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Test ai supporti per Ftse Mib, Eurostoxx e Dax

Lo so che posso sembrare ripetitivo ma la finanza ed i mercati non si stravolgono ogni giorno e

Seduta con partenza in calo per tutta l’Europa in vista della settimana di Ferragosto. I principali

Prima la buona notizia per tutti coloro che credono nel nostro viaggio, nelle nostre visioni…

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Presto gli auricolari potrebbero cadere in disuso. Ascoltare la musica, parlare al telefono, ma non

Grazie alla crisi di credibilità politica, il nostro debito pubblico è salito sulle montagne r

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Due giorni fa si saliva, oggi si scende. Ma il Ftse Mib non fa semplicemente altro che oscillare nel

Author: Finanza.com

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Examining the US debt and taxes


US debt may be getting out of hand, but is the future still looking bright? Jeffrey Small has the answer. Donald Williamson from American University joined Bart Chilton to discuss taxes. Antar Davidson gives us an update on the migrant detention centers in Arizona while Natasha Sweete covers the raging forest fires out West. All this and more on Boom Bust! [1131] Follow us on Twitter:
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TRADE WAR PAIN: ma la Cina teme la guerra commerciale?

Le slides qui sopra parlano chiaro. Se chiediamo a specialisti del settore qual’è il vero rischio sistemico per i prossimi anni, direi che non ci sono dubbi.

Neo protezionismo.

Timore che, come potete vedere, è lievitato a dismisura. E la vittima numero UNO del neo protezionismo di Donald Trump è la Cina, il Celeste Impero che rischia quindi di subire una frenata importante a livello di crescita economica. O per lo meno questo è quanto tutti ci dicono. Ho trovato però interessante il punto di vista di un operatore che è il responsabile per la società Neuberger Berman per il mercato cinese, al secolo Bin Yu.

In Europa e Nord America si fanno sempre più insistenti le voci di un’imminente guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina. Donald Trump ha pubblicamente minacciato l’imposizione di dazi che potrebbero gravare su tutto l’export cinese destinato al mercato americano, pari ad una cifra di circa 500 miliardi di dollari l’anno, e settimana scorsa ha proposto un aumento delle tariffe su ben 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi.

Qui a Pechino, l’atmosfera è differente. I dazi non suscitano grandi preoccupazioni in Cina. Sia il governo che la comunità imprenditoriale si stanno chiedendo se valga la pena adottare ritorsioni in caso di ulteriori dazi da parte degli Stati Uniti.

Qui, sono tutti consapevoli che, nel caso di una guerra commerciale, entrambe le parti perderebbero, come dal canto suggeriscono i libri di testo, e che i dazi imposti sia dalla Cina sia dagli Stati Uniti graveranno più sulle loro società e consumatori nazionali, piuttosto che su quelle dell’altro Paese ma, a risentirne di più, saranno le società e i consumatori statunitensi.

Devo dire la verità, fino a qui il signor Yu dice esattamente quello che penso e che ho già scritto più volte. A pagare dazio saranno proprio i consumatori. Ma ora c’è la parte più interessante.

Potrebbe sembrare contro intuitivo. Gli Stati Uniti esportano ogni anno beni in Cina per soli 130 miliardi di dollari. Ma allora, è proprio vero, come sostiene uno dei più aggressivi consulenti della Casa Bianca, che nel caso di una guerra sui dazi sarebbe soprattutto la Cina a rimetterci?

Non proprio. Intanto è riduttivo descrivere il rapporto economico tra i due Paesi utilizzando come unico parametro la bilancia commerciale. Questo dato non da molte informazioni su dove vengano iscritti a bilancio ricavi e utili, in particolare se i Paesi in questione sono la Cina e gli Stati Uniti.

