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Chi ha vinto l’Oscar come miglior film negli ultimi 20 anni?

Author: Wired

Chi ha vinto l’Oscar come miglior film dieci anni fa? E vent’anni fa? Ecco un piccolo aiuto: nel primo caso si trattava di una dolorosa epica contro la schiavitù e nel secondo era un film che conteneva un vero e proprio “tesssoro”. Certamente quella di Best Picture è la categoria più importante e ambita di tutte le statuette consegnate ogni anno agli Academy Awards. Quest’anno, per esempio, se la contendono film che hanno fatto parlare molto di sé, come Oppenheimer e Barbie, o come Killers of the Flower Moon, ma anche sorprese dell’ultima ora come Poor Things e American Fiction, oltre a gemme internazionali come La zona d’interesse, Anatomia di una caduta e Past Lives, senza dimenticare possibili outsider come Maestro e The Holdovers.

oscar 2024 curiositàTutte le curiosità sugli Oscar 2024 in vista della cerimonia

Record di nomination, prime volte, traguardi importanti e qualche nomination solitaria e finale

Chiunque si aggiudichi l’attesissimo premio, magari tra un po’ di anni sarà già dimenticato, travolti come siamo dalla miriade di film che escono ogni mese. In effetti se vi chiedessero quale titolo ha vinto questo riconoscimento principale nel 2022 già forse vacillereste (era, a scusante di tutti, il primo anno post-pandemico). Inoltre molto spesso degli Oscar si ricordano episodi eclatanti come la caduta di Jennifer Lawrence o lo schiaffo di Will Smith piuttosto che i singoli vincitori, seppur importanti. Nessuno, al contrario, può dimenticare cosa accadde nella cerimonia del 2017, con lo scandalo della busta sbagliata: come vincitore del miglior film fu infatti annunciato La La Land, ma a vincere effettivamente era stato Moonlight (eh sì, vi ricordavate di Moonlight?).

article imagePer la miglior colonna sonora originale agli Oscar 2024 sembra tutto già scritto

Le candidature di quest’anno non rappresentano la grandissima varietà delle produzioni musicali legate al cinema. E la competizione diventa un po’ prevedibile

Tecnicamente l’Oscar come miglior film (Best Picture o, in passato, Outstanding Motion Picture) è il premio che viene assegnato ai produttori (tre al massimo) della pellicola che, nei dodici mesi precedenti alla cerimonia, è considerata la più meritevole tra tutte quelle uscite. Solitamente il film che vince anche nella categoria miglior regia, ottiene anche quest’altro riconoscimento (è successo 68 volte su 95, l’ultima eccezione nel 2022). Di solito, poi, i film nominati in questa categoria sono quasi sempre in lingua inglese e nel corso della storia solo 17 titoli in lingua straniera hanno ricevuto una candidatura come Best Picture (tra cui Il Postino nel 1995): nel 2019 il coreano Parasite ha addirittura vinto, mentre quest’anno sono ben tre (Anatomia di una caduta, Past Lives e La zona d’interesse) a essere candidati. Un’altra statistica rilevante riguarda le registe: nei 96 anni di vita degli Oscar, sui 601 film nominati solo 22 erano diretti da una donna e l’ultimo a vincere è stato Nomadland (diretto da Chloé Zhao) nel 2021.

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10 attori e attrici che non hanno mai vinto l’Oscar

Author: Wired

Con la nomination agli Oscar 2024 de La Meravigliosa Storia di Henry Sugar fra i cinque migliori cortometraggi dell’anno, Wes Anderson è ufficialmente entrato a far parte del cosiddetto Five-Timers-Club, quel ristrettissimo gruppo (sono solo quattro persone) di cineasti e interpreti che hanno ricevuto una o più candidature in almeno cinque categorie diverse, fra le attuali 23, premiate con l’Oscar: era già finito tre volte nella cinquina delle migliori sceneggiature originali, una nella regia, due nel film animato e una nel miglior film. Se questa ottava nomination dovesse bastargli per fargli prendere finalmente in mano la statuetta, c’è anche un altro collega– che di candidature ne ha accumulate ben 12 – che non ha ancora sentito chiamare il suo nome dal palco del Dolby Theatre.

