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La Grande Bellezza e i 10 anni di un Oscar che continua a dividere

Author: Wired

La Grande Bellezza fa discutere ancora oggi, persino più de La Vita è Bella di Roberto Benigni, che ha perso molti estimatori soprattutto per il risentimento di natura politica verso il comico toscano. Esattamente 10 anni fa Paolo Sorrentino era sul palco dell’Academy, assieme a Toni Servillo, con in mano l’Oscar come Miglior Film Straniero. Rigraziava Diego Armando Maradona, ed entrava nella storia del nostro cinema con un film potente, struggente, divisivo ma capace di diventare istantanea di un paese completamente allo sbando.

Un film capace di porsi a metà tra memoria e innovazione

La Grande Bellezza fu presentato in concorso al 66° Festival di Cannes, dove risultò il classico film capace di rimarcare la differenza tra la critica italiana e quella internazionale. Paolo Sorrentino godeva già di grande considerazione, con film come L’Uomo in Più, Le Conseguenze dell’Amore, Il Divo, This Must Be The Place, si era guadagnato l’attenzione nazionale e infine internazionale, in virtù di un’originalità di narrazione e sguardo assolutamente inedite. La Grande Bellezza a molti critici italiani però non piacque. Fu definito tanto lussureggiante e barocco, quanto freddo, furbo, manieristico, ma soprattutto presuntuoso, per la volontà di porsi come una sorta di seguito de La Dolce Vita di Fellini o di connettersi a La Terrazza di Ettore Scola. Soprattutto, ancora oggi molti lo collegano a La Vita è Bella di Benigni, lo vedono come un’opera cinematografica fatta a tavolino per piacere agli americani e all’Academy.

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Io Capitano di Matteo Garrone nella cinquina del miglior film internazionale, la conferma di Oppenheimer e le altre candidature

Roma, ma anche l’Italia e gli italiani qui mostrati – si sostenne da parte di alcuni allora e si sostiene tuttora- sono gli stessi di tante narrazioni ad uso e consumo del turismo cinematografico e degli stereotipi; anzi l’insieme era persino peggiore, visto che eravamo descritti come esseri mediocri, festaioli, decadenti e amorali, senza speranza o redenzione. Ma la realtà è che se ancora oggi La Grande Bellezza trova ostilità questo forse è da vedere come un grande pregio, come un attestato della verità in esso contenuta, della capacità da parte di Paolo Sorrentino di creare un’opera che non era semplicemente sintomatica di un cambiamento della nostra società, ma anche di una realtà che non volevamo ammettere. Jep Gambardella, la sua Odissea, erano giocoforza anche la cronaca schietta e spietata della caduta di quell’impero chiamato berlusconismo e di quanto male ci aveva causato, della deformazione che aveva creato nel nostro corpo, di cui Roma diventa la grande metafora.

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Il regista di Gomorra è per la prima volta in gara a Venezia con un film di cui si parlerà a lungo. Da oggi nei cinema italiani

Toni Servillo ci appare come un Marcello Mastroianni cinicamente disincantato, ma in realtà aggrappato ai ricordi e al tema della memoria. Armato dei bellissimi costumi di Daniela Ciancio, dandy partenopeo trapiantato a Roma, Jep Gambardella più che scrivere, passa la sua vita tra una festa e l’altra. Questo strano ma astuto giornalista, è un sopravvissuto a sé stesso, alle sue speranze e sogni di gioventù; il suo narcisismo, la sua vanità da don Giovanni stagionato, il suo aggirarsi nella mondanità con fare disinvolto e divertito, nascondono un dramma interiore profondo. In lui La Grande Bellezza vede un uomo che è conscio di aver sprecato un talento, quello di scrittore, venendo inghiottito in una Roma volgare, ipocrita, ridicola eppur feroce, da cui però infine decide di staccarsi. Sorrentino ci fa seguire i suoi passi, in quello che è anche un viaggio nel dolore e nella malinconia più potenti, dove l’addio al grande amore della sua gioventù si prefigge come la ricerca della bellezza.

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Io capitano di Matteo Garrone è stato selezionato per rappresentare l’Italia per la corsa al miglior film straniero. E noi ripercorriamo i momenti nei quali il nostro cinema si è aggiudicato la statuetta

Una bellezza che non è intesa in senso meramente letterale, ma come ricerca di un senso, anche di una volontà artistica, con cui ridare un’anima al proprio vivere, una costruzione per quei sentimenti che per molto tempo Jep ha soffocato. Tutto questo Sorrentino lo crea con un film che, dal punto di vista tecnico, per la capacità ipnotica della sua regia, per il montaggio, fotografia e scenografie, rappresenta l’apice del cinema italiano degli ultimi 25 anni. La Grande Bellezza se la giocava qui con le più raffinate produzioni internazionali, altro fattore alla base di un plauso internazionale che fu quasi unanime. Il che rende ancora più interessante capire il perché di tanta ostilità tricolore, presente non solo nella critica (la nostra da sempre una delle più imprevedibili) ma anche in una certa parte di pubblico. Questo spesso non per gusto personale, ma per avere capito perfettamente il retroscena semantico del film e ciò di cui parlava, il dito che ci puntava contro.

