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Il prezzo dell’uranio è alle stelle e non è una buona notizia

Author: Wired

L’uranio costa caro e molti piani rischiano di saltare. Il voto favorevole del Parlamento europeo dello scorso anno sulle norme dell’Ue che definiscono “sostenibili” e “verdi” gli investimenti sul nucleare, inserendo la fusione all’interno di una lista di attività economiche eco-compatibili previste dal Green Deal europeo come strumento per guidare i governi nelle loro scelte di sviluppo, è soltanto l’ultimo incentivo che la filiera dell’atomo ha ricevuto nella storia recente. Vista come parte della soluzione per arrivare all’obiettivo net zero, dato che non produce emissioni di anidride carbonica, l’energia atomica giocherà un ruolo fondamentale nella transizione ecologica già in corso, e affinché questo accada ci sarà sempre più bisogno di uranio, minerale usato come combustibile nei reattori nucleari (e anche nelle armi). Il mercato dell’uranio è caratterizzato quindi da una domanda crescente ma da un’offerta limitata, aggravata dai timori per l’approvvigionamento da parte dei principali produttori: la Russia, con l’instabilità dovuta alla guerra in Ucraina, e il Niger, dopo il recente colpo di stato. Per questo motivo i prezzi del minerale sono aumentati fino a livelli sfiorati soltanto altre tre volte in passato: al momento la compravendita dell’uranio è in una fase rialzista dopo anni di rallentamento della domanda, che aveva tenuto per un decennio il prezzo tra i 20 e i 25 dollari per libbra. Oggi la quotazione è superiore ai 50 dollari.

L’incognita del Niger sul mercato dell’uranio

L’industria dell’uranio è di difficile accesso per gli investitori: i bassi prezzi storici hanno ridotto nel tempo l’esplorazione di nuovi siti di estrazione e l’offerta, così la produzione mineraria – concentrata in Kazakistan, Canada e Namibia, con l’Australia che detiene le maggiori risorse – è scesa al 25% al di sotto della domanda. Molti dei maggiori produttori, come la kazaka Kazatomprom (23% di forniture), la francese Orano (11%) e la russa Uranium One (9%), sono inoltre di proprietà statale. L’eccezione principale è rappresentata dalla canadese Cameco. Di conseguenza, la geopolitica rappresenta inevitabilmente un’incognita sull’andamento del prezzo e sulle forniture di uranio, come accade spesso per le materie prime, le cui preoccupazioni su cali dell’offerta vengono subito scontate in un repentino aumento dei prezzi. È così che una crisi come quella del Niger, che lo scorso 26 luglio è stato teatro di un colpo di stato guidato dal generale Abdourahamane Tchiani, impensierisce direttamente i governi europei. I dati Euratom evidenziano infatti che nel 2022 il Paese africano è stato il secondo fornitore di uranio dell’Ue, provvedendo da solo a circa un quarto delle forniture del blocco comunitario. Secondo la World Nuclear Association, il Niger è il settimo paese al mondo per disponibilità di uranio, con 311.100 tonnellate. Ciò equivale tuttavia solamente al 5% delle forniture globali. I primi sei paesi sono Australia (28%), Kazakistan (13%), Canada (10%), Russia (8%), Namibia (8%) e Sud Africa, con i primi tre che insieme rappresentano il 51% della disponibilità totale di minerale nel mondo.

Un trend inesorabile

Oltre il 91% dell’uranio naturale che arriva nel Vecchio Continente proviene da Kazakhstan, Niger, Canada e Russia: l’Europa ha però smentito qualsiasi percezione di rischio immediato per la produzione del minerale, facendo sapere di avere scorte sufficienti per mantenere in funzione i suoi reattori per tre anni e potendo comunque diversificare la fornitura da Stati come Canada, Australia e Namibia. Tuttavia, l’uranio rappresenta un fonte importante nella produzione energetica europea, Italia esclusa, con i primi sei paesi al mondo per quote di nucleare nella produzione di energia nel 2022 che fanno appunto parte del Continente: il trend delle principali economie, che continuano ad annunciare progetti per aumentare la propria capacità di produzione di energia nucleare per rafforzare la sicurezza energetica e ridurre le emissioni si carbonio, suggerisce che – almeno nei prossimi dieci anni – ci sarà un inesorabile aumento della domanda di uranio: resta da capire come reagirà il mercato, e se i produttori intensificheranno l’offerta per venire incontro alle nuove esigenze energetiche globali.