Bilancia commerciale: Cina vs USA

Quanti marchi cinesi è in grado di citare un consumatore medio statunitense? Non molti. E un motivo c’è. I 500 miliardi di merci spedite dalla Cina verso gli Stati Uniti non sono rappresentati dai 10 milioni di smartphone Huawei. È vero che un certo numero di società cinesi, ad esempio i produttori di elettrodomestici, generano il 10-15% degli utili grazie ai consumatori americani. Tuttavia, la maggior parte degli analisti stima che solamente il 5% dei ricavi delle società quotate in borsa in Cina sia imputabile agli Stati Uniti. Inoltre, le società cinesi su cui si concentrano gli investitori azionari, quali Alibaba o Tencent o le banche cinesi, spesso non hanno alcuna esposizione diretta.

La verità è un’altra: la maggior parte di quei 500 miliardi di dollari di beni importati viene prodotta da società statunitensi in Cina per i consumatori americani. Apple, da sola, importa ogni anno dalla Cina hardware per 50 miliardi di dollari. Gran parte del resto sono componenti elettronici e meccanici fabbricati da società taiwanesi, coreane o europee per le aziende statunitensi.

In breve, se si considerano gli utili, anziché la bilancia commerciale, sembra che le società cinesi abbiano meno bisogno degli Stati Uniti di quanto le società statunitensi abbiano bisogno della Cina.

Ed è questo un punto molto importante. E ci spiega cosa vuole fare Trump: far rientrare la produzione di delle aziende USA che producono all’estero. Però è anche vero che, se tali aziende rientrassero negli USA, per la forza lavoro cinese sarebbe un problema, non vi pare?

Inoltre, chiunque viva, lavori e faccia acquisti in Cina, sa che i dazi non sono l’unica minaccia per le società statunitensi. Queste aziende hanno investito ingenti somme di denaro e tempo nel costruire marchi solidi per il mercato al consumo cinese. Ora, i loro piani strategici di sviluppo sono a rischio, sia a causa degli interventismo del governo, sia, soprattutto, a causa della fiducia dei consumatori. Ancora una volta pensiamo ad Apple, che genera più del 25% dei propri utili (18 miliardi di dollari l’anno) in Cina.

Ecco, questo è condivisibile e ci fa capire che gli USA non sono per forza il “centro del mondo”. Anche per le stesse aziende USA.

Nel corso delle passate controversie internazionali, i consumatori cinesi hanno espresso la propria opinione spendendo diversamente i propri soldi per beni di lusso e lo hanno fatto senza alcun esplicito incoraggiamento ufficiale. Quando nel 2012 Cina e Giappone si contesero la sovranità di alcune isole nel Mar Cinese Orientale, le vendite di auto giapponesi in Cina (prodotte per la maggior parte in loco) precipitarono del 50% circa. L’anno scorso le case automobilistiche coreane subirono un colpo analogo quando scoppiò la controversia sule installazioni antimissilistiche. Stessa sorte sia per i prodotti di largo consumo prodotti in Giappone e Corea (ad esempio prodotti per la casa e cosmetici) che registrarono una significativa, ancorché ridotta, flessione delle vendite, sia per i flussi turistici verso quei due Paesi. Queste flessioni, causate dal flusso di notizie, ci misero dai due a quattro trimestri per ristabilizzarsi.

Questo ci insegna che l’eventualità che i consumatori cinesi scelgano una Volkswagen piuttosto che una Buick, Chevrolet o Focus costituisce un rischio concreto per società come General Motors e Ford. Anche aziende come Nike o Starbucks, che generano rispettivamente il 24% e il 15% dei propri utili in Cina, potrebbero registrare una battuta d’arresto.

Non sottovalutate mai la mentalità cinese. Sono delle macchine e se arriva dall’alto un input commerciale, state pur certi che una casa automobilistica collassa a livello di vendite in Cina.

Dal punto di vista cinese, anche se alcuni prodotti statunitensi sono facilmente sostituibili (ad esempio le materie prime agricole), la maggior parte di quei 130 miliardi di dollari in importazioni dagli Stati Uniti è costituita da prodotti competitivi e di alta qualità che sono difficili da rimpiazzare (ad esempio componenti per aeromobili e semiconduttori). Il governo cinese è consapevole del fatto che imponendo dazi su queste merci recherebbe danno solo alle aziende e ai consumatori nazionali. Questa tesi e il fatto che i dazi statunitensi non arrecano alcun danno diretto alle società cinesi sono gli argomenti che alimentano il dibattito interno sull’opportunità di eventuali ritorsioni.

