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A Cannes 2024 la vera rivoluzione è stata la realtà virtuale

Author: Wired

Ogni anno vi abbiamo raccontato le esplorazioni visive immersive al Festival di Cannes ma solo quest’anno, alla sua 77ma edizione, il Festival si è veramente deciso di istituzionalizzare e dare risalto a questa sezione, affidandole uno spazio ad hoc presso il Cineum (struttura espositiva dagli spazi notevoli, ad appena mezz’ora di bus dal Palais du Festival). È lì che, lontani dal frastuono del red carpet, ci siamo potuti immergere in opere di realtà virtuali potenti, per esplorare i confini dello storytelling immersivo come forma d’arte innovativa e irresistibile.

Così irresistibile che Hollywood dimostra di esserne sempre più attratta: si sono prestate come storytellers e voci narranti dei lavori selezionati da Cannes Immersive Cate Blanchett, Patti Smith, Jessica Chastin, Rosario Dawson, Colin Farrell. Quest’ultimo ha addirittura definito Gloomy Eyes, storia d’amore impossibile tra uno zombie e una ragazza, “una delle cose più belle fatte negli ultimi 20 anni”. Chi scrive ha avuto modo di esplorare (“vedere” è riduttivo) diverse opere, rimanendo stupita da Maya: La nascita di un supereroe della regista e attivista Poulomi Basu con CJ Clarke, che punta a scardinare lo stigma delle mestruazioni, parlando di bullismo e discriminazione, e arrivando a far galleggiare lo spettatore su un fiume di mestruo, che diventa poi una sorta di superpotere con cui affermarsi e difendersi dai bulli.

Fuori concorso impossibile non nominare Sfere, prodotto dal genio di Darren Aronofsky, tre capitoli per immergersi nelle musiche dell’universo, guidati dalle voci di Jessica Chastain, Millie Bobbie Brown e Patti Smith. Esaltante, commovente, rivoluzionario: si può volare tra le stelle, toccare i pianeti per sentirne il suono, smarrirsi in un buco nero come in una supernova. “Per millenni abbiamo guardato le stelle per capire il nostro posto nel universo: per la prima volta ne ascoltiamo la musica”.

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Altro progetto degno di nota presentato a Cannes – al di fuori della sezione immersiva – è Cabiria Experience, un progetto VR ideato da Rai Cinema insieme al Museo Nazionale del Cinema di Torino con l’obiettivo di restituire al film di Giovanni Pastrone, datato 1914, una rinnovata energia e far scoprire alle nuove generazioni quello che viene considerato il primo kolossal del cinema muto italiano. Attraverso l’utilizzo di Unreal Engine, motore grafico 3D sviluppato da Epic Games e utilizzato per videogiochi come Fortnite, e una combinazione di tools di intelligenza artificiale, i primi due capitoli dell’opera originale diventano un corto VR. Sarà proiettato al Museo Nazionale del Cinema e fruibile sulla App Rai Cinema Channel VR attraverso visori VR.

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A Cannes si è visto il capolavoro dell’anno, Emilia Perez

Author: Wired

Oggi, 19 maggio 2024, giorno della presentazione di Emilia Perez a Cannes, tutti i film sulla transizione sessuale girati fino a ora sono di colpo diventati vecchi. Spazzati via da Jacques Audiard che ha appena impostato uno standard più elevato, complicato ed empatico per raccontare il cambio di sesso a partire dalle ossessioni che stanno sempre nei suoi film: la trasformazione, un retaggio di violenza che è impossibile da rimuovere, i personaggi con un passato da dimenticare e il mondo intorno a loro che gli impedisce di farlo. Ma Emilia Perez, come tutti i grandi film, costringe a rivedere anche gli altri dello stesso di Audiard, mostrando come una buona parte in realtà ha sempre parlato di transizione. Sulle mie labbra, Un sapore di ruggine e ossa, Tutti i battiti del mio cuore hanno al centro personaggi che diventano altro, in alcuni casi con delle operazioni, e il cui problema maggiore è non riuscire a seppellire definitivamente la loro vecchia identità.

Qui invece c’è Zoe Saldana, avvocato messicano al servizio di un grande studio, brava ma non considerata, che riceve una telefonata con l’offerta che non si può rifiutare. Dall’altra parte del telefono c’è uno dei più potenti boss della droga, che dopo averla incappucciata e fatta condurre dai suoi uomini in mezzo al deserto, per un colloquio privato di quelli spaventosi, le offre moltissimo denaro per un lavoro che, se vuole quei soldi, deve accettare prima di sapere cosa sia. Lo accetterà e scoprirà la cosa più imprevedibile: il boss vuole diventare donna. Di colpo, il fatto che questo sia anche un musical diventa la seconda sorpresa. Soprattutto già dopo questi primi 15 minuti, Emilia Perez ha superato a destra tutto il cinema underground militante. Un musical su un gangster transessuale è materia da Troma o da cinema sperimentale e budget zero, commedie sovversive indipendenti, magari non proprio impeccabili tecnicamente, ma con la forza di fare quello che il cinema mainstream non osa toccare. Che invece lo abbia fatto un film con grandi attrici, grande produzione e uno dei grandi cineasti viventi alla scrittura e regia, ribalta tutto e rende di colpo per nulla rivoluzionari gli altri.