Un racconto che sancisce la caduta del sogno berlusconiano

La Grande Bellezza è il film testamento sul berlusconismo, la cui ombra è in quelle serate, quella Roma decadente, quest’Italia di mille personaggi ridicoli, patetici, nei vari papponi, falsi mariti, viveur, biscazzieri, arrampicatrici e borghesi senz’anima. Il Cavaliere aveva regalato in trent’anni il sogno di un’Italia come una festa senza fine, ma il suo era stato un trenino che non andava in realtà da nessuna parte. La Grande Bellezza è il risveglio tragico e vero dal sonno della narrativa arcoriana, che proprio in quegli anni subisce un tracollo politico vertiginoso, da cui scaturisce la fine del ciclo del pifferaio magico e quindi tutto ciò che ne accompagnava il mito sul grande e piccolo schermo. De Sica, Boldi, Jerry Calà, i quiz, le veline e tutto il resto, ci avevano sempre assolti da ogni vizio e peccato. Per trent’anni ci eravamo sentiti dire che in fondo eravamo amabili mattacchioni, un po’ furbi un po’ fessi, ma non cattivi, volevamo solo una bonazza nel letto, una festa a Cortina e sfangarla.

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Celebrità e netizen sono insorti alla notizia che la regista e la protagonista del “film d’anno” (scorso) non sono state candidate agli Academy Award. E in effetti quando è troppo, è troppo

La vita come trucco e come inganno, il cinepanettone come lavaggio cinematografico della coscienza e esaltazione dei nostri difetti come pregi, il che poi era il grande racconto berlusconiano, la grande promessa di un avvenire scevro da ogni conseguenza. Ma quella narrazione Sorrentino la prende, la spezza, ci mostra come siamo diventati in realtà: cattivi, materialisti, avidi, crudeli. Hepburn e Peck in sella alla vespa ci vedevano come umanissimi, un po’ casinisti, ma caldi. Non lo siamo più, siamo sogno di mera materialità e successo immeritato, siamo volgarità, in questa Roma che dal 2014 di Jep, è diventata sempre più orrenda. Sorrentino non risparmia nessuno, né il protagonista, né gli artisti, neppure la Chiesa o l’antichità della Caput Mundi. Eppure, nel farlo, nel dipingere un affresco dove morte e vita sono legati indissolubilmente, Sorrentino ci offriva anche una speranza legata ai sentimenti, all’arte, alla cultura, alla volontà di riabbracciare il proprio io interiore, di superare l’egoismo tout court.

Author: Wired

La Grande Bellezza fa discutere ancora oggi, persino più de La Vita è Bella di Roberto Benigni, che ha perso molti estimatori soprattutto per il risentimento di natura politica verso il comico toscano. Esattamente 10 anni fa Paolo Sorrentino era sul palco dell’Academy, assieme a Toni Servillo, con in mano l’Oscar come Miglior Film Straniero. Rigraziava Diego Armando Maradona, ed entrava nella storia del nostro cinema con un film potente, struggente, divisivo ma capace di diventare istantanea di un paese completamente allo sbando.

Un film capace di porsi a metà tra memoria e innovazione

La Grande Bellezza fu presentato in concorso al 66° Festival di Cannes, dove risultò il classico film capace di rimarcare la differenza tra la critica italiana e quella internazionale. Paolo Sorrentino godeva già di grande considerazione, con film come L’Uomo in Più, Le Conseguenze dell’Amore, Il Divo, This Must Be The Place, si era guadagnato l’attenzione nazionale e infine internazionale, in virtù di un’originalità di narrazione e sguardo assolutamente inedite. La Grande Bellezza a molti critici italiani però non piacque. Fu definito tanto lussureggiante e barocco, quanto freddo, furbo, manieristico, ma soprattutto presuntuoso, per la volontà di porsi come una sorta di seguito de La Dolce Vita di Fellini o di connettersi a La Terrazza di Ettore Scola. Soprattutto, ancora oggi molti lo collegano a La Vita è Bella di Benigni, lo vedono come un’opera cinematografica fatta a tavolino per piacere agli americani e all’Academy.

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Roma, ma anche l’Italia e gli italiani qui mostrati – si sostenne da parte di alcuni allora e si sostiene tuttora- sono gli stessi di tante narrazioni ad uso e consumo del turismo cinematografico e degli stereotipi; anzi l’insieme era persino peggiore, visto che eravamo descritti come esseri mediocri, festaioli, decadenti e amorali, senza speranza o redenzione. Ma la realtà è che se ancora oggi La Grande Bellezza trova ostilità questo forse è da vedere come un grande pregio, come un attestato della verità in esso contenuta, della capacità da parte di Paolo Sorrentino di creare un’opera che non era semplicemente sintomatica di un cambiamento della nostra società, ma anche di una realtà che non volevamo ammettere. Jep Gambardella, la sua Odissea, erano giocoforza anche la cronaca schietta e spietata della caduta di quell’impero chiamato berlusconismo e di quanto male ci aveva causato, della deformazione che aveva creato nel nostro corpo, di cui Roma diventa la grande metafora.

