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SMA Italia tra i primi 20 “Campioni della crescita 2020”


Author: Leonardo Berlen QualEnergia.it

SMA Italia è stata inserita tra le prime 20 aziende “Campioni della crescita 2020”, indagine dell’Istituto tedesco di qualità e finanza.

SMA Italia è stata inserita tra le prime 20 aziende “Campioni della crescita 2020”.

Si tratta dell’indagine dell’Istituto tedesco di qualità e finanza (Itqf), ente indipendente leader in Europa per le indagini di mercato, realizzata in collaborazione con La Repubblica – Affari e Finanza.

Lo studio ogni anno ha il compito di stilare la lista delle 300 aziende più competitive in base alla crescita media annua registrata. SMA, leader nel campo delle tecnologie per il fotovoltaico, è stata selezionata da una lista iniziale di oltre 10.000 imprese “virtuose”, in base ai risultati del triennio 2015-2018.

Valerio Natalizia, Regional Manager SMA South Europe, ha commentato: “Rientrare in questo prestigioso ranking per noi è un grande riconoscimento del lavoro svolto in questi anni. Siamo orgogliosi di rappresentare uno spaccato d’Italia che cresce, che crea ricchezza e nuovi posti di lavoro. Operiamo in Italia da quasi 15 anni per dare forma all’energia del futuro e siamo riconosciuti dal mercato per l’altissimo livello tecnologico dei nostri inverter, per il nostro profilo consulenziale e per l’assistenza tecnica”.

“Il sigillo ‘Campioni di crescita’ – continua Natalizia – è un’ulteriore prova del nostro impegno, nonché uno stimolo a fare sempre meglio. Siamo molto ottimisti sul futuro del fotovoltaico in Italia e crediamo fortemente che il sole possa rappresentare una fonte di energia primaria e un punto di riferimento determinante per le rinnovabili nel prossimo futuro”.

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I trend globali dell’energia secondo l’International Energy Outlook 2019

Author: stefania Rinnovabili

Ci siamo: è iniziato l’autunno e come ogni anno è arrivato il momento degli outlook energetici presentati dalle maggiori istituzioni del campo. Il 24/09 è toccato alla Energy Information Administration (EIA) l’agenzia statistica e analitica del Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti – che ha pubblicato il suo International Energy Outlook (IEO2019) , mentre il 13 Novembre sarà il turno della International Energy Agency (IEA)  con il suo World Energy Outlook (WEO2019). Secondo EIA, il consumo di energia primaria crescerà di poco meno del 50% – dai 620 quadrilioni di Btu del 2018, alle circa 910 del 2050 – guidato dalla fortissima crescita economica di Paesi come Cina, India e macroregioni come l’Africa ed il Sud-Est asiatico.

I criteri dell’International Energy Outlook

Il rapporto annuale di EIA analizza sul lungo termine i mercati energetici suddividendo il mondo in 16 aree e due macro-gruppi di nazioni, a seconda che facciano o meno parte dell’Organization for Economic Cooperation and Develpment (OECD). Un richiamo alla distinzione tra area OECD e non-OECD è consultabile qui. Le previsioni di EIA includono quattro scenari distinti basati su ipotesi che coprono una ampia varietà di possibili sviluppi del sistema energetico mondiale. Il piatto forte del report è però il reference-case, il canonico scenario che descrive il futuro del settore come business-as-usual, delineandone i tratti partendo dalle attuali condizioni socioeconomiche e contemplando solamente le policies energetiche e di contrasto al cambiamento climatico al momento messe in atto. Nessuna di più. In sostanza il reference-case di EIA tenta di spiegare quale sarà la distribuzione delle fonti primarie e secondarie del sistema energetico mondiale e quanto questo emetterà in termini di gas serra su un arco di tempo che si estende fino a metà secolo, ipotizzando che le condizioni del sistema energetico, industriale, economico e sociale, rimangano esattamente quelle attuali.

