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Apple vuole brevettare un visore che invia immagini nelle pupille di chi lo indossa

Author: Diego Barbera Wired

Un interessante progetto depositato da Cupertino sfrutta due minuscoli proiettori che inviano sulla retina i contenuti visualizzati, garantendo una qualità di fruizione senza precedenti

visore apple
(foto: Patently Apple)

Che Apple stia lavorando a un visore è cosa nota da tempo, ma non è però detto che arriverà, anche perché è un segmento che non suscita (ancora) un interesse delle masse. Tuttavia è innegabile che la società di stanza a Cupertino stia valutando diverse possibili soluzioni per un eventuale prodotto in grado di differenziarsi dalla concorrenza. Una delle più interessanti è raccontata in un brevetto depositato di recente.

Dalle pagine dell’ufficio brevetti americano, infatti, è stato svelato un documento firmato Apple e relativo a un dispositivo chiamato “Dynamic Focus 3D Display”, che si può tradurre come display tridimensionale con messa a fuoco dinamica. Il fulcro di questa tecnologia sta in due piccoli proiettori che possono inviare le immagini direttamente sulla retina dell’utente, entrando dalle pupille.

Secondo quanto si può leggere sulle pagine, questa soluzione è in grado di reggere sia la realtà virtuale che la realtà aumentata dunque immergendo completamente l’utente all’interno di un mondo ricreato, oppure miscelando ciò che si trova davanti con uno strato arricchito di informazioni connesse al web.

brevetto visore apple
(foto: Patently Apple)

I sistemi convenzionali mostrano immagini da destra e a sinistra su display, che sono visualizzate da chi indossa il visore. La differenza qui proposta è che il sistema di proiezione scansiona l’immagine pixel per pixel inviandola direttamente nelle retine dell’utente. Migliorerà l’effetto di riproduzione della profondità per un realismo ancora maggiore con la percezione di trovarsi proprio all’interno della scena.

Questo brevetto sarà mai applicato? L’idea è molto interessante e potrebbe permettere a Apple di andare oltre quanto già ottenuto dai vari operatori scesi in campo, da Google con i Glass fino a Facebook con i suoi Oculus e i prossimi modelli in arrivo in collaborazione con Luxottica.

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È arrivato il gioco interattivo ispirato a Enola Holmes

Author: Paolo Armelli Wired

Dopo il successo del film sulla giovane sorella di Sherlock Holmes interpretata da Millie Bobby Brown, in Gran Bretagna è stato presentato un gioco fatto di indizi e attività da portare a termine, che si può scaricare e giocare a casa

enola holmes
(foto: Netflix)

Dal suo debutto lo scorso 23 settembre su Netflix, Enola Holmes ha risvegliato la passione degli spettatori per gli enigmi. Il film che vede Millie Bobby Brown – la Eleven di Stranger Things – nei panni della sorella di Sherlock Holmes è un classico mystery thriller riletto in chiave neo femminista. E se siete riusciti a scovare il responsabile del rapimento del giovane marchese al centro della trama, allora siete pronti a risolvere il prossimo giallo: in collaborazione con la catena di escape room britanniche Escape Hunt, è stato lanciato in queste ore uno speciale gioco interattivo che vi immergerà nelle atmosfere della Londra vittoriana.

Piuttosto breve e gratuito, il gioco si può scaricare e giocare in circa un’ora: l’obiettivo è ritrovare la protagonista Enola perduta per le vie della capitale inglese. Per fare ciò si avranno a disposizione un pdf interattivo con dovizia di mappe, una copia del London Gazette e una serie di indizi e attività da portare a termine. Si tratta di un passatempo ludico che è perfetto da svolgere fra le mura di casa, in caso la pandemia o il maltempo vi scoraggiassero a uscire di casa questo weekend (ma un piccolo suggerimento da parte nostra: se riuscite a stampare i materiali a disposizione, risolvere i vari enigmi diventerà più semplice).

Enola Holmes è tratto dai libri per ragazzi scritti da Nancy Springer e pubblicati in Italia da DeAgostini. Il caso del marchese scomparso è il primo di una saga che conta a oggi sei volumi pubblicati dal 2006 al 2010: il successo riscontrato, almeno dalle prime reazioni di questi giorni, dall’adattamento Netflix potrebbe spingere dunque a mettere in produzione nuovi capitoli (e nuovi giochi?). Nel frattempo sia la protagonista Millie Bobby Brown che il regista Harry Bradbeer si sono detti subito pronti a tornare per nuove avventure.

