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Energia

Comparing 3 approaches to electrical equipment maintenance

Author: Gabriel Arce Schneider Electric Blog

As California recovers from wildfires and widespread power outages, it’s worth taking stock of the situation that hospitals, manufacturing plants, and other critical facilities now face.

Much of the conversation has focused on decentralized options such as microgrids and generators. These approaches will certainly help. Yet regardless of whether you install a back-up supply, you must still ensure that once electricity does reach your facility, your equipment distributes it reliably and efficiently.

In this post, I’ll compare three strategies for enhancing the reliability of your electrical equipment.

Three options for aging electrical systems

Let’s compare your options to find out what fits your needs best.

Approach 1:  Waiting and running until failure

We all know people who delay going to the dentist or getting an oil change. Humans are prone to valuing instant gratification over long-term benefits.

And yet, unless you get lucky, downtime will catch up with you one day. According to a 2018 national survey of commercial and industrial building operators, over 80 percent experienced an outage in the last two years.[1] Over half of respondents reported dissatisfaction with power reliability.

Downtime isn’t cheap. We’ve all heard the horror stories. That same survey reports 18 percent of commercial and industrial facilities reported at least one outage that cost over $ 100,000 in 2017. This percentage rises in the manufacturing and IT sectors.

Although this approach may save money in the short term, in the long run, it’s often riskier and costlier.

Approach 2: Rip and replace

The second option is a “rip-and-replace” approach, in which you overhaul your electrical system with new equipment. The benefits of this approach include added peace of mind of a brand-new system that can be equipped with the latest IoT-enabled devices.

Yet for most facility owners, this option may not be the most practical because it can cause long-term downtime as the old system is swapped out, and increase cost due to avoidable capital expenditures on brand-new equipment.

Approach 3: Retrofit and modernize

There’s a happy medium between leaving your equipment as-is and ripping it out entirely. The retrofit approach offers the benefits of modernized gear while avoiding significant capital expenditures and downtime.

What are modernization services? In general, modernization services begin with a certified engineer performing an on-site assessment of an electrical system’s health. If the engineer detects anything that needs replacing, they’ll design a new hybrid solution involving both existing and new components. Next, engineers install the new solution on a pre-determined schedule. The primary benefit for customers of modernization services is that the system remains intact and only necessary replacements are made, thereby minimizing downtime and saving costs.

The benefits of retrofits over rip-and-replace:

  • Modernize and bring intelligence to your older gear by adding smart breakers, meters, and relays
  • Save money by avoiding new equipment outlays
  • Avoid or minimize downtime via a multi-phase approach to the retrofit that swaps out the system in stages

Let’s analyze how retrofitting and rip-and-replace compare when it comes to cost and carbon footprint.

Consider a typical power distribution system, consisting of 12 switchgears (eight feeders, two incomers, a bus coupler, a riser, and eleven circuit breakers). Compared to replacing the entire switchboard, retrofitting the system (aside from buying new circuit breakers) offers cost savings of 65 percent. That’s a major difference.

There’s also the environmental benefit. We at Schneider Electric strive to follow circular economy principles by avoiding new consumption and extending the life of existing gear. By avoiding newly manufactured products, the retrofit approach saves nearly 774,000 MJ of energy (equivalent to 135 barrels of oil), avoids emitting about 88,185 pounds (40,000 kgs) of carbon, and preserves 13,737 cubic feet (389 m3) of water. You can read the full analysis in this white paper.

The business case for retrofits and modernization

Companies around the country are starting to focus on power reliability as extreme weather intensifies and the cost of downtime rises. And with the California power outages still top-of-mind, right now is an excellent time to pursue modernization services.

Where should you start? Here is an easy-to-use tool that you can use to generate a custom recommendation on replacing or upgrading your switchgear.

[1]  “S&C’s 2018 State of Commercial & Industrial Power Reliability Report,” S&C, April 2018, https://www.sandc.com/globalassets/sac-electric/documents/sharepoint/documents—all-documents/technical-paper-100-t120.pdf?_sm_au_=iVV3M6s3rs2Wnsrs

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Energia

Solare termodinamico, analisi di un tracollo tutto italiano


Author: Luca Re QualEnergia.it

La filiera industriale italiana del solare termodinamico “è morta” e senza prospettive all’orizzonte nel nostro paese, perché l’atteso decreto Fer 2 assai difficilmente potrà ribaltare la situazione.