Due riferimenti tecnici brevissimi: il rapporto considera per il reference-case una crescita economica ed un aumento demografico medi rispettivamente del 3.0% e dello 0.7% annui. Va sottolineato che l’unità di misura che usa EIA è la British Thermal Unit (Btu), che non appartiene al Sistema Internazionale. Per dare un’idea più concreta delle stime che seguono, si ricorda che 1 Btu = 1.055 kJ = 0.00029307 kWh. Per semplificare la lettura si ricorda anche che 1 quadrilione = 10^24. Chiariti questi pochi punti, entriamo quindi nel rapporto vero e proprio.

Gli usi finali per settore

La prima parte di IEO2019 è come al solito dedicata alle stime sui consumi energetici considerando gli usi finali. Ciò significa che la discriminate della suddivisione delle varie quote dei consumi è il settore economico di riferimento (Industria, Trasporti o Civile). Secondo EIA, il settore industriale – che include attività come estrazione e raffinazione, la manifattura, l’agricoltura o le costruzioni – continuerà a rappresentare la quota del leone dei consumi energetici sugli usi finali, aumentando del 30% il suo peso rispetto ad oggi tra il 2018 ed il 2050, arrivando a consumare 315 quadrilioni di Btu entro metà secolo. Un aumento ancora maggiore (+40%), attende i consumi energetici legati al trasporto; così come per il settore industriale, anche in questo caso i responsabili della crescita monstre sono in gran parte Paesi non-OECD – dove i consumi energetici per i trasporti aumentano a ritmi quasi doppi (+80%). Il settore “building” (il nostro Civile) – che raggruppa strutture residenziali e commerciali – subirà l’aumento maggiore in termini relativi (+65%), indotto dal miglioramento degli stili di vita, dalla crescente urbanizzazione e dal sempre maggiore accesso all’elettricità – dinamiche ancora una volta localizzate prevalentemente in aree non-OECD. La forte crescita su tutti i tre settori richiederà un aumento del 79% nella produzione di elettricità sul periodo considerato.

sector

Credit: EIA

Le fonti di energia primaria

I dati seguenti fanno riferimento alla (Figura 2). La seconda parte di IEO2019 passa poi in rassegna le fonti di energia primaria e secondaria e cerca di stimarne le tendenze fino a metà secolo. Come anticipato – secondo EIA – il periodo 2018-2050 vedrà un aumento considerevole in termini di energia secondaria, dell’elettricità (+79%); a questo si associa una crescita conseguente delle rinnovabili in termini di energia primaria, a dimostrare ancora una volta come lo spostamento progressivo del sistema energetico globale verso l’elettricità, sia fondamentale per il processo di decarbonizzazione. In particolare, l’IEO19 prevede per le rinnovabili – incluse solare fotovoltaico, eolico, idroelettrico, geotermico, biomassa, biocarburanti, etc.- un aumento medio tra 2018 e 2050 del 3.1% all’anno. Per comprendere meglio la rilevanza di questa cifra, è bene raffrontarla con le crescite medie annue sullo stesso periodo dell’uso del petrolio (+0.6%), del carbone (+0.4%) e del gas naturale (+1.1%). Seguendo questi ritmi le fonti rinnovabili diventeranno l’energia primaria più utilizzata in assoluto, superando il gas naturale ed il carbone entro il 2030, ed il petrolio entro il 2050. Secondo EIA, l’uso del gas naturale crescerà di circa il 40% tra il 2018 ed il 2050, mentre l’utilizzo di petrolio ed affini solamente del 20%.

