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Them – Loro, The Scare è un horror che non convince

Author: Wired

Them  Loro The Scare è un horror che non convince

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Sembra che Little Marvin, quando menziona l’amore per gli horror anni ‘90, abbia in mente più che altro le pellicole dell’orrore commerciali prodotte negli Stati Uniti. Appare abbastanza evidente dall’allestimento delle scene orrorifiche, dalla mdp che si sofferma su corpi straziati dalla violenza subita, oppure sui volti deformati dall’angoscia e dalla paura di aguzzini e vittime: il produttore predilige una marcata ostentazione, piuttosto sterile e compiaciuta. Di raggelante e brutale c’è la ricostruzione di un passato troppo recente, dove i poliziotti bianchi si avventano con calci e pugni sui sospettati neri, dove gli agenti di colore restano in silenzio, sconvolti e sbigottiti o tentano cautamente di intromettersi. Dove essere donna e nera cala Dawn in uno stato costante di pericolo anche se è un’agente delle forze dell’ordine. Il debito nei confronti della cinematografia di Peele, anche a livello creativo e di impianto visivo è ancora evidente. Non è una critica, la critica risiede nella realizzazione che l’horror di Loro si affida ai cliché. Il terrore risuona come un’esperienza forzata. Little Marvin afferma di amare l’orrore ma non mostra passione, né per la ricerca stilistica, né per la ricerca di qualcosa di innovativo da aggiungere al genere. Più grave, non c’è divertimento nella sua interpretazione della paura. Quello di Loro è un horror che non intrattiene.

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Dead Boy Detectives per noi è un “ni”

Author: Wired

C’è una veemente difformità che serpeggia nello show: per alcuni versi è abbastanza gradevole, per altri vagamente deludente, e questa polarizzazione si rispecchia anche nell’indice di gradimento che i personaggi e relativo cast di Dead Boy Detectives sono in grado di generare. Metà del cast corale è stereotipato, irrilevante e occasionalmente irritante; Esther, David e Thomas vorrebbero essere allegorie di peccati capitali e villain maliziosi e accattivanti, ma sono scontati e noiosi. La scelta di Rexstrew nei panni di Edwin sembra renderlo più lamentoso e insofferente di quanto auspicato dagli autori, e la sua scelta è meno azzeccata rispetto a quella di Ty Tennant, capace di rendere il protagonista amabilmente detestabile. Revri è invece un attore naturalmente carismatico e e funziona meglio nei panni di Charles rispetto all’infantile Sebastian Croft. La Crystal Palace di Kassius Nelson è più che trascurabile se non fosse che il suo è un personaggio chiave per l’economia della storia e le dinamiche dei protagonisti, come lo era Lucy in Lockwood & Co, e Annie in Being Human Uk (Sally nella versione Usa).

DEAD BOY DETECTIVES.  Yuyu Kitamura as Niko Sasaki and Kassius Nelson as Crystal Palace in episode 8 of DEAD BOY...

DEAD BOY DETECTIVES. (L to R) Yuyu Kitamura as Niko Sasaki and Kassius Nelson as Crystal Palace in episode 8 of DEAD BOY DETECTIVES. Cr. Ed Araquel/Netflix © 2023

Anche di più, in realtà, considerato che l’amicizia di Crystal con Charlie insidia quella con Edwin movimentando gli equilibri tra i protagonisti. Accanto a lei orbitano Jenny e Niko, opposte per carattere, personalità, aspetto e look eppure egualmente adorabili. Gli stessi alti e bassi nella qualità della serie si rilevano anche in altri ambiti, a partire dalle sceneggiature: i casi sono molti carini o molto insulsi, egualmente suddivisi in interessanti e superflui. Il tenore delle puntata va di conseguenza, con un pilota e una penultima puntata più riusciti e altri che lasciano perplessi. È, tuttavia, la decisione di trasferire i dead boy da Londra a Washington la più controproducente: quando si tratta di storie dell’orrore, gotiche o soprannaturali, pochi luoghi (e pochi accenti) portano con sé l’atmosfera perfetta come la capitale britannica (e il resto di Albione). In questo senso, le americane Sleepy Hollow e Grimm hanno fatto, rispettivamente, molto peggio e molto meglio. Concluso l’ultimo episodio, non siamo convintissimi, ma un’occhiata alla seconda stagione – se ci sarà – la daremo.

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Another End, ovvero quando la tecnologia aiuta a superare il lutto

Author: Wired

Another End del regista Piero Messina, presentato in anteprima in concorso all’ultima Berlinale e il 19 marzo al Bifest, arriva nei cinema il 21 marzo. Il film racconta la storia di Sal (Gael García Bernal), in lutto per la morte della moglie, morta in un incidente stradale mentre lui era alla guida dell’auto.

Sua sorella Ebe (Bérénice Bejo) gli suggerisce di ricorrere alla compagnia per la quale lavora e che promette la possibilità di vivere un’altra fine con la persona cara alla quale non si è stati in grado di dire addio in modo appropriato. Un seconda chance resa possibile da una tecnologia in grado di “caricare” i ricordi, la coscienza di chi non c’è più nel corpo di un’altra persona per un tempo sufficiente a fare pace con la loro scomparsa.

