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Clamorosa novità: su Spotify arrivano i video musicali

Author: Wired

Videoclip come Baby One More Time di Britney Spears o I Don’t Want to Miss a Thing degli Aerosmith hanno fatto non solo la storia della musica, ma anche quella della cultura pop. E ora, a distanza di oltre due decenni, la gloria dei videoclip sembra essere finalmente pronta a tornare alla ribalta con Spotify. Proprio oggi, infatti, la piattaforma ha annunciato il lancio della versione beta dei video musicali per gli abbonati Premium in 11 diversi paesi, tra cui l’Italia – gli altri saranno Regno Unito, Germania, Olanda, Polonia, Svezia, Brasile, Colombia, Filippine, Indonesia e Kenya.

Per il momento, però, il catalogo dei videoclip disponibili sulla piattaforma di streaming sarà alquanto ristretto, anche se includerà alcuni degli artisti internazionali più amati del momento, come Ed Sheeran, Doja Cat e Ice Spice. Una selezione attenta, che punta a rafforzare il legame tra gli artisti e i loro fan, proprio attraverso la nuova funzione di Spotify. Ma come fare per poter visualizzare i videoclip? La funzione è semplice e pratica – come, d’altronde, lo è l’intera interfaccia della piattaforma.

Aprendo l’app su un qualunque dispositivo iOS, Android, desktop o tv, gli utenti potranno accedere ai video musicali selezionando l’opzione “Passa al video” disponibile per i brani supportati. Questo vi permetterà di vedere i videoclip nell’apposita sezione “In riproduzione ora”. Se da qui volete tornare al semplice ascolto dell’audio, poi, vi basterà utilizzare l’opzione “Passa all’audio”. Insomma, basta qualche semplice passaggio per riprodurre i videoclip dei vostri artisti preferiti sul vostro smartphone, ovunque vi troviate. Spotify vi offre anche la possibilità di vedere i vostri video preferiti a schermo intero, selezionando l’apposita modalità panoramica.

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Le grandi aziende che fanno marcia indietro sullo smart working

Author: Wired

Google ha richiesto tre giorni in ufficio ma ha però sottolineato come una presenza maggiore sarebbe stata valutata positivamente, riporta il Wall Street Journal. Stesso discorso anche per i dipendenti di Meta, casa madre di Facebook, Instagram e WhatsApp, e di Apple, dove i dipendenti hanno provato a respingere il rientro obbligato con una petizione in cui sostenevano di essere “più felici e produttivi” lontani dall’ufficio, si legge sul sito del sindacato Apple Together. Purtroppo non hanno avuto successo.

L’alt di Zoom

Ma a sconvolgere davvero il mondo del lavoro è stata la marcia indietro di Zoom, le cui call sono state fondamentali per il successo dello smart working. Il gruppo ha guadagnato miliardi offrendo ad aziende e istituzioni la sua piattaforma. Ad agosto, però, l’amministratore delegato Eric Yuan ha usato la scusa della creatività e della fiducia per richiamare i dipendenti in ufficio, racconta Business Insider.

L’ultima grande azienda del settore tecnologico a pretendere almeno tre giorni di presenza a settimana ai suoi dipendenti è stata Amazon, minacciando di licenziamento chi non dovesse adeguarsi, si legge sul Guardian. Una decisione che si scontra con le 30mila firme raccolte tra lavoratrici e lavoratori della compagnia, contrari al ritorno in ufficio obbligatorio, e che si accompagna alle recenti rilevazioni di come i dipendenti Amazon rimasti in smart working siano stati tracciati e penalizzati per non aver passato abbastanza tempo in sede.

C’è chi dice sì

Tra le aziende che hanno dato priorità assoluta al lavoro in ufficio, il cosiddetto office-first, si trovano Netflix e Goldman Sachs, che hanno tra le politiche più stringenti e restrittive per il lavoro da remoto. Mentre tra chi predilige un sistema ibrido, con smart working e tempo in presenza, si trovano Microsoft, Revolut, Spotify, Grammarly. Infine, tra chi ha dato priorità allo smart working, il cosiddetto remote-first, si trovano AirBnb, Slack, Dropbox o Deloitte.

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Tecnologia

Podcast, grosse novità in arrivo su TikTok e Spotify

Author: Wired

Nelle scorse ore sono emerse due iniziative con protagonisti i podcast su due piattaforme ben lontane tra loro come TikTok e Patreon. Sull’app dei brevi video è infatti in arrivo la possibilità di linkare in una clip un episodio completo da ascoltare facendo tap sul collegamento, mentre sulla piattaforma pensata per i supporter dei creator sarà possibile accedere a puntate realizzate in esclusiva per gli abbonati da riprodurre attraverso a Spotify.