primary energy

Credit: EIA

Le emissioni di gas serra

I dati seguenti fanno riferimento alla (Figura 3). È naturale a questo punto chiedersi, che significa tutto ciò in termini di emissioni di Greenhouse Gases (GHGs) – ovvero di gas serra? Bene, la storia e la statistica ci hanno ormai insegnato che la curva dell’andamento di un PIL (nazionale, continentale o mondiale indifferentemente), tende a sovrapporsi con quella che rappresenta le emissioni climalteranti, riproducendo quindi tendenze equivalenti. Ciò significa che se l’area considerata – nel caso in questione, il mondo intero – cresce al 3.0% medio ogni anno, anche le emissioni dei principali GHGs (CO2, CH4, N2O, SF6 e CFC), aumentano con simili ritmi e medesimi ordini di grandezza. Le previsioni di EIA confermano in pieno questa dinamica: nonostante un energy mix mondiale a ridotta intensità di carbonio, la considerevole crescita economica e di conseguenza dei consumi energetici, non potrà che produrre un aumento continuo delle emissioni energy-related ad un ritmo medio di poco meno dell’1% annuo sul periodo 2018-2050. Ancora una volta salta agli occhi la differenza tra i dati della zona OECD, che vede un (modestissimo) decremento delle emissioni dello 0.2%, e quelli della zona non-OECD che le vede invece crescere dell’1.0% netto sullo stesso arco di tempo considerato.

Credit: EIA

Credit: EIA

Le previsioni di EIA e gli obiettivi dell’Accordo di Parigi

Nella selva di cifre e percentuali che rimangono dopo aver letto l’International Energy Outlook 2019 di EIA, rimangono alcuni concetti particolarmente rilevanti:

  • la solida tendenza dell’industria a spostarsi verso aree del mondo non appartenenti alla dell’Organization for Economic Cooperation and Development (OECD), in particolare Africa, Sud-Est asiatico ed India;

  • la marcata transizione del sistema verso l’elettricità che diventerà il principale vettore energetico;
  • gas naturale, petrolio e persino carbone non accennano a “piccare” entro metà secolo. Al contrario, è attesa una crescita progressiva ed inesorabile;
  • la caduta dei costi, l’aumento dei consumi ed una modesta quantità di politiche messe in atto in alcuni Paesi, determineranno una ascesa relativamente sostenuta delle rinnovabili.

Appare chiaro come, avendo bene in mente gli obiettivi di COP21 – ovvero mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 1.5-2 °C – i findings del report di EIA siano piuttosto deludenti. Si ricorda infatti, che per rispettare l’Accordo di Parigi occorrerebbe ridurre:

  • l’utilizzo del carbone del 59-78% entro il 2030 e del 74-95% entro il 2050;

  • l’utilizzo del petrolio del 3-34% entro il 2030 e del 47-78% entro il 2050;
  • l’utilizzo del gas naturale in percentuali varie e più complicate da stabilire (la variazione è comunque negativa entro il 2050).

Lo scostamento delle stime di EIA rispetto a questi numeri appare plasticamente. Non rimane che capire se i report venturi di altre istituzioni ed enti confermeranno questi trend oppure (più difficilmente), li contraddiranno. Appuntamento quindi al 13 Novembre, con la presentazione del World Energy Outlook 2019 dell’International Energy Agency.

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Riduzione dei consumi: quali priorità?


Author: gmeneghello QualEnergia.it

L’intervento di Dario di Santo, direttore di FIRE, Federazione italiana per l’uso razionale dell’energia.

Secondo la banca dati Odyssee, che va a decomporre la riduzione o l’aumento dei consumi energetici in funzione delle varie componenti (e.g. andamento dell’economia, clima, struttura della produzione industriale, etc.), dal 2000 al 2015 l’Italia ha registrato un calo dei consumi nell’ordine dei 9 Mtep e parallelamente una diminuzione dei consumi legati all’efficienza energetica nell’ordine di 20 Mtep.

Quest’ultimo dato va però a bilanciare quantitativamente tre elementi collegati a un aumento dei consumi, che sono:

  • l’inefficienza dei sistemi (legati ad esempio alla logistica non ottimizzata o alla produzione nel manifatturiero che non raggiunge risultati massimi per ragioni di mercato o altro);
  • la variazione degli stili di vita (e.g. diffusione della climatizzazione estiva, nuovi dispositivi di consumo, uso dei trasporti, etc.);
  • la variazione demografica nel nostro Paese.

Alla fine, la riduzione dei consumi osservata nel Paese è stata dunque legata in buona parte alla crisi economica e alla conseguente diminuzione delle attività manifatturiere e di alcuni impieghi energetici. Questo ci dice che ridurre i consumi da qui al 2030 in presenza di una ripresa economica appare allo stato delle cose improbabile.