article imagePer la miglior colonna sonora originale agli Oscar 2024 sembra tutto già scritto

Le candidature di quest’anno non rappresentano la grandissima varietà delle produzioni musicali legate al cinema. E la competizione diventa un po’ prevedibile

Dal 2013 a oggi, infatti, Bradley Cooper è stato candidato quattro volte come attore protagonista, una come attore di supporto, cinque volte come produttore del miglior film e – grazie alle due pellicole che ha diretto – anche come sceneggiatore. Maestro, passato in concorso dall’80esima Mostra del Cinema di Venezia e nominato a 7 statuette, oltre a farlo balzare da 9 a 12 candidature personali avrebbe tutte le carte in regola per fare incetta di Oscar: un biopic, su una delle colonne (sonore?) portanti della cultura statunitense; una massiccia dose di trucco prostetico (del veterano Kazu Hiro); un’intensa performance dell’attrice protagonista Carey Mulligan e lunghe sequenze di baroccheggiante regia. Vedremo cosa succederà.

Certo non se la passa meglio Annette Bening, anche lei in gara quest’anno per il film Netflix NYAD – Oltre l’Oceano: quinta volta in gara come migliore attrice, la quarta come attrice protagonista – che dall’inizio degli anni Novanta a oggi è riuscita a vincere due Golden Globe, un BAFTA, due SAG, ma mai un Oscar. Certo è anche un altro il nome che (non) riecheggia nella stanza: quello di Diane Warren. L’autrice della canzone originale The Fire Inside, cantata da Becky G durante la cerimonia di premiazione e nel film Flamin’ Hot, è arrivata infatti a 15 candidature, tutte nella stessa categoria, le ultime dieci peraltro – fra il 2015 e il 2024 – quasi tutte consecutive.

Vero è che il suo collega 92enne John Williams ha raggiunto quota 54 (è la persona più candidata della Storia dopo Walt Disney): ma almeno lui ha vinto cinque volte.

Tornando però a parlare di attori, nel 2016 avevamo cominciato a disperarci per le nomination di Leonardo DiCaprio, tutte andate a vuoto, che l’avevano portato a correre furioso sul tappeto rosso di un gioco online, prima di rompere finalmente la maledizione con Revenant – Redivivo: ma non sapevamo che già all’epoca c’era chi stava messo peggio.

(E, per la cronaca: gli altri due membri del Five-Timers-Club, tutti uomini ovviamente, sono George Clooney e Kenneth Branagh).

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Record di nomination, prime volte, traguardi importanti e qualche nomination solitaria e finale

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La Grande Bellezza e i 10 anni di un Oscar che continua a dividere

Author: Wired

La Grande Bellezza fa discutere ancora oggi, persino più de La Vita è Bella di Roberto Benigni, che ha perso molti estimatori soprattutto per il risentimento di natura politica verso il comico toscano. Esattamente 10 anni fa Paolo Sorrentino era sul palco dell’Academy, assieme a Toni Servillo, con in mano l’Oscar come Miglior Film Straniero. Rigraziava Diego Armando Maradona, ed entrava nella storia del nostro cinema con un film potente, struggente, divisivo ma capace di diventare istantanea di un paese completamente allo sbando.