Gianluigi Angelantoni, presidente di Anest (l’Associazione nazionale energia termodinamica, che ha appena deliberato il suo scioglimento) e presidente di Archimede Solar Energy, ha tracciato un quadro molto chiaro sul presente e sul futuro di questa fonte energetica rinnovabile.

Di solare termodinamico CSP (Concentrating Solar Power) si è tornato a parlare in questi giorni, dopo la decisione di Anest di mollare la presa, poiché nessuna delle 14 grandi centrali CSP che si sarebbero potute costruire in Italia ha visto la luce, con progetti schiacciati dalla burocrazia e dai troppi “no” delle comunità locali, in particolare in Sardegna.

Parliamo, è bene chiarire, del solare termodinamico made in Italy che utilizza la tecnologia dei sali fusi ideata dal premio Nobel Carlo Rubbia. Al contrario, la quasi totalità dei grandi impianti CSP realizzati finora nel mondo impiega l’olio diatermico come fluido termovettore.

Il solare a concentrazione, ricordiamo in breve, utilizza specchi parabolici o piani per concentrare i raggi solari su tubi al cui interno scorre un fluido che assorbe il calore; con il calore poi si produrrà il vapore (tramite scambio termico) che a sua volta alimenterà le turbine elettriche.

Il principale vantaggio dei sali fusi è che si possono portare a temperature di 550 gradi centigradi, mentre l’olio non può andare oltre 400 gradi, quindi la tecnologia italiana permette a un impianto CSP di lavorare con maggiore efficienza: la temperatura molto più elevata fa aumentare la pressione del vapore e di conseguenza il rendimento delle turbine.

Tra l’altro, una centrale CSP può produrre energia elettrica anche quando non c’è sole, grazie alla possibilità di accumulare il calore in serbatoi e sfruttarlo in qualsiasi momento per generare il vapore che muove le turbine elettriche.

Le ragioni dell’insuccesso

Che cosa è andato storto in questi anni?

Il primo problema, spiega Gianluigi Angelantoni a QualEnergia.it, “è stato lo sfasamento tra l’uscita dei decreti ministeriali con gli incentivi al solare termodinamico e la presenza effettiva delle autorizzazioni”, un problema iniziato con i primi decreti del 2008 e proseguito nel 2012 sempre con la mancanza delle autorizzazioni, perlopiù regionali.

Nel 2016 il decreto firmato dall’allora ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, metteva sul piatto 100 MW per grandi impianti CSP da incentivare tramite aste. Peccato, osserva Angelantoni, “che quelle aste si dovevano chiudere in 3-4 mesi e nessun investitore, pur stavolta con le autorizzazioni in mano, ebbe tempo sufficiente per fare le due-diligence tecnico-economiche, necessarie per avere una ragionevole certezza sul ritorno dell’investimento in centrali con una nuova tecnologia. E a questo si unì la condizione capestro di un’elevata cauzione, tramite garanzia bancaria, da versare solo per partecipare all’asta”.

L’altro problema che ha bloccato il settore, continua Angelantoni, “è di tipo sociale, perché soprattutto in Sardegna le comunità locali si sono impuntate, osteggiando i progetti con una ragione contestabile, quella del consumo di suolo. Ma le centrali si sarebbero fatte su aree marginali, abbandonate o scarsamente coltivate, senza dimenticare che gli specchi sono installati ad almeno un paio di metri d’altezza da terra e in filari distanti 18-20 metri uno dall’altro, quindi il terreno si può utilizzare per alcune colture o per far pascolare gli animali”.

C’è ancora un aspetto critico, precisa Angelantoni: “Per far partire il settore bisogna costruire almeno qualche impianto grosso, in modo da convincere gli investitori a puntare sulla tecnologia dei sali fusi, creando economie di scala in grado di ridurre i costi d’investimento”.

Per realizzare una centrale CSP da 50 MW, infatti, servono circa 300 milioni di euro.

No in Sardegna, sì in Cina

Quindi il mix italiano è stato davvero letale per l’industria nazionale del CSP, tra autorizzazioni che non arrivano o arrivano tardi, incentivi che non si riescono a sfruttare, allevatori e pastori che si oppongono.

C’è qualche possibilità di investire all’estero?