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Kinds Of Kindness è la summa del pensiero di Yorgos Lanthimos

Author: Wired

Ovviamente non c’è solo questo in questo film molto più sperimentale, radicale e autoriale degli altri, che Lanthimos ha girato in inglese. C’è anche l’altro grande tema che anima le sue storie, cioè la sovversione delle dinamiche di potere (le favorite della regina più potenti di lei, donne sessualmente consapevoli più potenti di uomini, ragazzi che mettono in crisi uomini maturi…), l’unico modo per ribaltare le regole sociali. E soprattutto c’è il sesso come elemento liberatore, sesso non per forza convenzionale, non per forza soggetto alle dinamiche standard. Non è un film narrativo Kinds Of Kindness, almeno non nel senso stretto, ma è un film più piacevole di quelli del periodo greco, in cui Jesse Plemons, Willem Dafoe, Margaret Qualley ed Emma Stone recitano in ognuno dei tre segmenti, e in cui trovano maniere sempre interessanti di interpretare la stranezza di Lanthimos e le sue battute, per rendere in qualche modo umani i suoi personaggi disumani. Non sarà mai questo il film di maggiore successo di Lanthimos, né quello più amato, e del resto non è il suo migliore, ma è la dimostrazione di come, dopo due film da Oscar (La favorita e Povere creature!) sia arrivato, proprio lui, ad avere un potere tale ad Hollywood, da sovvertire l’ordine sociale ed economico che vige lì, e fare ciò che per altri è impossibile, ovvero far produrre a un grande studio (la Searchlight, costola della Disney) un film sperimentale, per nulla mainstream, per nulla commerciale, e totalmente d’autore.

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Megalopolis di Coppola più che un film è un delirio

Author: Wired

Megalopolis era il film più atteso di questa 77ma edizione del Festival di Cannes. Non solo perché segna il grande ritorno cinematografico di Francis Ford Coppola – ultimamente più prolifico come produttore che come regista – ma perché lui stesso ha creato un “hype” notevole parlandone da tanti anni. Un progetto su cui rimugina dagli anni Ottanta instancabilmente, non trovando mai produttori disponibili a scommetterci. Alla fine ha deciso di produrselo da solo, oltre a dirigerlo e, tasto dolente, scriverselo. Il risultato è un film-testamento, che solo un cineasta scatenato di 85 anni innamorato dell’amore e dell’utopia di cambiare il mondo avrebbe potuto concepire.

Megalopolis di Coppola più che un film è un delirio

Ma partiamo dall’inizio, ovvero dal parallelo esplicito tra l’America di oggi e l’antica Roma. Finiremo anche noi vittime del potere di pochi uomini insaziabili come gli antichi romani? Coppola pone questa domanda-tormentone allo spettatore, tornandoci su per tutto il film. Sulle prime sembra un film di fantascienza, con Adam Driver che sta per buttarsi dalla sommità di un edificio tipo Chrysler Building per poi gridare: “Time stop“. Sembra un film sul potere di fermare il tempo, ma subito si trasforma in un gangster-movie ispirato alle vicende – e ai nomi, e ai costumi – dell’antica Roma. Feste promiscue e dissolute, un “Odi et amo” catulliano recitato fuori da una discoteca, corruzione dilagante. Al centro della storia, due uomini di potere si scontrano: da una parte l’archistar progressista Cesare Catilina interpretato da Adam Driver, dall’altra il sindaco conservatore Cicerone, alias Giancarlo Esposito. Nel mezzo la dolce Julia (Nathalie Emmanuel), figlia del secondo attratta dal primo, contesa tra i due. Chi guarda scopre presto la natura ibrida e multiforme di un film mai catalogalogabile e afferrabile: è il pregio e difetto di Megalopolis, un misto indefinibile di tutto, come la materia immaginifica che racconta. Ovvero il “megalon“, materiale tutto da scoprire con cui Catilina intende rifondare una nuova Roma e condurre la società verso l’utopia di un mondo migliore.

Fosse rimasto coerente con l’idea di un gangster movie ispirato alle congiure perverse dell’antica Roma, tra corse delle bighe, lotte di gladiatori, finte vestali e arriviste matrone assetate di potere, con una spruzzata di fantascienza tanto per azzerare i confini tra passato e futuro, Megalopolis avrebbe funzionato. Avremmo sospeso il giudizio sulla rilettura americana della storia romana con tanto di strafalcioni più o meno voluti (come il latino pulcher pronunciato “pulcer”) e lo avremmo accolto come un potente film-manifesto, grazie al discorso sul risveglio delle coscienze che porta consapevolmente avanti. Purtroppo invece si apre come una voragine una digressione sentimentale, comprensibile a livello umano (il film è dedicato a Eleanor Coppola, la moglie del cineasta scomparsa da poco) ma non artistico, perché scompagina la trama e fa deragliare il film altrove. Il racconto si appiattisce nell’esplorazione di un triangolo sentimentale (lui, lei e il padre di lei, chi vincerà?), con derive narrative e visive che mescolano senza criterio realtà e fantascienza, animazione e materiali di repertorio. Il tono della pellicola si risolleva giusto quando affronta temi politici, con uno Shia LaBeouf in stato di grazia nei panni del pazzoide Clodio, populista istrionico e congiurato assetato di potere che riuscirà a togliere la banca al vecchio zio Crasso. E ancora i manganelli, le proteste per la crisi abitativa, un’America ridotta sul lastrico da corruzione e sete di potere.

Adam Driver, quando non interpreta monologhi shakesperiani, si fa portavoce di Coppola stesso: “Abbiamo l’obbligo di fare domande e il bisogno di un dibattito sul futuro a cui ognuno deve prendere parte“. Nobile intento, per un calderone di immagini e narrazione scomposto, delirante, anarchico, a tratti visivamente potente, a tratti involontariamente comico, che rivela senz’altro la smisurata energia creativa di un maestro del cinema di cui un giorno sentiremo la mancanza. Perché, come dice Lawrence Fishburne nel film, “il tempo non aspetta nessuno, proprio nessuno“.