Un film capace di porsi a metà tra memoria e innovazione

La Grande Bellezza fu presentato in concorso al 66° Festival di Cannes, dove risultò il classico film capace di rimarcare la differenza tra la critica italiana e quella internazionale. Paolo Sorrentino godeva già di grande considerazione, con film come L’Uomo in Più, Le Conseguenze dell’Amore, Il Divo, This Must Be The Place, si era guadagnato l’attenzione nazionale e infine internazionale, in virtù di un’originalità di narrazione e sguardo assolutamente inedite. La Grande Bellezza a molti critici italiani però non piacque. Fu definito tanto lussureggiante e barocco, quanto freddo, furbo, manieristico, ma soprattutto presuntuoso, per la volontà di porsi come una sorta di seguito de La Dolce Vita di Fellini o di connettersi a La Terrazza di Ettore Scola. Soprattutto, ancora oggi molti lo collegano a La Vita è Bella di Benigni, lo vedono come un’opera cinematografica fatta a tavolino per piacere agli americani e all’Academy.

article imageTutte le nomination agli Oscar 2024

Io Capitano di Matteo Garrone nella cinquina del miglior film internazionale, la conferma di Oppenheimer e le altre candidature

Roma, ma anche l’Italia e gli italiani qui mostrati – si sostenne da parte di alcuni allora e si sostiene tuttora- sono gli stessi di tante narrazioni ad uso e consumo del turismo cinematografico e degli stereotipi; anzi l’insieme era persino peggiore, visto che eravamo descritti come esseri mediocri, festaioli, decadenti e amorali, senza speranza o redenzione. Ma la realtà è che se ancora oggi La Grande Bellezza trova ostilità questo forse è da vedere come un grande pregio, come un attestato della verità in esso contenuta, della capacità da parte di Paolo Sorrentino di creare un’opera che non era semplicemente sintomatica di un cambiamento della nostra società, ma anche di una realtà che non volevamo ammettere. Jep Gambardella, la sua Odissea, erano giocoforza anche la cronaca schietta e spietata della caduta di quell’impero chiamato berlusconismo e di quanto male ci aveva causato, della deformazione che aveva creato nel nostro corpo, di cui Roma diventa la grande metafora.

article imageIo capitano: il nuovo Pinocchio di Garrone in viaggio dal Senegal all’Europa

Il regista di Gomorra è per la prima volta in gara a Venezia con un film di cui si parlerà a lungo. Da oggi nei cinema italiani

Toni Servillo ci appare come un Marcello Mastroianni cinicamente disincantato, ma in realtà aggrappato ai ricordi e al tema della memoria. Armato dei bellissimi costumi di Daniela Ciancio, dandy partenopeo trapiantato a Roma, Jep Gambardella più che scrivere, passa la sua vita tra una festa e l’altra. Questo strano ma astuto giornalista, è un sopravvissuto a sé stesso, alle sue speranze e sogni di gioventù; il suo narcisismo, la sua vanità da don Giovanni stagionato, il suo aggirarsi nella mondanità con fare disinvolto e divertito, nascondono un dramma interiore profondo. In lui La Grande Bellezza vede un uomo che è conscio di aver sprecato un talento, quello di scrittore, venendo inghiottito in una Roma volgare, ipocrita, ridicola eppur feroce, da cui però infine decide di staccarsi. Sorrentino ci fa seguire i suoi passi, in quello che è anche un viaggio nel dolore e nella malinconia più potenti, dove l’addio al grande amore della sua gioventù si prefigge come la ricerca della bellezza.

article imageDa a Sciuscià a La vita è bella, i film italiani che hanno vinto l’Oscar

Io capitano di Matteo Garrone è stato selezionato per rappresentare l’Italia per la corsa al miglior film straniero. E noi ripercorriamo i momenti nei quali il nostro cinema si è aggiudicato la statuetta

Una bellezza che non è intesa in senso meramente letterale, ma come ricerca di un senso, anche di una volontà artistica, con cui ridare un’anima al proprio vivere, una costruzione per quei sentimenti che per molto tempo Jep ha soffocato. Tutto questo Sorrentino lo crea con un film che, dal punto di vista tecnico, per la capacità ipnotica della sua regia, per il montaggio, fotografia e scenografie, rappresenta l’apice del cinema italiano degli ultimi 25 anni. La Grande Bellezza se la giocava qui con le più raffinate produzioni internazionali, altro fattore alla base di un plauso internazionale che fu quasi unanime. Il che rende ancora più interessante capire il perché di tanta ostilità tricolore, presente non solo nella critica (la nostra da sempre una delle più imprevedibili) ma anche in una certa parte di pubblico. Questo spesso non per gusto personale, ma per avere capito perfettamente il retroscena semantico del film e ciò di cui parlava, il dito che ci puntava contro.