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Due persone sono state accoltellate nei pressi della sede di Charlie Hebdo a Parigi

Author: Albachiara Re Wired

Le vittime si trovano in ospedale in gravi condizioni, colpite da un coltello o da un’altra arma bianca. La zona e stata chiusa e la polizia ha già individuato due sospetti, che ora sono in custodia

(foto: Alain Jocard/Afp/Getty Images)

A Parigi, intorno alle 12.30 del 25 settembre, quattro persone sono state ferite con un’arma da taglio. L’attentato, di cui non si conoscono ancora le ragioni, è avvenuto nei pressi della sede della redazione di Charlie Hebdo, il giornale satirico che nel 2015 è stato vittima di un attacco terroristico in cui sono morte 12 persone. Stando a quanto dichiarato dal primo ministro francese Jean Castex, i feriti sono stati trasportati in ospedale, ma due dei quattro sarebbero in gravi condizioni. Da una prima ricostruzione fornita da alcuni giornali francesi, due vittime sono dipendenti della società di produzione televisiva Premières Lignes e una di loro, una donna, è stata colpita mentre si trovava in rue Nicolas-Appert, una via adiacente alla sede del giornale e dove si trova un murale che commemora le vittime dell’attentato terroristico. La polizia ha individuato due sospetti, ora in stato di fermo. Lo hanno reso noto fonti della magistratura, precisando di aver aperto un’inchiesta per tentato omicidio a scopo terroristico.

Il governo francese ha già blindato la zona, attivando un’unità di crisi e chiudendo le scuole. La polizia ha inoltre chiesto ai cittadini di tenersi lontani dal quartiere perché potrebbe essere ancora un teatro pericoloso. Le Monde riporta che l’ufficio del procuratore nazionale antiterrorismo ha aperto un’indagine per “tentato omicidio in relazione a un’impresa terroristica” e “associazione terroristica criminale”. Alcuni media hanno parlato del ritrovamento di un pacco sospetto, ma fonti della polizia, citate da France Info, hanno smentito tale rinvenimento.

L’ipotesi che il luogo dell’attacco non sia solo una coincidenza – soprattutto a poche settimane dall’inizio del processo ai complici dei terroristi che hanno organizzato l’attentato a Charlie Hebdo e al supermercato kosher nel novembre di cinque anni fa – è supportata da Paul Moreira, uno dei dirigenti della società di produzione Première Ligne, che a France Info ha spiegato che chi ha ferito le quattro persone “non è venuto lì per caso”.

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Google cancella le immagini dell’Ayers Rock dalle sue mappe

Author: Gabriele Porro Wired

Dopo la richiesta del popolo aborigeno, Big G promette di rimuovere da Street View foto e immagini che violano Uluru, luogo sacro al centro dell’Australia

Ayers Rock, Australia
(Foto: Chris Jackson/Getty Images)

Google ha deciso di eliminare da Street View tutte le immagini di Uluru, un luogo sacro per gli aborigeni australiani. Su richiesta di Parks Australia, l’ente governativo che cura i tesori naturali dell’isola, il motore di ricerca ha accolto la richiesta di oscurare l’immenso monolite, conosciuto più comunemente con il nome di Ayers Rock, che sorge al centro dell’Australia.

Da tempo gli aborigeni si battono per il rispetto del loro luogo sacro. Nell’ottobre del 2019 sono riusciti a ottenere il divieto di scalare la roccia, prima consentito ai turisti. E ora hanno sottoposto a Google Maps la richiesta di cancellare le immagini caricate dagli utenti, che avrebbero potuto violare la sacralità del sito, collocato al centro del parco nazionale di Uluru-Kata Tjuta.

Per esempio, tramite Google Street View era ancora possibile scalare il monolite. “Sappiamo che il Parco Nazionale Uluru-Kata Tjuta è profondamente sacro per il popolo Anangu”, ha spiegato un portavoce del colosso di Mountain View: “Non appena Parks Australia ha espresso le proprie preoccupazioni in merito a questo contributo degli utenti, abbiamo rimosso le immagini”.

