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Nel 2026 uscirà un nuovo film de Il Signore degli Anelli

Author: Wired

La nuova leva dei live-action ispirati alla saga de Il Signore degli Anelli partirà nel 2026 con un film dedicato a Gollum. Così ha annunciato David Zaslav, amministratore delegato di Warner Bros. Discovery. La pellicola, che si chiamerà The Hunt for Gollum (La caccia a Gollum), avrà come regista proprio l’interprete del personaggio nella trilogia cinematografica, l’attore e regista britannico Andy Serkis.

Peter Jackson sarà coinvolto come produttore e al suo fianco ci saranno Fran Walsh e Philippa Boyens alla sceneggiatura. “Saranno coinvolto in ogni passaggio del progetto” spiega ancora Zaslav. Per ora non sono emersi ulteriori dettagli sul film. L’intenzione, però, è di “esplorare ogni possibile storyline non ancora raccontata”.

article imageQuali storie potrebbero raccontare i nuovi film de Il Signore degli Anelli?

È chiaro che la volontà sia quella di trattare trame ancora inesplorate nell’universo di Tolkien

Lo scorso febbraio era arrivata la conferma dopo molte voci sull’intenzione di Warner Bros di produrre nuovi film legati a Il Signore degli Anelli. In quell’occasione David Zaslav,aveva spiegato di aver concluso un accordo per creare “diversi” film basati sulle opere di J.R.R. Tolkien. E che come le precedenti trilogie cinematografiche firmate da Peter Jackson, anche questi nuovi progetti sarebbero stati veicolati da New Line Cinema.

Non vediamo l’ora di confrontarci con loro per capire la loro visione su come continuare la saga”, avevano dichiarato Peter Jackson, Philippa Boyens e Fran Walsh. Lo stesso Jackson si era tenuto fuori dall’accordo che Amazon ha concluso negli ultimi anni per realizzare la serie tv prequel Gli anelli del potere. Ma ora tornerà finalmente nella nella Terra di Mezzo. “Il mio tesssssssoro. È giunta l’ora di avventurarsi di nuovo nell’ignoto con i miei cari amici, i guardiani straordinari e incomparabili della Terra di Mezzo, Peter, Fran e Philippa”, ha aggiunto lo stesso Serkis.

Non sarà l’unico ritorno sul grande schermo della saga di Tolkien, in ogni caso. Un film animato, del tutto diverso e separato da quest’altro progetto, intitolato** The Lord of the Rings: The War of the Rohirrim**, uscirà nelle sale il prossimo 13 dicembre e sarà diretto da Kenji Kamiyama. Sarà ambientato due secoli prima degli eventi de Lo Hobbit, quando si è svolta la sanguinosa guerra di Rohirrim, guidata da Helm Mandimartello, il fondatore del Fosso di Helm. Per la nuova avventura filmica di Gollum, invece, si dovrà attendere appunto il 2026.

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Il Ritorno del Re ha 20 anni e continuiamo a rimpiangerlo

Author: Wired

Il Ritorno del Re compie vent’anni e questo mi fa, ci fa, sentire molto vecchi. Ma più ancora, fa sentire il cinema molto vecchio, al netto della risalita recente di film in grado di proporsi come evento, come momento emotivo collettivo. La realtà è che usciti dalla sala, consci che il viaggio che ci aveva offerto Peter Jackson era finito, ci sentimmo tutti più tristi, più poveri, come svuotati. Questo è forse l’indizio più importante di quanto la Trilogia de Il Signore degli Anelli sia stata in grado di creare qualcosa di unico, di irripetibile, e quanto questo film (al netto di qualche piccolo difetto) rappresenti dopo un ventennio, un patrimonio comune di inestimabile valore.