Ecco perché come prima priorità occorre promuovere un forte cambiamento attitudinale e comportamentale che investa il mondo manifatturiero (ripensare prodotti, servizi e filiere), il lavoro (smart working, telelavoro, etc.), i trasporti (quando e come mi muovo) e la vita quotidiana (cosa mi fa stare bene veramente, come e dove compro, etc.). È la tematica su cui è fondamentale costruire una collaborazione con i movimenti giovanili sull’ambiente ed è il primo degli spunti per il nuovo Governo.

A rendere l’obiettivo ancora più sfidante c’è la priorità di intervento data a edifici e trasporti, in ragione della necessità di ridurre le emissioni climalteranti del 33% nei settori non sottoposti a emission trading.

La riqualificazione energetica profonda del parco immobiliare esistente comporta un mix di soluzioni che coinvolgono l’involucro edilizio, gli impianti (riscaldamento, raffrescamento, illuminazione, building automation) e la generazione elettrica in loco.

La progettazione, realizzazione e gestione di tali interventi richiede imprese e professionisti competenti e capaci di avvalersi delle soluzioni dell’IoT per proporre progetti che consentano di conseguire il migliore compromesso fra prestazioni e costi e di raggiungere le performance previste nel corso degli anni. La seconda priorità è dunque promuovere e favorire la qualificazione energetica e digitale degli operatori di settore.

Riqualificare gli edifici inoltre costa molto, richiede tempo, e impegna per molti anni i soldi investiti. Due priorità a tale proposito. La prima è fare in modo che, con politiche intelligenti, la riqualificazione energetica si accompagni a una riqualificazione sismica e al miglioramento degli aspetti non energetici (comfort, sicurezza, funzionalità, etc.), in modo da sfruttare tali benefici multipli e conseguire un più consistente aumento di valore degli immobili.

La seconda è che il settore delle costruzioni si industrializzi, consentendo un maggiore ricorso alla prefabbricazione e a cantieri ottimizzati, anche sul fronte della gestione degli scarti.

Intervenire sui trasporti è anche più complicato: non si tratta di riqualificare, ma di rinnovare il parco dei mezzi e, soprattutto, di cambiare le modalità di movimentazione di persone e merci. La priorità in questo caso è di non pensare che la risposta si riduca al passaggio ai veicoli elettrici.

Nei prossimi anni si proporrà inoltre la questione efficienza energetica e/o fonti rinnovabili. La logica vorrebbe che la congiunzione fosse una “e” (riduco i consumi e produco da rinnovabile il fabbisogno rimanente). Il rischio, legato sia alla separazione degli obiettivi europei, sia alla maggiore facilità di vendita di un impianto fotovoltaico rispetto a una serie di interventi lato utenze, è che si realizzi il primo e diventi poi difficile pensare ai secondi (tanto più che il minor costo dell’energia conseguito grazie alla generazione distribuita e la struttura delle tariffe sempre più basata su componenti fisse non aiuteranno).

Se ciò avverrà avremo due problemi: le sanzioni per il mancato raggiungimento degli obiettivi sull’efficienza energetica da fronteggiare e la necessità di installare molti più gigawatt da fonti rinnovabili per raggiungere lo stesso volume di decarbonizzazione.

La priorità è ricordarsi la precedenza indicata dalla Commissione Europea nel nuovo pacchetto clima energia – i.e. prima l’efficienza energetica – che in pratica vuol dire per gli utenti di pensare al potenziale di riduzione dei consumi quando si dimensionano impianti di generazione e per i decisori pubblici che tutte le politiche devono essere pensate con questo obiettivo in testa, in modo da orientare correttamente le scelte di imprese, enti e consumatori.

L’ultimo tema è forse il più importante. In linea con le distorsioni dell’era social, anche il mondo dell’energia soffre sempre più di polarizzazione, fra chi vuole emissioni zero oggi e chi pensa di poter ignorare il cambiamento climatico e le diseguaglianze nel mondo, senza rendersi conto della posta in gioco.