Un racconto che sancisce la caduta del sogno berlusconiano

La Grande Bellezza è il film testamento sul berlusconismo, la cui ombra è in quelle serate, quella Roma decadente, quest’Italia di mille personaggi ridicoli, patetici, nei vari papponi, falsi mariti, viveur, biscazzieri, arrampicatrici e borghesi senz’anima. Il Cavaliere aveva regalato in trent’anni il sogno di un’Italia come una festa senza fine, ma il suo era stato un trenino che non andava in realtà da nessuna parte. La Grande Bellezza è il risveglio tragico e vero dal sonno della narrativa arcoriana, che proprio in quegli anni subisce un tracollo politico vertiginoso, da cui scaturisce la fine del ciclo del pifferaio magico e quindi tutto ciò che ne accompagnava il mito sul grande e piccolo schermo. De Sica, Boldi, Jerry Calà, i quiz, le veline e tutto il resto, ci avevano sempre assolti da ogni vizio e peccato. Per trent’anni ci eravamo sentiti dire che in fondo eravamo amabili mattacchioni, un po’ furbi un po’ fessi, ma non cattivi, volevamo solo una bonazza nel letto, una festa a Cortina e sfangarla.

article imagePerché snobbare Margot Robbie e Greta Gerwig agli Oscar è una decisione scandalosa

Celebrità e netizen sono insorti alla notizia che la regista e la protagonista del “film d’anno” (scorso) non sono state candidate agli Academy Award. E in effetti quando è troppo, è troppo

La vita come trucco e come inganno, il cinepanettone come lavaggio cinematografico della coscienza e esaltazione dei nostri difetti come pregi, il che poi era il grande racconto berlusconiano, la grande promessa di un avvenire scevro da ogni conseguenza. Ma quella narrazione Sorrentino la prende, la spezza, ci mostra come siamo diventati in realtà: cattivi, materialisti, avidi, crudeli. Hepburn e Peck in sella alla vespa ci vedevano come umanissimi, un po’ casinisti, ma caldi. Non lo siamo più, siamo sogno di mera materialità e successo immeritato, siamo volgarità, in questa Roma che dal 2014 di Jep, è diventata sempre più orrenda. Sorrentino non risparmia nessuno, né il protagonista, né gli artisti, neppure la Chiesa o l’antichità della Caput Mundi. Eppure, nel farlo, nel dipingere un affresco dove morte e vita sono legati indissolubilmente, Sorrentino ci offriva anche una speranza legata ai sentimenti, all’arte, alla cultura, alla volontà di riabbracciare il proprio io interiore, di superare l’egoismo tout court.

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Il Ritorno del Re ha 20 anni e continuiamo a rimpiangerlo

Author: Wired

Il Ritorno del Re compie vent’anni e questo mi fa, ci fa, sentire molto vecchi. Ma più ancora, fa sentire il cinema molto vecchio, al netto della risalita recente di film in grado di proporsi come evento, come momento emotivo collettivo. La realtà è che usciti dalla sala, consci che il viaggio che ci aveva offerto Peter Jackson era finito, ci sentimmo tutti più tristi, più poveri, come svuotati. Questo è forse l’indizio più importante di quanto la Trilogia de Il Signore degli Anelli sia stata in grado di creare qualcosa di unico, di irripetibile, e quanto questo film (al netto di qualche piccolo difetto) rappresenti dopo un ventennio, un patrimonio comune di inestimabile valore.