Author: Wired

L’uranio costa caro e molti piani rischiano di saltare. Il voto favorevole del Parlamento europeo dello scorso anno sulle norme dell’Ue che definiscono “sostenibili” e “verdi” gli investimenti sul nucleare, inserendo la fusione all’interno di una lista di attività economiche eco-compatibili previste dal Green Deal europeo come strumento per guidare i governi nelle loro scelte di sviluppo, è soltanto l’ultimo incentivo che la filiera dell’atomo ha ricevuto nella storia recente. Vista come parte della soluzione per arrivare all’obiettivo net zero, dato che non produce emissioni di anidride carbonica, l’energia atomica giocherà un ruolo fondamentale nella transizione ecologica già in corso, e affinché questo accada ci sarà sempre più bisogno di uranio, minerale usato come combustibile nei reattori nucleari (e anche nelle armi). Il mercato dell’uranio è caratterizzato quindi da una domanda crescente ma da un’offerta limitata, aggravata dai timori per l’approvvigionamento da parte dei principali produttori: la Russia, con l’instabilità dovuta alla guerra in Ucraina, e il Niger, dopo il recente colpo di stato. Per questo motivo i prezzi del minerale sono aumentati fino a livelli sfiorati soltanto altre tre volte in passato: al momento la compravendita dell’uranio è in una fase rialzista dopo anni di rallentamento della domanda, che aveva tenuto per un decennio il prezzo tra i 20 e i 25 dollari per libbra. Oggi la quotazione è superiore ai 50 dollari.

L’incognita del Niger sul mercato dell’uranio

L’industria dell’uranio è di difficile accesso per gli investitori: i bassi prezzi storici hanno ridotto nel tempo l’esplorazione di nuovi siti di estrazione e l’offerta, così la produzione mineraria – concentrata in Kazakistan, Canada e Namibia, con l’Australia che detiene le maggiori risorse – è scesa al 25% al di sotto della domanda. Molti dei maggiori produttori, come la kazaka Kazatomprom (23% di forniture), la francese Orano (11%) e la russa Uranium One (9%), sono inoltre di proprietà statale. L’eccezione principale è rappresentata dalla canadese Cameco. Di conseguenza, la geopolitica rappresenta inevitabilmente un’incognita sull’andamento del prezzo e sulle forniture di uranio, come accade spesso per le materie prime, le cui preoccupazioni su cali dell’offerta vengono subito scontate in un repentino aumento dei prezzi. È così che una crisi come quella del Niger, che lo scorso 26 luglio è stato teatro di un colpo di stato guidato dal generale Abdourahamane Tchiani, impensierisce direttamente i governi europei. I dati Euratom evidenziano infatti che nel 2022 il Paese africano è stato il secondo fornitore di uranio dell’Ue, provvedendo da solo a circa un quarto delle forniture del blocco comunitario. Secondo la World Nuclear Association, il Niger è il settimo paese al mondo per disponibilità di uranio, con 311.100 tonnellate. Ciò equivale tuttavia solamente al 5% delle forniture globali. I primi sei paesi sono Australia (28%), Kazakistan (13%), Canada (10%), Russia (8%), Namibia (8%) e Sud Africa, con i primi tre che insieme rappresentano il 51% della disponibilità totale di minerale nel mondo.

Un trend inesorabile

Oltre il 91% dell’uranio naturale che arriva nel Vecchio Continente proviene da Kazakhstan, Niger, Canada e Russia: l’Europa ha però smentito qualsiasi percezione di rischio immediato per la produzione del minerale, facendo sapere di avere scorte sufficienti per mantenere in funzione i suoi reattori per tre anni e potendo comunque diversificare la fornitura da Stati come Canada, Australia e Namibia. Tuttavia, l’uranio rappresenta un fonte importante nella produzione energetica europea, Italia esclusa, con i primi sei paesi al mondo per quote di nucleare nella produzione di energia nel 2022 che fanno appunto parte del Continente: il trend delle principali economie, che continuano ad annunciare progetti per aumentare la propria capacità di produzione di energia nucleare per rafforzare la sicurezza energetica e ridurre le emissioni si carbonio, suggerisce che – almeno nei prossimi dieci anni – ci sarà un inesorabile aumento della domanda di uranio: resta da capire come reagirà il mercato, e se i produttori intensificheranno l’offerta per venire incontro alle nuove esigenze energetiche globali.

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