Gli autori di podcast potranno utilizzare TikTok come vetrina, sfruttando una prossima funzione che consentirà di caricare un video con all’interno un link al feed rss degli episodi completi da ascoltare dall’applicazione. Il manager Zachary Kizer responsabile per la comunicazioni di prodotto globale ha confermato a The Verge che sono in corso test limitati alla platea americana, sintomo che qualcosa si sta muovendo e che presto potrebbe essere esteso in tutto il mondo.

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Patreon ha ufficializzato la collaborazione con Spotify annunciata a inizio anno che consente ai creator di pubblicare episodi di podcast ascoltabili solo dai supporter che hanno sottoscritto uno degli abbonamenti a pagamento. Insomma, un buon modo per offrire uno dei tanti premi per chi contribuisce con un versamento alla realizzazione dei contenuti. Gli utenti che vorranno sfruttare questa opzione dovranno semplicemente sincronizzare la propria utenza con quella di Spotify, sfruttando la feature chiamata Open Access che era stata annunciata ormai nel 2021 proprio per aprire a questi collegamenti speciali. Gli episodi premium appariranno in una pagina dedicata e si potrà anche promuoverli attraverso banner negli episodi ascoltabili gratuitamente. Spotify non tratterrà nulla dagli abbonamenti generati tramite Open Access e i creator potranno mantenere il pieno controllo su pubblico, contenuti e ricavi, dato che non ci saranno costi aggiuntivi per l’integrazione.

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Economia Tecnologia

Streaming, davvero sta uccidendo la musica

Author: Wired

Dalla diffusione di Spotify (e in realtà ancora prima, anche se in forme diverse) lo scenario musicale è stato trasformato. L’impressione è però che lo streaming, da una parte, abbia senz’altro favorito una fruizione superficiale della musica mainstream, ma, dall’altra e contemporaneamente, abbia fatto esplodere la scoperta di musica di nicchia, sperimentale o underground.

Usa e getta

La contraddizione è solo apparente. Anzi, questa dicotomia è proprio una delle principali caratteristiche di internet, che appiattisce la fruizione culturale (o informativa o d’intrattenimento) per chi usa questo strumento in modalità passiva e pigra, ma allo stesso tempo spalanca gli orizzonti di chi ha tempo, voglia e mezzi per esplorarlo e sfruttarne le potenzialità.

Da un certo punto di vista, tutto è cambiato perché nulla cambiasse. Trenta o anche vent’anni fa già esisteva l’equivalente delle playlist ultracommerciali di Spotify: erano le varie compilation con i tormentoni del momento che uscivano a getto continuo, spesso dominando le classifiche (com’era il caso della compilation del Festivalbar). All’altro estremo dello spettro c’era chi si recava nei negozi di dischi specializzati in determinati generi musicali per andare alla ricerca di cd di autori ai più ignoti e discuterne con altri appassionati (cosa che ovviamente poteva fare quasi solo chi viveva nelle grandi città: il mio punto di ritrovo, per esempio, era Time Out, in via De Amicis a Milano).

Più che causare la scomparsa di qualcosa (che non siano i negozi di dischi), ciò che si avverte è come lo streaming abbia ricreato una divisione che esisteva già prima. Tutto bene, quindi? Non proprio, perché come già avvenuto in altri ambiti, il mondo digitale tende a esasperare le polarizzazioni, massificando l’ascolto in maniera estrema da una parte e spalancando orizzonti inesplorati dall’altra, ma lasciando un grande vuoto in mezzo; quello che prima era popolato dalla maggior parte della popolazione. 

Un’altra fondamentale criticità dello streaming non è legata all’esperienza musicale, ma alla mancanza di possesso effettivo della musica, che di fatto ci limitiamo solo a prendere in prestito di volta in volta. In questo modo, rimaniamo soggetti a qualsivoglia arbitraria scelta di Spotify, Apple Music e le altre. È il caso per esempio della rimozione di una canzone di Patty Smith in nome del “politicamente corretto” o degli album che improvvisamente scompaiono: qualcosa che ovviamente non sarebbe mai stato possibile ai tempi del supporto fisico (e nemmeno del download di mp3).

È una questione cruciale che andrebbe affrontata in sede separata. Per il resto è difficile essere nostalgici dell’epoca del cd, in cui si era costretti a spendere 20/30 euro a scatola quasi chiusa per poi, a volte, autocostringersi ad ascoltare un disco per aggirare la sgradevole sensazione di aver buttato via i soldi. Anche quello era sicuramente un disincentivo alla sperimentazione.