Angelantoni racconta che a Dubai si sta costruendo un maxi impianto termodinamico da 700 MW per un investimento totale da 4,5 miliardi di dollari, dove non è coinvolta nemmeno un’azienda italiana; la maggior parte della centrale (600 MW) userà specchi parabolici lineari con tubi a olio diatermico, ma per gli altri 100 MW è prevista una configurazione “a torre” con specchi piani che concentrano i raggi solari su un unico ricevitore centrale, riempito di sali fusi.

Dopo un primo impianto a sali fusi costruito in Cina, con tubi italiani, la tecnologia dei sali fusi “è molto caldeggiata dai cinesi”, prosegue Angelantoni, ma i cinesi “hanno inserito una clausola di local content [contenuto locale, ndr] per questi futuri progetti, quindi se vuoi costruire gli impianti CSP in Cina, e ci sono centinaia di MW in cantiere, devi andare a produrre là”.

Tanto che Angelantoni ha parlato di una “delocalizzazione forzata” per la sua Archimede Solar Energy.

Poche speranze anche con il decreto Fer 2

“Fare un po’ di solare termodinamico in Italia poteva essere una palestra per le nostre imprese, per poi puntare sui paesi esteri dove c’è più mercato”, afferma Angelantoni. Secondo lui, il potenziale massimo teorico del CSP nel nostro paese ammonta a 400-500 MW, soprattutto in Sicilia e Sardegna; ma ora è tutto più difficile, anche perché su quasi 30 aziende italiane che operavano nel CSP, quelle rimaste si contano sulle dita di una mano.

“Temo che per il CSP in Italia non si possa fare più nulla”, chiude Angelantoni, “perché quando uscirà il decreto Fer 2 ormai non ci saranno più le autorizzazioni né le imprese italiane del settore”.

L’unica possibilità, forse, secondo Angelantoni, potrebbe arrivare con un decreto che rimane “aperto” con gli incentivi per almeno un paio d’anni, dando così il tempo alle aziende di ottenere permessi e finanziamenti per poi partecipare alle aste; oppure con un decreto che prevede di dare risposte in tempi brevi alle imprese, ad esempio 120 giorni per dire “si” oppure “no” alle richieste di autorizzazione.

Ma conoscendo come solitamente vanno le cose in Italia, quest’ultima sembra un’ipotesi poco plausibile.

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Energia

Quanta energia serve per vivere bene?


Author: Leonardo Berlen QualEnergia.it

Una delle obiezioni ricorrenti di chi nega cambiamento climatico e necessità di cambiare il sistema energetico è questa: “con le rinnovabili non potremo mai dare abbastanza energia ai poveri, così che escano dalla loro condizione”.

In questi casi verrebbe voglia di rispondere “perché, con carbone, petrolio e gas, ci si è riusciti?”.

Ma bisogna riconoscere che questo tipo di argomentazioni tocca un punto importante e trascurato: di quanta energia, non solo elettricità, carburanti e combustibili, ma anche quella contenuta negli oggetti, dai frigoriferi alle toilette, e nelle infrastrutture di base, dalle strade agli acquedotti, avrebbero bisogno i più poveri del mondo per vivere una vita dignitosa?

Solo una volta conosciuto questo livello, allora potremmo veramente valutare se sia raggiungibile o meno dalla produzione energetica.

La risposta alla domanda l’ha appena data, con un articolo su Nature Energy, il professor Narasimha Rao, analista dei sistemi energetici per l’International Institute for Applied Systems Analysis a Vienna.

«Abbiamo calcolato quanta energia servirebbe per dare la possibilità a ognuno dei 3 miliardi di poveri, quelli che vivono con meno di 3 dollari al giorno, di condurre una “vita decente”, intendendo con essa il raggiungimento di tutti gli obbiettivi di sviluppo umano sostenibile previsti dall’Onu per il 2030: dall’eliminare la malnutrizione al dare a tutti abitazioni di buona qualità, dal garantirel’ educazione scolastica a maschi e femmine fino al provvedere infrastrutture di comunicazione per muoversi, informarsi e condurre una vita sociale», dice Rao.

Nel calcolo sono stati quindi inclusi non solo i consumi diretti, ma anche quelli necessari per la coltivazione di cibo per una dieta sana, produzione di oggetti indispensabili a migliorare la vita, funzionamento dei trasporti pubblici e costruzione di strade e scuole e così via.