L’ultimo tassello di una trilogia unica nella storia

Con Il Ritorno del Re Peter Jackson si trovò di fronte ad una fatica da Ercole: curare la post-produzione di tutto ciò che aveva girato tra il 2001 e 2002, in un iter creativo che ancora oggi rappresenta una delle più grandi sfide cinematografiche di tutti i tempi. Il fatto che il montaggio definitivo sia stato terminato ad un mese solamente dall’uscita in sala, rende l’idea della dimensione pachidermica del girato da Jackson, togliendo ogni argomentazione a chi ha visto nelle sue Director’s Cut una mera opera di commercializzazione. La quantità di scene tagliate dalla versione cinematografica qui si nota molto di più che negli altri due film, il che ha reso a volte il ritmo forse non così fluido. Ma non si può non riconoscere che Jackson riesce dove tanti altri, in saghe e anche universi cinematografici venuti dopo, con dietro ben altro supporto e mezzi, hanno fallito: darci un finale vero, autentico, compiuto e armonioso dal punto di vista narrativo.

Il tutto naturalmente unendo (come suo solito) l’amore per il cinema del passato (così come per i b movie e il cinema di genere) con la capacità di innovare, di stupire con una messa in scena visiva che qui, più ancora che ne Le Due Torri, riportò il concetto di kolossal cinematografico al centro dell’esperienza cinematografica per il grande pubblico. Il Ritorno del Re aumenta rispetto alle versioni precedenti la complessità e maestosità di una messa in scena per la quale Jackson sarebbe stato nuovamente criticato da una fetta di fandom Tolkeniano, per l’eliminazione o modificazione di personaggi ed eventi. Lavoro di mediazione totale quello della Trilogia del resto, con un occhio saldamente rivolto alla mitologia in senso totale, non solo dell’autore. Con questo si intende anche quella lontana dalla religiosità, piuttosto creata dalla Storia, dall’interpretazione della stessa dalla letteratura, l’arte e la musica, di cui riecheggia l’eco per ogni singolo minuto.

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Siamo stati alla mostra su J.R.R. Tolkien alla Galleria Nazionale di Roma

E no, non ci ha convinto

Ed allora, ecco che ne Il Ritorno del Re disastro e vittoria si scambiano di posto mentre seguiamo Frodo, Sam, lo stupefacente Gollum di Andy Serkis, nel loro viaggio alienante verso Mordor. Questo film non ha forse da Elijah Wood un’interpretazione così convincente come in precedenza, anche per necessità di iter, ma compensano tutto un Sean Astin e un Serkis, capaci di porsi come simbolo della doppia faccia della moralità e della vita. Dall’altra parte c’è il fragore delle armi con Aragorn, Gandalf, Legolas, Gimli, che portano Re Theoden alla testa di quello che è e rimane il momento più epico della storia del cinema: la carica di cavalleria che chiunque, a qualunque età, ha sognato di poter cavalcare nei propri sogni ad occhi aperti. C’è n’è un’altra di carica, fatale e malinconica, ed è l’ennesima connessione che Jackson fa fare al suo racconto con la memoria storica di cadute e sconfitte narrate da poeti e quadri. Pipino canta e intanto si va a morire tra l’indifferenza, come a Balaclava o a Gettysburg, per il volere del potere.

La cavalcata meravigliosa con cui Jackson ci porta assieme a Gandalf in quella Minas Tirith sull’orlo del baratro è, ancor più che nell’assedio de Le Due Torri, il risvegliare la memoria delle grandi cadute, della fine di un’era. La città della Torre d’avorio è come la Constantinopoli di Costantino XI, Gerusalemme invasa dai crociati, Cartagine che fu grande potenza, tutte circondate da orde senza pietà. Howard Shore, completa un trittico che è stato (giustamente) indicato come la più grande colonna sonora di tutti i tempi, unica per raffinatezza, complessità. Pure in quelle note c’è la traccia di un legame profondo tra Il Signore degli Anelli e la saga dei Nibelunghi, e quindi Wagner, quel recupero costante di un tema da sviluppare con una diversità totalizzante, da connettere allo specifico momento narrativo. Il che ci conferma che ne Il Ritorno del Re, abbiamo un contenitore trasversale del racconto epico non solo cinematograficamente inteso.