Per portare avanti questa transizione servono tempo – lo dicono la storia e la complessità del sistema energetico, anche se siamo nell’era del digitale, senza contare che il fenomeno va guardato in ottica mondiale, non nazionale – e molti soldi. Sfruttare al meglio ciò che abbiamo a disposizione oggi, invece di demonizzarlo (vedi diesel e risorse di gas naturale), può essere un modo di garantirsi più risorse da poter investire nel cambiamento domani e imprese in grado di giocarvi un ruolo attivo, e meriterebbe dunque un confronto approfondito e razionale, non una guerra di slogan.

L’ultima priorità è dunque riflettere che il meglio è spesso nemico del bene e affrontare con spirito dialogante il dibattito sulle politiche e sugli strumenti.

Per contribuire a queste sfide FIRE sta promuovendo diversi strumenti pensati per imprese e professionisti e volti a favorire un approccio olistico al tema dell’energia, coniugandolo sempre più con il core business, e la mobilitazione dei capitali privati (non si può pensare di raggiungere i target su efficienza e rinnovabili grazie agli incentivi).

Abbiamo inoltre intensificato le collaborazioni a livello europeo e internazionale per diffondere buone pratiche per l’energy management e cerchiamo nelle sedi pubbliche e interassociative di promuovere il dialogo fra le parti. E saremo attivi nel dialogare con il nuovo Governo per ragionare sulle opzioni a disposizione.

L’intervento è stato pubblicato sulla newsletter numero 16 del 2019 di FIRE e sul blog dell’associazione, ripubblicato su QualEnergia.it con il consenso dell’autore e di FIRE.

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Biometano, ridurre i costi è difficile ma non impossibile

Author: redattore Rinnovabili

Lo studio dell’IFRI indica una strada per abbattere i costi del biometano. La scelta, però, è tutta politica

(Rinnovanili.it) – L’Istituto francese di relazioni internazionali (IFRI) ha pubblicato uno studio sul settore del biogas in tre paesi europei (Germania, Danimarca e Italia) mostrando come la partita sulla riduzione dei costi del biometano sia ancora aperta e tutta da giocare. Confrontando il costo per unità, lo studio evidenzia che questo carburante è attualmente da 5 a 6 volte più costoso del gas naturale, il cui prezzo tuttavia è oggi vicino ai suoi minimi storici. Nel tempo, però, il saldo potrebbe spostarsi gradualmente a favore del biometano, ma la sfida sarà tutta politica.

Secondo l’IFRI, gli attuali costi di produzione della versione “bio” del metano si aggirano intorno ai 95 € per megawattora (MWh). Tuttavia, questi costi non tengono conto dei più ampi benefici – come lo sviluppo rurale, la creazione di posti di lavoro e le emissioni di CO2 evitate – che l’IFRI valuta a circa 40-60 € / MWh.

> Gas rinnovabile: con idrogeno e biometano 217 mld di risparmi l’anno<<

Sommando questi benefici nel calcolo, il prezzo complessivo potrebbe scendere a circa 35-55 € / MWh, vicino all’attuale costo medio all’ingrosso di elettricità e non lontano dai prezzi del gas naturale. Integrando queste esternalità, dunque, sarebbe più conveniente produrre biometano localmente piuttosto che importare gas naturale. In altre parole, per quanto possa apparire impossibile che il costo di questo biocarburante raggiunga il costo del gas importato dalla Russia o dalla Norvegia, esso può ragionevolmente rappresentare un’alternativa interessante al gas fossile importato, a condizione che vengano presi in considerazione tutti i più ampi benefici economici, sociali ed ecologici.

Per raggiungere questo obiettivo, però, saranno necessarie misure politiche a livello europeo. Infatti, i costi di produzione dipendono in gran parte dai costi delle materie prime, difficili da abbattere. La principale richiesta dei produttori europei, dunque, si concentra sulle misure di sostegno che potrebbero aiutare a ridurre i costi, soprattutto a fronte dell’aumento della produzione di biogas in Cina, che ad aprile ha annunciato un piano quinquennale per aumentare la quota di rinnovabile nel suo mix energetico.

