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Il “protocollo Cologno Monzese” dei funerali di Berlusconi

Author: Wired

No, i funerali di Stato di Silvio Berlusconi non sono stati il massimo tributo che l’agiografia dell’ex Cavaliere vi racconterà. Nonostante la volontà del governo Meloni di riservargli esequie di livello nazionale con tutti gli annessi e connessi, l’addio all’ex presidente del Consiglio è stata piuttosto una mesta calata del sipario e non per la contrizione dei presenti. Un viale del tramonto di gente che pensavamo di aver dimenticato. Un inchino anchilosato al capo partito e capo azienda, che traduce la regalità dell’operazione London Bridge in un nostrano “protocollo Cologno Monzese” (dove chi scrive è cresciuto), con la passerella dello showbiz a compensare le assenze della politica internazionale.

Non si sono scomodati invero in molti, dal mondo, a venire a Milano a tributare l’ultimo saluto a quello che è stato, numeri alla mano, l’inquilino che ha occupato più a lungo Palazzo Chigi nella storia della Repubblica italiana. Il presidente dell’Iraq. I reggenti di San Marino. L’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, che aveva fatto un pensierino sul Milan e su Villa Certosa. Il primo ministro ungherese Viktor Orbàn, che non è proprio il miglior amico che puoi volere in Europa. Quello che nelle ultime ore è stato dipinto come un imbattibile statista internazionale e artefici di altri mirabolanti capolavori a seconda della memoria di chi snocciola racconti è accolto in un clima quasi da stadio, con i cori alternati dei tifosi del Milan e di Forza Italia, in una piazza Duomo piena ma non pienissima e svuotata dal caldo insopportabile.

Il “protocollo Cologno Monzese” è una celebrazione del presidente uno e trino. Del partito, dell’azienda, delle squadre (Milan e Monza). La diretta del feretro in viaggio da Arcore, tallonato da camera car ed elicottero mentre svicola nel traffico tra Monza e Milano come fosse la volata finale del Giro d’Italia. Il riemergere di generazioni di “azzurri” e affini, alleati e non, che scandiscono le stagioni di 30 anni di politica e che, in base al numero di giornalisti che si affannano per fermarli, capisci se sono ancora sulla cresta dell’onda. Le corone di fiori: quella di Belen, quella della famiglia Ghedini del suo storico, l’onore delle armi riconosciuto dalla Rai.

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Asteroid City di Wes Anderson: un alieno (non) ci salverà

Author: Wired

Un drammaturgo ricrea su un palcoscenico teatrale una cittadina desertica nel bel mezzo della Monument Valley americana, Asteroid City, dove si fanno continui testi di bomba atomica e studi astrofisici di alto livello. Siamo negli anni 50, un prologo, tre atti, e un epilogo ci raccontano una famiglia reduce da un lutto, un’attrice intenta a provare le sue scene e un’intera comunità alle prese con un inaspettato (quanto simpatico) incontro del terzo tipo.

Asteroid City di Wes Anderson un alieno ci salverà

Nel cinema di Wes Anderson arriva un alieno, e nessuno si stupisce perché il suo cinema è sempre stato alieno, outsider, felice portatore sano di diversità variopinte. In questa sua nuova opera, che lo vede tornare in concorso a Cannes due anni dopo The French Dispatch, inserisce tutti i temi, gli attori, gli elementi e i colori che gli sono più cari. Ci troviamo di nuovo di fronte a un film dalla maniacale cura formale, in cui ogni dettaglio e colore è assolutamente voluto e studiato, interpretato da un cast insieme corale e stellare.

Agli attori cari al regista dei Tenenbaum Jason Schwartzman, Adrien Brody, Tilda Swinton, Edward Norton, Willem Dafoe, Jeffrey Wright, Liev Schrieber e Rupert Friend si aggiungono Tom Hanks, Steve Carell, Scarlett Johansson, Bryan Cranston, Steve Carell, Margot Robbie, Hope Davis e Matt Dillon. C’è solo l’imbarazzo della scelta, ogni film di Anderson andrebbe visto anche solo per scoprire la nuova performance che ognuno di loro riesce a offrire alle prese con il proprio bizzarro personaggio di turno. Ironia della sorte – cioè di Wes Anderson, perché nulla sul suo set è lasciato al caso – stavolta a rubare la scena a tutti è un alieno che appare pochi minuti e resta più impresso di tutti.

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In Killers of the Flower Moon, De Niro è il Padrino, anzi, il re

Author: Wired

In Killers of the Flower Moon De Niro è il Padrino anzi il re

Melinda Sue Gordon

Finisce in mezzo al machiavellico piano il povero Ernest Burkhart, reduce dalla prima guerra mondiale con tanta voglia di metter su famiglia e iniziare una nuova vita. Lo farà, innamorandosi di Mollie (una Lily Gladstone da Oscar) e credendo di far parte di una famiglia, senza mai accorgersi pienamente di essere soltanto una marionetta nelle mani del grande burattinaio, lo “zio” Hale, determinato ad attuare il suo piano diabolico (di sterminio, diciamolo pure) ad ogni costo, nel nome del dio denaro (o petrolio).