Un film in grado di abbracciare l’epica narrativa in senso universale

Il male ne Il Ritorno del Re si pone con una molteplicità di forme, anche quella umana, con Denethor, folle e perduto come certi Imperatori o Re, come il “Macbeth” di Shakespeare che Jackson valorizza in modo assoluto. Il film ha un crescendo titanico, perfetto, a tratti si avverte una tensione incredibile. “Non voglio trovarmi in una battaglia, ma aspettare sull’orlo di una che non posso evitare è ancora peggio” confessa Pipino a Gandalf, mentre il respiro prima del grande balzo del Negromante Re si materializza di fronte a Frodo, Sam e Gollum, in una visione da incubo norreno. Già, Gollum. Al di là della resa visiva rivoluzionaria, è e rimane il personaggio chiave, con cui parlare della dannazione del potere, della distruzione dell’anima generata dalla cupidigia e la sua evoluzione qualcosa di terribile. La fine di tutte le cose è però anche l’inizio di tutte le cose, è il cambiamento che Jackson rende in modo perfetto e così facendo onora, nel profondo, Tolkien, la sua generazione tornata distrutta dalle trincee.

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L’eredità di Tolkien nel fantasy è ancora viva?

Author: Wired

Il gene del worldbuilding è stato spesso dominante a spese di un’altra caratteristica con cui invece riesce a convivere senza contraddizioni nella letteratura tolkeniana: l’afflato epico. Oggi, epico è sinonimo di di grande o grandioso, e facilmente si definisce come epica una saga fantasty perché strabordante su molteplici volumi, o perché racconta – in termini prosaici o meno – un conflitto tra eserciti, dèi o grandi maghi.

Una visione nuova, senza dimenticare il passato

Ma le minuzie del worldbuilding, dei sistemi magici, delle motivazioni e del background dei personaggi, non sono sempre compatibili con l’epica che era presente in Tolkien, ove il racconto esplicito e, certo, finanche minuzioso (soprattutto nella fascinazione per il quotidiano degli hobbit e per le tappe del loro viaggio), trovava un contraltare nel non-detto dei miti e delle fiabe, reso a sua volta possibile dall’ampio ricorso agli archetipi delle grandi saghe leggendarie. Così gli elfi, Aragorn, gli stregoni buoni e cattivi, non avevano bisogno di vedere i propri poteri o il proprio addestramento elencati nel dettaglio per affermarsi come paragoni di potere, di regalità, di bontà o malvagità.

Quel che è certo è che il genere fantasy, in tutti i suoi media, è andato oltre Tolkien. L’evoluzione principale riguarda il superamento del manicheismo – la visione di un male assoluto contrapposta al bene senza macchia. C’è ancora, in quasi tutti i romanzi e le trame fantasy, un grande avversario da sconfiggere. Ma ci sono anche più sfaccettature, più chiaroscuri, più dilemmi etici per gli eroi o giustificazioni morali per i cattivi – se non la rimozione quasi totale di una distinzione tra gli uni e gli altri. I libri di Joe Abercrombie o di Mark Lawrence, ad esempio, sono affollati di antieroi che assurgono a riluttanti protagonisti di imprese straordinarie ma non necessariamente positive.

Anche elfi, nani e orchi sono meno onnipervasivi nella narrazione fantasy, a volte per semplice stanchezza dovuta al sovraffollamento degli anni ‘70 e ‘80 (e ’90…), a volte perché sostituiti da altre razze originali inventate dai nuovi autori, e infine, sempre più spesso, per un’esplicita volontà di andare oltre quelli che vengono identificati come stereotipi razziali. Così anche un caposaldo come Dungeons & Dragons, che fonda in modo indissolubile la propria identità con la presenza di razze direttamente ispirate a quelle classiche tolkeniane (e altre che si sono aggiunte nei decenni), sta compiendo un’attenta inversione di marcia (piuttosto difficile da compiere senza passare con le ruote sui piedi dei fan) per ridurre le differenze tra le une e le altre, ed eliminare il più possibile il concetto di specie inerentemente malvagie.

Altre evoluzioni sono un naturale frutto dei tempi, dal ruolo delle donne come protagoniste sino alla diversity e ai temi Lgbtq+, portati avanti da autori pionieri e seminali come Ursula K. Le Guin o contemporanei come Tamsyn Muir.

Sono passati 50 anni dalla morte di J.R.R. Tolkien. Tra libri, film, videogiochi e giochi, il fantasy è diventato una componente centrale della cultura pop. L’eredità del suo capostipite è ancora onnipervasiva. Diversa, sì; mutata in certe componenti essenziali; ancora irraggiungibile in altre. Ma viva e vitale, più che mai.