L’ultimo tassello di una trilogia unica nella storia

Con Il Ritorno del Re Peter Jackson si trovò di fronte ad una fatica da Ercole: curare la post-produzione di tutto ciò che aveva girato tra il 2001 e 2002, in un iter creativo che ancora oggi rappresenta una delle più grandi sfide cinematografiche di tutti i tempi. Il fatto che il montaggio definitivo sia stato terminato ad un mese solamente dall’uscita in sala, rende l’idea della dimensione pachidermica del girato da Jackson, togliendo ogni argomentazione a chi ha visto nelle sue Director’s Cut una mera opera di commercializzazione. La quantità di scene tagliate dalla versione cinematografica qui si nota molto di più che negli altri due film, il che ha reso a volte il ritmo forse non così fluido. Ma non si può non riconoscere che Jackson riesce dove tanti altri, in saghe e anche universi cinematografici venuti dopo, con dietro ben altro supporto e mezzi, hanno fallito: darci un finale vero, autentico, compiuto e armonioso dal punto di vista narrativo.

Il tutto naturalmente unendo (come suo solito) l’amore per il cinema del passato (così come per i b movie e il cinema di genere) con la capacità di innovare, di stupire con una messa in scena visiva che qui, più ancora che ne Le Due Torri, riportò il concetto di kolossal cinematografico al centro dell’esperienza cinematografica per il grande pubblico. Il Ritorno del Re aumenta rispetto alle versioni precedenti la complessità e maestosità di una messa in scena per la quale Jackson sarebbe stato nuovamente criticato da una fetta di fandom Tolkeniano, per l’eliminazione o modificazione di personaggi ed eventi. Lavoro di mediazione totale quello della Trilogia del resto, con un occhio saldamente rivolto alla mitologia in senso totale, non solo dell’autore. Con questo si intende anche quella lontana dalla religiosità, piuttosto creata dalla Storia, dall’interpretazione della stessa dalla letteratura, l’arte e la musica, di cui riecheggia l’eco per ogni singolo minuto.

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Siamo stati alla mostra su J.R.R. Tolkien alla Galleria Nazionale di Roma

E no, non ci ha convinto

Ed allora, ecco che ne Il Ritorno del Re disastro e vittoria si scambiano di posto mentre seguiamo Frodo, Sam, lo stupefacente Gollum di Andy Serkis, nel loro viaggio alienante verso Mordor. Questo film non ha forse da Elijah Wood un’interpretazione così convincente come in precedenza, anche per necessità di iter, ma compensano tutto un Sean Astin e un Serkis, capaci di porsi come simbolo della doppia faccia della moralità e della vita. Dall’altra parte c’è il fragore delle armi con Aragorn, Gandalf, Legolas, Gimli, che portano Re Theoden alla testa di quello che è e rimane il momento più epico della storia del cinema: la carica di cavalleria che chiunque, a qualunque età, ha sognato di poter cavalcare nei propri sogni ad occhi aperti. C’è n’è un’altra di carica, fatale e malinconica, ed è l’ennesima connessione che Jackson fa fare al suo racconto con la memoria storica di cadute e sconfitte narrate da poeti e quadri. Pipino canta e intanto si va a morire tra l’indifferenza, come a Balaclava o a Gettysburg, per il volere del potere.

La cavalcata meravigliosa con cui Jackson ci porta assieme a Gandalf in quella Minas Tirith sull’orlo del baratro è, ancor più che nell’assedio de Le Due Torri, il risvegliare la memoria delle grandi cadute, della fine di un’era. La città della Torre d’avorio è come la Constantinopoli di Costantino XI, Gerusalemme invasa dai crociati, Cartagine che fu grande potenza, tutte circondate da orde senza pietà. Howard Shore, completa un trittico che è stato (giustamente) indicato come la più grande colonna sonora di tutti i tempi, unica per raffinatezza, complessità. Pure in quelle note c’è la traccia di un legame profondo tra Il Signore degli Anelli e la saga dei Nibelunghi, e quindi Wagner, quel recupero costante di un tema da sviluppare con una diversità totalizzante, da connettere allo specifico momento narrativo. Il che ci conferma che ne Il Ritorno del Re, abbiamo un contenitore trasversale del racconto epico non solo cinematograficamente inteso.