«Applicando questi criteri a India, Brasile e Sud Africa, tre paesi diversi per clima, economia e situazione sociale, è risultato che per condurre una vita decente, agli indiani poveri basterebbero 3.055 kWh procapite annui, ai sudafricani 4.500 e ai brasiliani 6.100».

Consumi bassissimi, se si considera che l’italiano medio usa ogni anno 35.000 kWh.

E l’analisi risulta ancora più sorprendente se si considera che, in teoria, per ottenere questa “vita decente” per tutti i poveri non ci sarebbe neanche bisogno di aumentare l’attuale produzione energetica in quei tre paesi: i consumi procapite sudafricani sono infatti già di 31.000 kWh annui, quelli brasiliani di 17.000 e gli indiani di 7.000, mentre la media planetaria è di 21.000 kWh.

«Ovviamente nel calcolo dei consumi energetici pro capite finiscono anche attività che non ritornano ai cittadini locali, come l’energia assorbita da miniere, industria, trasporti e agricoltura che lavorano per l’export», precisa Rao.

«E poi, ancora più importante, c’è la disuguaglianza economica: anche in India, Brasile e Sud Africa, moltissimi sono sopra e alcuni molto, molto più sopra dei livelli della “vita decente”. Ma attenzione, i livelli che abbiamo calcolato, non sono il massimo a cui tutti dovremmo aspirare, ma solo il minimo che dovrebbe essere garantito a ogni umano sul pianeta».

E la soglia massima di consumi energetici?

Ma quale sarà, allora quel “livello massimo a cui aspirare”? Conoscerlo sarebbe fondamentale per capire dove si stanno dirigendo i consumi energetici globali, soprattutto ora che, secondo gli economisti della Brookings Institution, oltre il 50% dell’umanità è ormai “classe media” e quindi aspira a livelli di vita simili a quelli dei paesi industrializzati.

Rao e colleghi intendono quantificare quel livello in una futura ricerca, ma una sua valutazione era già contenuta in uno studio del 2016 pubblicato su Energy for Sustainable Development, da un gruppo di ricercatori coordinati dall’economista Iñaki Arto, del Centro basco di studio del cambiamento climatico.

In quel caso Arto e colleghi avevano incrociato due dati: il consumo di energia pro capite delle varie nazioni e l’indice di sviluppo umano dell’Onu, o Hdi, che combina i livelli di reddito, educazione, longevità, salute e socialità negli Stati, in un singolo numero che varia da 0 a 1, con 1 indicante la “società perfetta”.

Per ottenere dati sui consumi procapite più aderenti allo scopo dello studio, ai consumi individuali per elettricità e combustibili, nella ricerca è stata sommata anche l’energia contenuta negli oggetti e servizi che il cittadino medio acquista durante l’anno, così che si possa vedere anche l’energia che consumiamo attraverso le importazioni dall’estero: un indice chiamato “impronta energetica”.

È risultato che le nazioni che hanno basse impronte, hanno anche bassi Hdi, e che aumentando i consumi energetici, vedono anche crescere in parallelo il loro Hdi, a dimostrazione di quanto l’energia sia importante per lo sviluppo umano.

Questo però non accade più in nazioni “sviluppate”, quelle cioè che hanno Hdi superiori a 0,8 (l’Italia è a 0,88): per i loro cittadini medi, aumentare l’impronta energetica, cioè consumare e comprare ancora di più, non serve molto a far crescere lo sviluppo umano.

Così si possono avere nazioni molto sviluppate, Hdi sopra 0,9, con consumi energetici diversissimi: al giapponese medio, per esempio, bastano 54.000 kWh l’anno, contro i 73.000 dello svedese medio e i 98.000 procapite dell’impronta pro capite degli statunitensi, ma non si può dire che giapponesi o svedesi siano “sottosviluppati” rispetto agli americani.

Inoltre, a conferma che i consumi energetici da un certo livello di sviluppo in su non sono più importanti per la qualità della vita, il fatto che negli ultimi anni nelle nazioni con Hdi sopra gli 0,8, lo sviluppo umano è ancora cresciuto, nonostante una diminuzione dell’impronta, grazie alla maggiore efficienza energetica e in economie sempre meno basate sull’industria pesante.

«Tutto questo ci indica che un’impronta energetica pro capite intorno ai 30.000 kWh, cioè quella della Polonia, che ha un Hdi di 0,811 basta per portare a un soddisfacente livello di sviluppo umano», conclude Arto.