Basandosi sull’omonimo libro-inchiesta del 2017, scritto dal giornalista americano David Grann, Scorsese si concede il lusso di firmare un film-denuncia sull’avidità, la corruzione, il razzismo e la malvagità del popolo americano a discapito dei nativi senza mai rinunciare neanche un istante allo spettacolo puro, al respiro grande, estetizzante, evocativo e pieno di passione degno del suo migliore cinema.

Un crime epico, poetico e violento al tempo stesso, con un cast grandioso (Jesse Plemons e Brandan Fraser sono titanici in due ruoli “minori”) in cui come al solito spicca Leonardo Di Caprio. L’attore, che non ha mai sbagliato un ruolo in vita sua e deve molto alla cinematografia di Scorsese, qui firma l’ennesima performance memorabile, nei panni tutt’altro che eroici dell’americano un po’ tonto un po’ arrivista, complice suo malgrado di un destino sanguinario molto più grande di lui.

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Fast X rappresenta il momento in cui una saga invecchia

Author: Wired

È successo qualcosa all’epoca del capitolo ambientato a Rio de Janeiro, qualcosa di cui nessuno sapeva niente ma che oggi, anni dopo, torna a chiedere il conto. La famiglia allargata costituita da amici, sodali e nemici diventati amici di Dominic Toretto è in pericolo come in una nuova puntata di un cartone animato e tutti sono richiamati all’azione per tirarsi fuori dai guai a vicenda, in un turnover di “essere prigionieri” e “venire salvati”. Niente di strano, è la dinamica base di Fast & Furious a cui questo film aggiunge la profondità della storia vissuta lungo tutti gli altri film. Come sempre al cinema il guardare ai capitoli precedenti e mostrare vecchie scene, mettendo in scena le star quando erano più giovani (nel caso delle scene nuove ambientate nel passato sono ringiovaniti digitalmente) è anche un modo per il pubblico per ricordare se stesso, il proprio passato e l’epoca di quei film, un effetto nostalgia al quadrato. La “familia” Toretto, il concetto ossessiona i personaggi, è ovviamente anche la “familia” dei fan di Fast & Furious, invecchiati con loro, sono il clan che ne sostiene il successo e che il film coccola.

La nuova aggiunta è Jason Momoa, cattivo cattivissimo con desideri di distruzione totale e un dente avvelenato proprio con Dominic Toretto e la sua familia felice (andando a vedere la sua storia forse ha anche ragione), malvagio uomo muscolare che non mostra mai i muscoli, anzi! Come noto Fast & Furious è il regno del testosterone, una specie di isola che sembra non essere stata toccata dalla revisione dei rapporti tra uomini e donne nel cinema, e ragiona e si propone come i film di prima degli anni 2000. Proprio per questo solo qui un cattivo può essere l’unico a professare apertamente una sessualità liquida, solo qui si può mettere una accanto all’altra una scena in cui si propone come l’opposto del virile e un’altra in cui fa il pazzo, macabro e spietato. Solo qui insomma si può associare malvagità a sessualità non etero. Il mondo è così diverso oggi che sembra di guardare un film di 30 anni fa.

Fast X rappresenta il momento in cui una saga invecchia

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Guardiani della Galassia: con loro se ne va l’anima del Mcu

Author: Wired

Salutare i Guardiani della Galassia non sarà facile, non per gli spettatori che, in questi anni, in loro hanno trovato dei personaggi da amare incondizionatamente, totalmente, in virtù delle loro imperfezioni, della loro grandissima umanità, ma soprattutto dal loro appartenere ad un universo incredibilmente variegato e sorprendente. James Gunn si congeda definitivamente con il suo film più cupo, per certi versi anche il più maturo, quello anche più citazionista. Già sentiamo che ci mancherà, ma mai come ad una Marvel in grossa crisi di identità.

L’ultima avventura di una famiglia di reietti che ci mancherà

I Guardiani della Galassia aveva fornito sostanzialmente in solitaria l’opportunità alla Marvel di avere un’autorialità vera, fatta e finita e a tutto tondo. Questo pur tenendo conto di altri film tutt’altro che banali come Captain America: the Winter Soldier, il suo seguito Civil War, e potremmo aggiungere anche il primo Iron Man di Favreau. Ma lui, e solo lui, James Gunn da St. Louis, è emerso come figura di spicco tra chi, dietro la macchina da presa, ci ha guidato dentro questa serialità cinematografica unica nel suo genere. Il primo film rimane ancora oggi il più amato e ricordato, fu una vero e proprio fulmine a ciel sereno, illuminò la Marvel di una luce in cui fluttuava il meglio della pop culture, della narrazione come si faceva una volta, della sperimentazione visiva e narrativa più spericolata. Da un certo punto di vista non è neppure sbagliato sostenere che la rinascita del cinema di genere per le masse, debba moltissimo proprio a Gunn, alle avventure di questa tenera banda di sfigati, questa sorta di armata Brancaleone tra le stelle, in tre film molto diversi l’uno dall’altro ma capaci di diventare mito popolare.