Un film in grado di abbracciare l’epica narrativa in senso universale

Il male ne Il Ritorno del Re si pone con una molteplicità di forme, anche quella umana, con Denethor, folle e perduto come certi Imperatori o Re, come il “Macbeth” di Shakespeare che Jackson valorizza in modo assoluto. Il film ha un crescendo titanico, perfetto, a tratti si avverte una tensione incredibile. “Non voglio trovarmi in una battaglia, ma aspettare sull’orlo di una che non posso evitare è ancora peggio” confessa Pipino a Gandalf, mentre il respiro prima del grande balzo del Negromante Re si materializza di fronte a Frodo, Sam e Gollum, in una visione da incubo norreno. Già, Gollum. Al di là della resa visiva rivoluzionaria, è e rimane il personaggio chiave, con cui parlare della dannazione del potere, della distruzione dell’anima generata dalla cupidigia e la sua evoluzione qualcosa di terribile. La fine di tutte le cose è però anche l’inizio di tutte le cose, è il cambiamento che Jackson rende in modo perfetto e così facendo onora, nel profondo, Tolkien, la sua generazione tornata distrutta dalle trincee.

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Oscar 2023: chi sono i grandi esclusi

Author: Wired

Le nomination degli Oscar 2023, come d’abitudine, ci hanno regalato parecchie sorprese: dalla strabiliante corsa di Everything Everywhere All At Once alla quinta nomination per Cate Blanchett, dalla candidatura meritatissima del golden boy Paul Mescal alla presenza di un titolo “underdog” come To Leslie, da Michelle Yeoh prima donna asiatica candidata come miglior attrice alla rivincita di una star come Jamie Lee-Curtis, non si può dire che siano mancate le emozioni nell’annuncio dei titoli in corsa per le statuette il prossimo 13 marzo (anche per l’Italia, con Pupille di Alice Rorhwacher tra i migliori corti). Ma c’è anche chi non ha festeggiato particolarmente dopo questi annunci: vediamo chi è stato, più o meno ingiustamente, snobbato.

Le registe donne

Nonostante nelle ultime edizioni siano state proprio due donne a vincere l’Oscar alla miglior regia, ovvero Chloe Zhao e Jane Campion, quest’anno i candidati nella stessa categoria sono tornati a essere tutti maschi. E dire che la scelta c’era, da Gina Prince-Bythewood di The Woman King a Charlotte Wells di Aftersun, passando per Sarah Polley di Women Talking.

Categorie attoriali

A proposito di The Woman King, il film è stato parecchio apprezzato soprattutto per l’interpretazione potente di Viola Davis. L’attrice, già vincitrice dell’Academy Award come miglior attrice non protagonista nel 2016 per Barriere, non è stata considerata però in nessuna categoria attoriale. Tra le altre grandi escluse anche Margot Robbie per Babylon, mentre in molti si aspettavano che Tom Cruise ricevesse una candidatura a miglior attore per il seguito di Top Gun.

Till

La struggente storia vera dell’omicidio, nel 1955, del quattordicenne Emmett Till per mano di un gruppo di razzisti e soprattutto della lotta della madre Mamie Till-Mobley per ottenere giustizia è diventato un film altrettanto importante e commovente, che però è stato praticamente ignorato dall’Academy. Peccato soprattutto per la regia di Chinonye Chukwu e ancor di più per l’interpretazione di Danielle Deadwyler nei panni di Till-Mobley.