Percorso virtuale in Street View che permette di salire sull’Ayers Rock (screenshot da Google Maps)

Tuttavia, come Wired ha potuto notare al momento della stesura dell’articolo, sono ancora moltissime foto caricate dagli utenti presenti nella sezione dedicata di Goegle Maps e che il percorso che porta dalla base alla cima dell’Ayers Rock è ancora percorribile virtualmente con Street View. Con molta probabilità Big G provvederà nei prossimi giorni a rimuovere del tutto i contenuti, per fare fede alla promessa fatta al popolo aborigeno.

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Covid-19, quanto dovrebbe durare la quarantena?

Author: Sandro Iannaccone Wired

Per potersi dichiarare guariti da Covid-19 in Italia c’è bisogno di 14 giorni di quarantena e due tamponi negativi. L’Oms invece raccomanda di abbandonare il doppio tampone, e la Francia riduce la quarantena a 7 giorni. Quali basi scientifiche ci sono dietro queste scelte?

Quarantena
(Immagine: Getty Images)

Dopo un’estate relativamente tranquilla, almeno in Europa, i contagi da coronavirus sono tornati a salire un po’ dappertutto. In Francia e Spagna, per esempio, si sono registrati oltre 10mila casi nelle ultime 24 ore. Stesso discorso per il Regno Unito, dove i contagi giornalieri sono saliti a quota 5mila. In Italia la situazione sembra, per ora, essere leggermente più tranquilla, ma comunque molto delicata. Uno degli aspetti dirimenti per il controllo della diffusione dei contagi è certamente quello dell’isolamento delle persone infette, e del loro ritorno alla vita normale nel momento in cui guariscono. Una questione che ha profonde implicazioni sanitarie, economiche e sociali. Quello su cui si dibatte, in particolare, è la definizione di persona guarita: quali sono le condizioni che un dato paziente deve soddisfare per poter essere dichiarato ufficialmente sano e non contagioso? E dopo quanto tempo dalla fine dei sintomi può tornare alla vita normale?

Rispondere a questa domanda è tutt’altro che semplice. E anche in questo caso, come per molte altre questioni legate alla pandemia, la comunità scientifica è divisa. A partire dai massimi vertici della sanità. A gennaio, infatti, l’Organizzazione mondiale della sanità aveva diramato delle linee guida provvisorie, basate principalmente sulle conoscenze di coronavirus simili a Sars-Cov-2 (i responsabili di Sars e Mers), in cui si raccomandava un doppio tampone negativo (con i due tamponi eseguiti ad almeno 24 ore di distanza l’uno dall’altro) per certificare la guarigione da Covid-19 e liberare i pazienti dall’isolamento. Alla fine di giugno, poi, c’è stato un parziale ripensamento di queste raccomandazioni: l’Oms ha emendato il documento eliminando il tampone di conferma e suggerendo di aspettare tre giorni senza sintomi a partire da dieci giorni dall’insorgenza dei sintomi (per i pazienti sintomatici) o dieci giorni dopo un tampone negativo (per i pazienti asintomatici). Sembra complicato, ma non lo è: per fare un esempio, pratico, l’Oms raccomanda che se un paziente ha avuto sintomi per due giorni, il suo isolamento può cessare dopo 13 giorni (10+3)  dalla data di insorgenza dei sintomi; per un paziente con sintomi da 14 giorni, la cessazione dell’isolamento può avvenire 17 giorni (14+3) dopo la data di insorgenza dei sintomi, e così via. Tuttavia, specifica ancora l’Oms, “le singole nazioni possono ancora scegliere di continuare a usare il tampone come criterio di rilascio dall’isolamento. In questo caso, resta valida la raccomandazione iniziale di due tamponi raccolti a distanza di almeno 24 ore”.

Le ragioni di questo allentamento stanno anzitutto nella necessità di razionalizzare il ricorso ai tamponi, specialmente nelle aree dove la trasmissione del virus è più intensa, e nel fatto che sottoporre una persona a un isolamento più lungo del necessario può inficiarne il benessere sociale ed economico. Ma c’è anche una ragione scientifica: spesso, dice l’Oms, la carica virale è così bassa da essere a cavallo della soglia di sensibilità dei test, il che può portare a risultati negativi seguiti da risultati positivi, probabilmente poco significativi sul piano clinico e poco indicativi dell’effettiva infettività del soggetto.