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Il regista di Gomorra è per la prima volta in gara a Venezia con un film di cui si parlerà a lungo. Da oggi nei cinema italiani

Toni Servillo ci appare come un Marcello Mastroianni cinicamente disincantato, ma in realtà aggrappato ai ricordi e al tema della memoria. Armato dei bellissimi costumi di Daniela Ciancio, dandy partenopeo trapiantato a Roma, Jep Gambardella più che scrivere, passa la sua vita tra una festa e l’altra. Questo strano ma astuto giornalista, è un sopravvissuto a sé stesso, alle sue speranze e sogni di gioventù; il suo narcisismo, la sua vanità da don Giovanni stagionato, il suo aggirarsi nella mondanità con fare disinvolto e divertito, nascondono un dramma interiore profondo. In lui La Grande Bellezza vede un uomo che è conscio di aver sprecato un talento, quello di scrittore, venendo inghiottito in una Roma volgare, ipocrita, ridicola eppur feroce, da cui però infine decide di staccarsi. Sorrentino ci fa seguire i suoi passi, in quello che è anche un viaggio nel dolore e nella malinconia più potenti, dove l’addio al grande amore della sua gioventù si prefigge come la ricerca della bellezza.

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Io capitano di Matteo Garrone è stato selezionato per rappresentare l’Italia per la corsa al miglior film straniero. E noi ripercorriamo i momenti nei quali il nostro cinema si è aggiudicato la statuetta

Una bellezza che non è intesa in senso meramente letterale, ma come ricerca di un senso, anche di una volontà artistica, con cui ridare un’anima al proprio vivere, una costruzione per quei sentimenti che per molto tempo Jep ha soffocato. Tutto questo Sorrentino lo crea con un film che, dal punto di vista tecnico, per la capacità ipnotica della sua regia, per il montaggio, fotografia e scenografie, rappresenta l’apice del cinema italiano degli ultimi 25 anni. La Grande Bellezza se la giocava qui con le più raffinate produzioni internazionali, altro fattore alla base di un plauso internazionale che fu quasi unanime. Il che rende ancora più interessante capire il perché di tanta ostilità tricolore, presente non solo nella critica (la nostra da sempre una delle più imprevedibili) ma anche in una certa parte di pubblico. Questo spesso non per gusto personale, ma per avere capito perfettamente il retroscena semantico del film e ciò di cui parlava, il dito che ci puntava contro.

Un racconto che sancisce la caduta del sogno berlusconiano

La Grande Bellezza è il film testamento sul berlusconismo, la cui ombra è in quelle serate, quella Roma decadente, quest’Italia di mille personaggi ridicoli, patetici, nei vari papponi, falsi mariti, viveur, biscazzieri, arrampicatrici e borghesi senz’anima. Il Cavaliere aveva regalato in trent’anni il sogno di un’Italia come una festa senza fine, ma il suo era stato un trenino che non andava in realtà da nessuna parte. La Grande Bellezza è il risveglio tragico e vero dal sonno della narrativa arcoriana, che proprio in quegli anni subisce un tracollo politico vertiginoso, da cui scaturisce la fine del ciclo del pifferaio magico e quindi tutto ciò che ne accompagnava il mito sul grande e piccolo schermo. De Sica, Boldi, Jerry Calà, i quiz, le veline e tutto il resto, ci avevano sempre assolti da ogni vizio e peccato. Per trent’anni ci eravamo sentiti dire che in fondo eravamo amabili mattacchioni, un po’ furbi un po’ fessi, ma non cattivi, volevamo solo una bonazza nel letto, una festa a Cortina e sfangarla.

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La vita come trucco e come inganno, il cinepanettone come lavaggio cinematografico della coscienza e esaltazione dei nostri difetti come pregi, il che poi era il grande racconto berlusconiano, la grande promessa di un avvenire scevro da ogni conseguenza. Ma quella narrazione Sorrentino la prende, la spezza, ci mostra come siamo diventati in realtà: cattivi, materialisti, avidi, crudeli. Hepburn e Peck in sella alla vespa ci vedevano come umanissimi, un po’ casinisti, ma caldi. Non lo siamo più, siamo sogno di mera materialità e successo immeritato, siamo volgarità, in questa Roma che dal 2014 di Jep, è diventata sempre più orrenda. Sorrentino non risparmia nessuno, né il protagonista, né gli artisti, neppure la Chiesa o l’antichità della Caput Mundi. Eppure, nel farlo, nel dipingere un affresco dove morte e vita sono legati indissolubilmente, Sorrentino ci offriva anche una speranza legata ai sentimenti, all’arte, alla cultura, alla volontà di riabbracciare il proprio io interiore, di superare l’egoismo tout court.

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