>Leggi anche Cina: nei freddi inverni si punta sul riscaldamento eolico<<

Bruxelles, inoltre, potrebbe mostrare il suo sostegno includendo il biometano nella tassonomia europea della finanza verde, che al momento esclude qualsiasi altra fonte oltre al vento e al solare. A questo proposito, sarebbe auspicabile che l’European Green Deal annunciato da Ursula von der Leyen contenesse un chiaro impegno sul settore del gas verde, magari adottando uno specifico obiettivo di “decarbonizzazione del gas”.

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Il boom delle centrali a carbone in Asia e la questione dell’acqua


Author: Leonardo Berlen QualEnergia.it

In venti anni le centrali a carbone nel mondo sono raddoppiate in potenza. In gran parte sono in Asia. Ma qui i cambiamenti climatici potrebbero impattare sul loro funzionamento.

Quando Greta Thunberg va nei consessi internazionali ad arrabbiarsi con i grandi della Terra per la loro indifferenza ai problemi climatici, che peseranno enormemente sulla sua generazione e le successive, riceve così tanti (spesso ipocriti) applausi dagli stessi che ha appena finito di maltrattare, e tali fiumi di promesse e rassicurazioni, che sembra che ormai la ragazza non abbia più nulla di cui preoccuparsi.

Poi, però, quando si va a guardare i dati reali, si scopre come stiano veramente le cose: Greta, e noi con lei, veniamo presi in giro.

Per esempio, andando sul sito dell’associazione Carbon Brief che censisce le infrastrutture per lo sfruttamento della risorsa “ammazza clima” per eccellenza, il carbone, si vede come nel 2000 operassero nel mondo 1.065 GW di centrali a carbone, nel 2015, l’anno dell’accordo di Parigi sul clima, erano diventate 1.920 GW, quasi un raddoppio (vedi mappa in alto).

Certamente, viene da pensare, da quel momento in poi il mondo, viste le promesse fatte, avrà certo bloccato questa crescita esponenziale della fonte più dannosa per il clima. Ma niente da fare: fra il 2015 e il 2018 la loro potenza è cresciuta di altri 100 GW (che forniranno praticamente la stessa produzione elettrica dei circa 500 GW di solare installati nello stesso periodo), arrivando a 2.024 GW.

E altri 232 GW sono già in cantiere e 306 GW sono programmati per i prossimi decenni. A parziale consolazione, si prevede che nello stesso periodo si avrà la chiusura di 300 GW delle centrali a carbone oggi in attività.

Per le centrali a gas (che emetterebbero a parità di energia circa la metà della CO2 di quelle a carbone, se non fosse che il metano è di per sé un potente gas serra), non è così facile trovare dati così dettagliati, ma la potenza globale attuale di questi impianti è di circa 1.600 GW, che dovrebbero diventare, secondo la International Energy Agency, 2.700 GW nel 2040.

Insomma, il mondo sembra tutt’altro che intenzionato a mollare i combustibili fossili, neanche nella generazione elettrica, che, fra i vari settori di uso dell’energia, sarebbe pure quello che più si presta alla transizione alle rinnovabili.

È vero che Europa e Usa stanno mollando il carbone (da 324 a 261 GW il primo, e da 174 a 154 GW il secondo tra il 2015 e il 2018), anche se in gran parte programmando di sostituirlo con centrali a gas.

Ma purtroppo non altrettanto sembra voler fare l’Asia: la quota importante dell’aggiunta di centrali a combustibili fossili avverrà lì, specialmente nei giganti demografici Cina e India.

Dal 2000 a oggi la Cina è passata da 200 a 900 GW di centrali a carbone (con un aumento di 150 GW dopo il 2015), mentre l’India da 61 è arrivata ad una potenza di 220 GW (con un aumento di 30 GW dopo il 2015). Inoltre la Cina ha in costruzione o programmate altre 197 GW di centrali entro il 2030, l’India circa 100 e il resto dell’Asia 147 GW.