Di parere simile sono i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) statunitensi, che ad agosto scorso, citando i risultati di oltre 15 studi internazionali relativi alla lunghezza dell’infezione, alla persistenza della carica virale, all’infettività degli asintomatici e al rischio di diffusione dell’infezione in diversi gruppi di pazienti, hanno fatto notare come la quantità di materiale virale vivo nel naso e nella gola cali significativamente subito dopo lo sviluppo dei sintomi, e che la durata dell’infettività nella maggior parte dei pazienti non sia più lunga di dieci giorni dall’inizio dei sintomi. Unica eccezione i pazienti gravemente immunodepressi o con forme gravi della malattia, per i quali comunque tale finestra non sarebbe più lunga di 20 giorni dalla comparsa dei sintomi.

E in Italia? La situazione è, se possibile, ancora più complessa. Da noi le raccomandazioni sono ancora improntate al principio della massima prudenza, ossia prevedono l’esecuzione di un doppio tampone e l’attesa di 14 giorni dalla scomparsa dei sintomi (la Francia, tanto per fare un altro esempio, ha appena ridotto a 7 giorni questa finestra temporale).

Tuttavia molti esperti suggeriscono di abbracciare le raccomandazioni di Oms e Cdc: tra questi c’è Antonella Viola, immunologa, direttrice scientifica dell’Istituto di ricerca pediatrica Città della speranza e ordinaria di patologia generale all’Università di Padova. “In generale è buona norma aderire al principio di massima prudenza”, ci ha spiegato, “ma bisogna anche tener conto delle implicazioni sanitarie, sociali e sul benessere personale di restrizioni troppo forti, dal momento che si osserva che le persone tendono a non rispettare le regole se queste sono percepite come troppo stringenti o immotivate. Le evidenze ci dicono che la contagiosità cala drasticamente 7-10 giorni dopo la comparsa dei sintomi, e che difficilmente dopo 10 giorni si può trovare ancora traccia del virus”. Ragion per cui Viola suggerisce di aderire alle raccomandazioni di Oms e degli statunitensi Cdc, restringendo il periodo di quarantena ed eliminando la necessità del doppio tampone. “Sarebbe anche opportuno”, continua, “che assieme al risultato del tampone si fornisse anche il numero di amplificazione al quale si registra la positività [ovvero il numero di volte in cui è necessario ingrandire il risultato del test per trovare traccia del virus, nda]: un tampone positivo dopo la 40esima amplificazione ha tutt’altro significato di un tampone positivo dopo la 20esima”.

Non tutti, però, sono concordi. C’è chi invece, alla luce del fatto che ancora non si ha alcuna certezza matematica sulla contagiosità del virus e che ci troviamo per l’appunto in un momento cruciale per il decorso dell’epidemia, rimarca la necessità di tenere comportamenti incentrati sulla prudenza, evitando qualsiasi situazione che possa favorire, anche con basse probabilità, un’ulteriore diffusione del virus. È il caso per esempio di Massimo Galli, docente di malattie infettive a Tor Vergata e direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali.

Galli concorda con il fatto che le evidenze scientifiche suggeriscano che dopo 7-10 dalla scomparsa dei sintomi di solito non ci sia più infettività, e che in generale un tampone negativo sia sufficiente a indicare la scomparsa della malattia, ma sottolinea che “in alcuni casi, anche se rari, può avvenire anche il contrario: è stato osservato, per esempio, che soggetti con tampone negativo manifestano in seguito una positività; nella pratica clinica, inoltre, non è così infrequente osservare persone asintomatiche, o clinicamente guarite, manifestare ancora tracce del virus. Per questo bisogna sottolineare che al momento il tampone non può indicare con certezza se il virus è vitale o in grado di infettare. E non avendo criteri certi, credo che in questa fase dell’epidemia sia ancora indispensabile aderire a un principio di massima prudenza. Ossia confermare la necessità di un doppio tampone negativo e di 14 giorni di isolamento prima di farlo cessare”.

La questione si gioca sui numeri: le evidenze dicono che si può essere ragionevolmente sicuri che dopo 10 giorni e un tampone negativo il 90% circa dei soggetti sia non infettivo. “In un momento di scarsa circolazione del virus, con pochi contagiati, perdersi un 10% di persone potrebbe essere del tutto ininfluente; ma viceversa, se la stessa percentuale di persone sfugge all’isolamento in un momento di forte risalita dei contagi la situazione potrebbe sfuggire velocemente di mano”, conclude Galli. “Le percentuali sono sempre le stesse. È il numero che è al denominatore a cambiare”. E la salute pubblica si gioca anche su quel numero.

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