Chiaramente gli orientamenti politici di un Paese possono prevalere sui suoi interessi economici. Se da un lato le aziende statunitensi sono direttamente più vulnerabili all’imposizione di dazi rispetto alle aziende cinesi, un’imposta del 10% su ciascun dollaro di importazioni dalla Cina avrebbe un impatto negativo considerevole sull’economia globale e sulla fiducia degli investitori, che danneggerebbe non solo la Cina, ma chiunque altro. E allo stato attuale, una simile prospettiva non è completamente da escludere. Ciò nonostante, guardando i dazi imposti finora e l’elenco sempre più lungo di esenzioni e sussidi, si direbbe che, ad oggi, prevalga la tutela degli interessi personali.

Nel lungo termine, la progressiva affermazione dell’economia cinese come principale concorrente agli Stati Uniti rappresenta una sfida strategica indipendente da Trump e che continuerà oltre il suo mandato. Come hanno già fatto da inizio anno ad oggi, quando sui dazi sono volate parole grosse, le società cinesi continueranno a tenere lo stesso approccio commerciale e pragmatico. [Source]

La partita è aperta e probabilmente è meno unidirezionale a livello di benefici di quanto stavamo pensando. Il tempo ci dirà e lo stesso Trump toccherà con mano.

Time is gentlemen.

Ed io resto convinto che, quanto l’economia USA inizierà a dare segni di debolezza per colpa dei Dazi, il buon Trump correrà subito ai ripari convocando magari un WTO d’emergenza al fine di trovare degli accordi e mettere un po’ di ordine.

STAY TUNED!

Danilo DT

(Clicca qui per ulteriori dettagli)
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Dollar bulls won the battle but not the war.


I’ve seen this a million times.

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“Favorisca…l’iPhone”. Il tuo smartphone potrebbe diventare la tua patente

Negli ultimi anni l’iPhone, o comunque lo smartphone, ha gradualmente sostituito altri oggetti per inglobarli all’interno del dispositivo. Ad esempio, la nostra carta di credito è integrata in Apple Pay. Ora, un nuovo brevetto rivela come l’iPhone potrebbe memorizzare anche il nostro passaporto o la patente di guida.

Come pubblicato dall’ufficio brevetti e marchi degli Stati Uniti, Apple ha presentato una domanda di brevetto per la prima volta a marzo per “importare documenti in modo sicuro”. In altre parole, un formato standard che consenta di archiviare documenti verificati come il passaporto, patente di guida o altro documento di identificazione.

L’NFC è la chiave per questo Per memorizzare i dati di identificazione di una persona su un iPhone, non è sufficiente inserire i dati in un modulo iOS. Al fine di evitare falsificazioni o duplicati, Apple nel brevetto inserisce l’uso della NFC (Near Field Communication). Utilizzando l’NFC, i dati di un documento fisico potrebbero essere trasmessi all’iPhone per creare una copia verificata. Di conseguenza, il documento dovrebbe avere un chip NFC o simile per poter archiviare i dati. Gli e-passport e alcuni documenti di identificazione già contano su di esso.

Apple non menziona nel suo brevetto l’iPhone come dispositivo scelto, anche se sarebbe il più logico e ovvio. Ma si potrebbe utilizzare anche l’Apple Watch, come nel caso di Apple Pay, in quanto ha anch’esso un chip NFC integrato. Vale la pena ricordare che al momento è solo un brevetto che qualora diventasse realtà, ci sono molti altri ostacoli da superare. Quando si tratta di informazioni personali delle persone di un paese, deve esserci una collaborazione diretta con le amministrazioni governative. Se l’integrazione delle banche in Apple Pay è complicata, lo sarà a maggior ragione in questo caso.

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