Con quale energia soddisfare i bisogni umani

Ma veramente potremo dare a tutti quell’energia, del 50% superiore all’attuale media globale, agli 8 miliardi di abitanti del mondo, o, ancora più arduo, ai 10 miliardi previsti per il 2050?

Certamente con l’80% di energia proveniente dai combustibili fossili attuale, come accade oggi, no di certo: sfasceremmo il clima planetario. Ma la conversione alle fonti rinnovabili offre una speranza di riuscirci.

Prima di tutto perché produrre calore e movimento ad esempio con l’elettricità solare è molto più efficiente che usando carbone, petrolio o gas. Secondo Mark Jacobson dell’Università di Stanford, un mondo a energia 100% rinnovabile, ne richiederebbe il 50% di meno a parità di servizi offerti.

Secondariamente, perché la “offerta solare” è veramente immensa. Per produrre 30.000 kWh per 10 miliardi di persone, considerando 200 kWh l’anno di produzione per metro quadro di pannello solare, servirebbero 1,5 milioni di kmq di terreno coperto da moduli, pari alla superficie di un sesto del deserto del Sahara. Se poi veramente servisse metà energia rispetto ad oggi, ne “basterebbero” 750mila di kmq, cioè come la superficie del Cile.

E visto che, ovviamente, all’energia solare si affiancherebbero poi tutte le altre fonti rinnovabili, sembra proprio che sia questa l’unica strada, veloce e realistica, per dare abbastanza energia a tutti per condurre una buona vita.

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How to gain advanced three phase control with NFC Control Relay today!

Author: Guest Blogger Schneider Electric Blog

Guest Blogger:

Wei Yi CHIA is a product manager in Schneider Electric’s Control and Signaling line of business based in Singapore.

Presently, most of the control and monitoring relays in the market are conventional – meaning they have small printed dials on the front interface for users to do settings and probably an additional clear cover to prevent unauthorized change of settings.

At the most, only 5 dials can be accommodated for users to adjust ranges of controlled values: overvoltage and/or undervoltage thresholds, asymmetry threshold, time delay, hysteresis. Moreover, these coarse adjustments requires a screw driver and also calculations to convert percentage in values and vice versa. It’s not possible to duplicate the same settings from one relay to another.

Having a clear cover does not completely eliminate the risk of unauthorized users changing the settings as they can simply unlock the cover. Needless to say, relays without clear cover are fully susceptible to this risk.

Notably, three-phase control relays are used to protect motors and equipment from expensive damage due to faults on three-phase systems. However, users are unable to directly monitor and analyze the condition of their three-phase systems except through the single LED indicator of the relay output, which only implies if a fault has occurred.

What if now, there is a solution to all these drawbacks?

With the new NFC (Near-field communication) control relay you can now enjoy greater accuracy, security and enhanced monitoring within the palm of your hand.

Say goodbye to analog operation of relays!

Integrating NFC technology into our 3-phase control relays brings digital experience for our users. With a simple tap on their smartphone screen, they can now set precise values for their desired settings, enjoy greater flexibility with two individually configurable outputs coupled with simple logic conditions and duplicate the exact settings to other NFC control relays.

Gain superior security!

NFC provides a secured setting thanks to a 4 digits password. That’s peace of mind since there’s no more risk to tampering the settings.

Experience advanced monitoring!

Empower machine operators or technicians into higher efficiency with the fault diagnostic function embedded in the NFC control relay. At first glance of the LED indicators on the front interface of the NFC control relays, they can deduce the type of three-phase faults occurring at the moment. Furthermore, real time updates and historical fault events of the three-phase systems can be analyzed from their smartphone hence resulting in lesser down-time and minimizing maintenance.

 Start exploring NFC control relay today with the details available here.

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Servizi di smart city, fornitura elettrica e altro ad Airola (BN)


Author: Leonardo Berlen QualEnergia.it

Bando di gara del comune di Airola (BN) per l’affidamento in concessione su proposta del promotore dei lavori e servizi «progettazione, ampliamento, efficientamento e gestione impianti con la predisposizione ai servizi di smart city manutenzione (ordinaria e straordinaria), fornitura di energia elettrica, valorizzazione monumenti e palazzi storici comunali, implementazione impianti e servizi, realizzazione dei relativi […]