruizione superficiale della musica mainstream, ma, dall’altra e contemporaneamente, abbia fatto esplodere la scoperta di musica di nicchia, sperimentale o underground.

Usa e getta

La contraddizione è solo apparente. Anzi, questa dicotomia è proprio una delle principali caratteristiche di internet, che appiattisce la fruizione culturale (o informativa o d’intrattenimento) per chi usa questo strumento in modalità passiva e pigra, ma allo stesso tempo spalanca gli orizzonti di chi ha tempo, voglia e mezzi per esplorarlo e sfruttarne le potenzialità.

Da un certo punto di vista, tutto è cambiato perché nulla cambiasse. Trenta o anche vent’anni fa già esisteva l’equivalente delle playlist ultracommerciali di Spotify: erano le varie compilation con i tormentoni del momento che uscivano a getto continuo, spesso dominando le classifiche (com’era il caso della compilation del Festivalbar). All’altro estremo dello spettro c’era chi si recava nei negozi di dischi specializzati in determinati generi musicali per andare alla ricerca di cd di autori ai più ignoti e discuterne con altri appassionati (cosa che ovviamente poteva fare quasi solo chi viveva nelle grandi città: il mio punto di ritrovo, per esempio, era Time Out, in via De Amicis a Milano).

Più che causare la scomparsa di qualcosa (che non siano i negozi di dischi), ciò che si avverte è come lo streaming abbia ricreato una divisione che esisteva già prima. Tutto bene, quindi? Non proprio, perché come già avvenuto in altri ambiti, il mondo digitale tende a esasperare le polarizzazioni, massificando l’ascolto in maniera estrema da una parte e spalancando orizzonti inesplorati dall’altra, ma lasciando un grande vuoto in mezzo; quello che prima era popolato dalla maggior parte della popolazione. 

Un’altra fondamentale criticità dello streaming non è legata all’esperienza musicale, ma alla mancanza di possesso effettivo della musica, che di fatto ci limitiamo solo a prendere in prestito di volta in volta. In questo modo, rimaniamo soggetti a qualsivoglia arbitraria scelta di Spotify, Apple Music e le altre. È il caso per esempio della rimozione di una canzone di Patty Smith in nome del “politicamente corretto” o degli album che improvvisamente scompaiono: qualcosa che ovviamente non sarebbe mai stato possibile ai tempi del supporto fisico (e nemmeno del download di mp3).

È una questione cruciale che andrebbe affrontata in sede separata. Per il resto è difficile essere nostalgici dell’epoca del cd, in cui si era costretti a spendere 20/30 euro a scatola quasi chiusa per poi, a volte, autocostringersi ad ascoltare un disco per aggirare la sgradevole sensazione di aver buttato via i soldi. Anche quello era sicuramente un disincentivo alla sperimentazione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.