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Forse abbiamo sovrastimato la sindrome da long Covid

Author: Wired

Di long Covid parliamo da tempo, da quando, poco dopo la segnalazione delle prime infezioni del nuovo coronavirus cominciarono a susseguirsi report e studi che parlavano di sintomi che persistevano per settimane e mesi dopo l’infezione acuta. Da allora la mole di studi che si è accumulata sul tema è enorme e sono nati centri e progetti espressamente dedicati allo studio e al trattamento del long Covid. Abbiamo detto che i sintomi correlati possono essere fino a 200, che possono variare a seconda delle varianti che hanno causato l’infezione e che alcuni fattori più di altri possono aumentarne il rischio. Ma forse non abbiamo ancora capito bene che cosa è il long Covid e quanto sia davvero diffuso, forse potremmo addirittura aver sopravvalutato il rischio, generando ansia e sperperando risorse sanitarie. A sostenerlo dalle pagine del BMJ Evidence-Based Medicine è l’analisi di alcuni ricercatori che accende i riflettori sulla ricerca condotta sul long Covid.

Long covid, rischio sopravvalutato?

La tesi di ​Vinay Prasad della University of California di San Francisco e colleghi è che gran parte della ricerca condotta finora sul long Covid, così come le definizioni usate per descrivere gli effetti post infezione acuta, sia stata carente da un punto di vista metodologico o troppo vaghe. Il risultato sono state diagnosi a volte errate probabilmente di long Covid, con una miriade di sintomi magari scambiati per long Covid quando non è detto che lo fossero.

La questione, beninteso, non è negare l’esistenza di strascichi imputabili all’infezione da coronavirus. Piuttosto quella dei ricercatori è un invito a riconsiderare la ricerca condotta nel campo, per fare in modo che i trattamenti siano il più accurati possibili, e che le risorse meglio allocate.

I problemi con la ricerca sul long Covid

Secondo i ricercatori le falle riguardo la ricerca sul long Covid cominciano a partire dalle definizioni che si danno alla sindrome. Citando alcune di quelle di fonti istituzionali- dai Cdc, all’Oms – gli scienziati sottolineano come nessuna di questa implichi un collegamento eziologico con Sars-CoV-2 ma fa piuttosto riferimento alla comparsa di sintomi dopo un’infezione confermata e sospetta. E questo è un altro punto dolente della ricerca nel campo: una buona parte degli studi su long Covid non si è basata su diagnosi confermate in laboratorio di infezioni, neanche con test sierologici. Non solo: a quanto pare solo una piccola percentuale di studi (secondo alcune stime appena del’11%) avrebbe usato gruppi controllo negli studi sul long Covid.

Questo rende piuttosto complicato, se non impossibile stabilire la reale prevalenza e il tipo di sintomi imputabili agli effetti a lungo termine dell’infezione da Covid. I gruppi di controllo, scrivono i ricercatori, sono quanto mai essenziali di fronte a una sindrome dalle definizioni così vaghe e che comprende numerosissimi sintomi, alcuni piuttosto comuni, altri comuni anche ad altri virus respiratori. Ricordiamo infatti che di long Covid si parla quando sono presenti diversi sintomi, più o meno specifici, quali mal di testa, cambiamenti di umore, dolori muscolari, nebbia mentale, difficoltà a concentrarsi, stanchezza, fatica, tosse, disturbi dell’olfatto e del gusto, perdita di appetito, ansia, nausea.

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Long Covid, potrebbe essere un mix di malattie diverse

Author: Wired

Partendo da questa base, i ricercatori stanno cercando di prendere due piccioni con una fava: sperimentare trattamenti in grado di alleviare la malattia e, allo stesso tempo, valutare alcune ipotesi per fare luce sul long Covid. “Dobbiamo fare queste cose in parallelo vista l’urgenza. È come costruire la nave mentre navighiamo, ma dobbiamo farlo perché le persone hanno bisogno di aiuto”, spiega Geng.

Gli studi in corso

Questa accozzaglia di sintomi però rende molto più complicato progettare studi clinici. Non tutte le persone manifestano la totalità dei sintomi, che possono variare anche per gravità e durata. Inoltre, non c’è consenso sulla defizione di long Covid, afferma Steven Deeks, medico e specialista in malattie infettive presso l’Università della California di San Francisco: “Non c’è un biomarcatore magico, non c’è una radiografia, non c’è un test”. Per questo motivo, capire quali soggetti inserire in uno studio clinico è difficile. Al momento, le diagnosi funzionano per esclusione, ovvero stabilendo cioè che i sintomi non possano essere spiegati da nessun’altra causa.

Akiko Iwasaki, immunologa dell’Università di Yale, sta conducendo uno studio randomizzato e controllato su cento pazienti affetti da long Covid, per verificare se l’antivirale Paxlovid di Pfizer, progettato per il trattamento del Covid-19 sintomatica, possa effettivamente essere d’aiuto. La motivazione della sperimentazione si basa sull’ipotesi della riserva virale: Paxlovid potrebbe eliminare qualsiasi residuo di Sars-CoV-2 persistente nonostante la risposta immunitaria dell’organismo. Dal momento che lo studio è randomizzato, l’équipe spera che tra i partecipanti ci siano persone che hanno sviluppato forme di long Covid per via di meccanismi biologici diversi. I pazienti saranno divisi in gruppi: uno riceverà Paxlovid per 15 giorni mentre all’altro sarà somministrato un placebo.

I ricercatori verificheranno la presenza delle “firme” immunitarie riscontrate dalle persone affette da long Covid, come le proteine spike della Sars-CoV-2 . Iwasaki e il suo team hanno in programma di misurare i biomarcatori immunologici prima, durante e dopo il trattamento e di verificare quali di questi sono comuni nei soggetti che hanno registrato miglioramenti grazie alla terapia. “Non si tratta solo di stabilire la percentuale delle persone che ne trarranno beneficio ma anche di scoprire chi e perché ne beneficia”, sottolinea Iwasaki.