Quindi, i potenti che rassicurano Greta, almeno finora, nonostante discorsi, manifestazioni, accordi e promesse, sembrano incapaci di contenere la crescita dell’uso dei combustibili che, ormai tutti sanno e ammettono, stanno destabilizzando il clima globale.

Ci riuscirà la natura a fermarli?

Quest’ultima speranza viene da una ricerca condotta dall’ingegnere dell’energia Jeffrey Bielicki, della The Ohio State University, e colleghi, appena pubblicata da Energy & Environmental Science, dove si avverte come, la valanga di centrali termiche, quindi a carbone, ma anche nucleari e a gas, che stanno per investire i paesi asiatici, potrebbero in buona parte finire nei guai per mancanza di quell’acqua che gli è indispensabile per il raffreddamento.

I rapporti fra cambiamento climatico e problemi alle centrali termiche non sono inediti: nella famosa ondata di calore del 2003 in Europa, per esempio, quattro centrali nucleari francesi furono “messe al minimo” (non possono essere “spente” altrimenti il reattore fonderebbe) perché i fiumi che le raffreddavano erano troppo caldi, e questa situazione si è ripetuta nel 2003, 2006, 2015, 2018, e pure nel luglio di quest’anno, quando a chiudere, nel mese dei record di temperatura, è stata la centrale di Golfech, sulla Garonna, quando la temperatura dell’aria ha superato i 40 °C.

Ora Bieliki e colleghi hanno provato ad anticipare cosa succederà al 2030-2040 alle centrali a carbone asiatiche, se le temperature globali salissero di 1,5 °C, 2 °C o 3°C.

Il cambiamento climatico avrà impatto sulle centrali in due modi: diminuirà la disponibilità di acqua in certe aree dell’Asia (e in altre la aumenterà), mentre aumenterà la temperatura dell’acqua disponibile, rendendo più difficile il raffreddamento.

Incrociando gli scenari idrologici e di temperatura, con la presenza di nuove centrali a carbone, la conclusione è che a essere più penalizzati saranno Mongolia, la parte centrale dell’India, le aree interne e meridionali della Cina e soprattutto l’Indocina, Vietnam in testa.

In tutte queste zone il tasso di utilizzazione delle centrali a carbone, diminuirà, rispetto a quello storico, fra il 40% e il 20%, a secondo dei vari scenari.

Ma ci saranno anche effetti opposti o contraddittori: per esempio la Mongolia sarà più penalizzata da uno scenario di risalita delle temperature di 1,5 °C che da uno di 3 °C, perché in quest’ultimo caso quella, che è una regione semiarida, dovrebbe veder aumentate le precipitazioni, invece il Pakistan, il nord della Cina e la costa orientale dell’India, vedranno il fattore di utilizzo delle centrali a carbone migliorare, in tutti gli scenari, fra il 20 e il 40%, per un possibile aumento della precipitazioni.

La conclusione degli autori è che chi pianifica lo sviluppo energetico di queste aree è bene che tenga conto anche di questi fattori.

Nelle aree più a rischio, sarebbe meglio evitare di installare centrali termiche convenzionali, perché (oltre agli ulteriori danni climatici) rischiano in futuro di rivelarsi un pessimo affare per lo scarso utilizzo. Meglio puntare di più su solare ed eolico. Oppure progettarle per l’uso di sistemi di raffreddamento ad aria, che sono comunque più costosi e meno efficienti di quelli ad acqua.

Nelle regioni con più abbondanza di acqua, invece, le nazioni asiatiche potrebbero, e forse dovrebbero, cominciare a prendere in considerazione l’uso di sistemi di rimozione (e successivo stoccaggio geologico) della CO2 dai fumi di queste centrali, visto che questi sistemi, a loro volta, richiedono molta acqua per funzionare, e sarebbero quindi proponibili solo dove la risorsa idrica si sa che resterà abbondante anche in futuro.

Noi invece speriamo in un diverso scenario: che i continui crolli di prezzo delle rinnovabili e dello stoccaggio, mettano del tutto fuori mercato gli impianti a carbone, nucleari e a gas, risolvendo così alla radice i tanti problemi connessi all’installazione di centrali termiche.