Dopo aver superato le perplessità iniziali, Sal acconsente, ma in breve tempo comincia a provare attrazione per la donna che ospita la coscienza della moglie e a essere curioso della sua vera vita. Fino al finale a sorpresa che ribalta quello che lo spettatore ha creduto fino a quel momento.

Il mio personaggio in un certo senso è simile ad altri che avevo già interpretato, ma la storia, nel suo insieme, è molto originale. Al centro c’è un mondo che non esiste ma che potrebbe diventare reale presto”, dice la Bejo. Che, alla domanda scontata se lei ricorrerebbe una tecnologia del genere nel caso fosse disponibile, ribatte: “Me lo sono chiesta e la mia prima risposta è stata un no assoluto. Poi, ci ho ripensato… Non lo so con certezza. Ma la questione è: che cos’è la coscienza? Quella vocina che parla nella nostra testa? Non lo sappiamo e non penso che si arriverà a scoprirlo presto. C’è ancora un dibattito rispetto agli animali: chi dice che hanno una coscienza, chi lo nega assolutamente. Se mai qualcuno troverà una verità scientifica, quel giorno è lontano. E io non credo che ci sarò più”.

Che cosa ci rende le persone che siamo, qual è il peso dei ricordi nella somma che determina l’identità di ciascuno di noi, ma anche che cosa amiamo dell’altra persona, quanto incide l’aspetto fisico, per esempio, e di quanto tempo abbiamo bisogno per dire addio per sempre alle persone care? Sono alcune delle tanto domande che il film pone. Ma anche quesiti sul rapporto stesso che tutti noi nella quotidianità abbiamo con la memoria.

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La vera sorpresa di Ricky Stanicky è John Cena

Author: Wired

Nonostante Ricky Stanicky sia un film di escapismo totale, che venderebbe sua madre per una battutaccia e che quando non vuole far ridere affoga tutto in una melassa fastidiosa, dietro c’è qualcosa. E quel qualcosa, c’è da stupirsi a scriverlo, va attribuita a John Cena che già aveva mostrato una buona versatilità nella serie Peacemaker. La maniera in cui interpreta Stanicky consente il salto in avanti. Questo personaggio è un disperato che mette tutto in questa interpretazione per cambiare vita, sembra non temere mai di essere scoperto (cosa che invece terrorizza gli amici e fa ridere noi) ma Cena lo interpreta con un tale desiderio di cambiare, una tale voglia di essere migliore, di conquistare una purificazione e un’altra vita, reale, stabile, onesta e addirittura sentimentale, che è contagioso. Fa ridere, certo, ma c’è una grandissima umanità negli occhi di John Cena che esprime un continuo entusiasmo per un’impresa che è convinto riuscirà. Non è difficile finire anche noi a desiderarlo.

E forse, proprio in questo filmettino divertente da piattaforma, c’è uno dei molti segreti del cinema tutto. Cioè è espressa l’idea che le bugie che ci raccontiamo non finiscono nel vuoto, le bugie creano una realtà finta che alle volte influenza quella vera, hanno un effetto su di noi e si può finire a crederci così tanto da farle avverare. È quello che capita a questo attore che a un certo punto desidera non solo interpretare Ricky, ma proprio essere Ricky per sempre, ed è quello che capita alle volte con i film migliori, che sono falsità, bugie, storie inventate ma dentro hanno qualcosa di così vero che ci colpisce e, nei casi migliori, fa venire voglia di essere diversi, più simili a quel che si è visto.

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Abbiamo visto in anteprima Supersex, la serie che racconta la costruzione del mito di Rocco Siffredi

Author: Wired

Diciamolo subito: portare sullo schermo una serie su Rocco Siffredi era un azzardo già sulla carta. Come si può raccontare la parabola di un pornodivo di fama mondiale – vivente, dettaglio non trascurabile – nonché di un uomo ha fatto del corpo il suo mestiere? Risponde Netflix con Supersex, nuova serie in sette episodi diretta da Matteo Rovere, Francesca Mazzoleni e Francesco Carrozzini, presentata oggi in anteprima mondiale alla 74ma Berlinale e dal 6 marzo disponibile sulla piattaforma.

Avvertenza: nei primi tre episodi – quelli mostrati al Festival – viene dato più spazio all’emotività che all’eros, raccontando come il piccolo Rocco sia diventato il fenomeno Siffredi, scoprendo tra le gambe un “super potere” che è stato dono e condanna della sua vita. Un poderoso flashback sulla sua infanzia presenta al pubblico un ragazzino vivace, poco considerato dalla madre e molto dallo scapestrato fratellastro Tommaso. La fratellanza è il valore portante di questo primo terzetto episodico, fin da quando Rocco adulto superstar sembra scorgere tra il pubblico il fantasma di suo fratello. Il flashback è teso a inquadrare la genesi del loro rapporto e approfondirlo, con tanto di “battesimo” di virilità del fratello maggiore sul minore, le prime esperienze sessuali condivise, gli abbracci, i baci, le pipì open air e l’affetto minaccioso. La scoperta del superpotere arriva anche grazie a un “giornaletto” (il Supersex del titolo, rivista di fotoromanzi porno in voga all’epoca) in cui Rocco trova conforto dai problemi di ogni giorno, e da lì cambia tutto.

Supersex abbiamo visto in anteprima la serie che racconta la costruzione del mito di Rocco Siffredi

Lucia Iuorio/Netflix © 2024