Il gran finale de i Guardiani della Galassia comincia con la depressione di Peter Quill (Chris Pratt), che non accetta di non avere più Gamora (Zoe Saldana) nella sua vita, visto che la versione giunta alla fine di Endgame è non ha nessuna intenzione di avere a che fare con lui e con la sua stramba famiglia di avventurieri. L’irruzione sulla scena del giovane Adam Warlcock (Will Poulter), mandato dai Sovereign per recuperare Rocket (Bradley Cooper), lascia l’amato procione in fin di vita, costringendo Peter e gli altri ad una mission impossible contro la Orgocorp.

Avengers Infinity WarAvengers: Infinity War è stato l’apice del Mcu

Il 23 aprile 2018 l’anteprima di un cinecomic diventato il simbolo di un percorso cinematografico incredibile, oggi purtroppo perduto

Sarà solo l’inizio di un’avventura molto particolare, che costringerà i Guardiani a confrontarsi con il passato traumatico e terribile di Rocket, ma soprattutto contro un nuovo, spietato nemico: l’Alto Evoluzionario (Chukwudi Iwuji). Questi è una sorta di genio del male e della sperimentazione genetica più abietta, individuo potentissimo e privo di ogni moralità. Tra confessioni, battaglie spaziali, scazzottate e il solito casino che li contraddistingue, il gruppo dovrà affrontare anche radicali cambiamenti, addii e un punto di non ritorno per quello che riguarda il gruppo di avventurieri più strambo della Galassia.

I Guardiani della Galassia con questo terzo episodio arriva con un obiettivo tutt’altro che semplice: risollevare le sorti nella fase cinque della Marvel, dopo il calo vistoso della 4 e il pessimo inizio della 5 con Ant-Man. Questo riguarda non solo il botteghino, ma anche la soddisfazione del pubblico, il consenso della critica, entrambi ormai palesemente poco presenti da tempo. Questo terzo film assolve il suo compito, lo fa in modo sorprendentemente maturo, ma soprattutto accettando di confrontarsi a viso aperto con tematiche come la perdita, il senso di colpa, ed il cambiamento in particolare, che significa qui accettare che nulla nella vita rimane uguale, neppure le cose belle. Il risultato finale è senza ombra di dubbio potente, coinvolgente, al netto però di alcune imperfezioni che lo rendono sicuramente meno riuscito rispetto al primo, benché più coerente a livello di ritmo e di struttura narrativa del secondo.
Si continua a ridere, ma è un umorismo agrodolce, meno tambureggiante che negli altri due. Questo anche perché Gunn qui ha optato per uno sviluppo della trama lontano dal lineare, ma soprattutto per offrirci dei personaggi che non sono più gli stessi che avevamo conosciuto. Il cambiamento appunto, come si diceva.

Un film di formazione a tratti cupo e malinconico

Il film gode fin dal principio di un cattivo molto convincente. Certo, non è un volto molto noto al grande pubblico, ma Chukwudi Iwuji svolge il suo compito in modo egregio, regalandoci un villain di una malvagità pura, adamantina, un megalomane schizzato, variazione interessante del concetto di mancanza di empatia applicata all’ideologia più radicale. Non ha il gelido charme di Kang il Distruttore, che è stata l’unica nota positiva di Ant-Man, grazie al freddo charme di un bravissimo Jonathan Majors, però è più affascinante nella sua concezione della vita umana meccanica e priva di libero arbitrio. In lui risplende una pari volontà di essere fabbro di un universo impossibile, che però abbraccia maggiormente la scienza della politica. Il centro dell’azione è il passato di Rocket, che Gunn ci illustra come una sorta di inferno distopico, dalle tinte fortemente horror, un mix tra John Carpenter e Papillon per intenderci. Vi è un connettersi al dramma esistenziale più profondo, con un contrasto tra il concetto di singolo e quello di collettività, che si fa sempre più marcato a mano a mano che il tempo scorre.

Il miracolo di James Gunn è quello di guidarci per mano mentre ci ricorda che i Guardiani della Galassia non sono diventati una famiglia per caso, ma reietti, esseri spezzati, segnati nel profondo e quindi capaci di comprendersi. Impagabili gli scambi di battute tra Drax e Mantis, con Chris Pratt che continua a decostruire l’eroe classico, la Nebula di Karen Gillian che è protagonista di un percorso di completamento emotivo molto interessante. Certo, a voler trovare un difetto evidente, Adam Warlock appare fin troppo depotenziato e modificato, reso una sorta di Bart Simpson con i superpoteri, a lungo andare risulta anche abbastanza fastidioso.