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Enea è Pietro Castellitto che alza il tiro e le ambizioni

Author: Wired

È piccola criminalità da salotto, un traffichino romano in erba che cerca qualcosa di più dalla vita. Siamo abituati a film italiani che sono una cosa sola. Alle volte lo sono bene (e ci piacciono), altre lo sono male. Ma sono quasi sempre una cosa sola. In Enea c’è continuamente un dettaglio fuori posto e fuori asse che tuttavia non rende il film brutto, anzi, quel qualcosa che non sappiamo identificare ma che non va, gli dà fascino. Perché è un film che non sta lì a fare di tutto per piacere ma vuole battere una sua strada. Nonostante in più momenti, e specialmente nella seconda parte, perda in velocità e ritmo e cominci a vagare con il senso, sempre meno a fuoco e sempre più esagerato con gli eventi, è di certo un film che è tante cose insieme, anche contraddittorie. E mentre mostra una storia che altrove sarebbe usuale, esce sempre più forte la sensazione che questi protagonisti siano in cerca di qualcosa che non sanno nemmeno loro identificare. Più fanno festa, più sembrano soddisfatti dello status raggiunto, più ci appaiono amari e mesti, in corsa verso un finale duro.

Si veda come rappresenta la famiglia, che è forse il tema più raccontato dal cinema italiano. Qui è un’alcova che tiene i figli bambini, che propaga se stessa, che massacra la piena realizzazione di ognuno, eppure non è solo quello, è anche un clan. Si guardi come rappresenta un 30enne: Enea pensa che nella vita si debba vincere e il locale o la cocaina sono mezzi per vincere, non ha una morale propriamente detta anche se la cocaina ha smesso di tirarla da quando ha conosciuto una ragazza (Benedetta Porcaroli) e ha intenzione di sposarla. Gli italiani tradizionali sotto altre vesti, quelli che si professano attaccati ai grandi valori, aggiornati solo in superficie ad una vita moderna ma che poi non hanno una chiarissima idea del mondo che li circonda. E per questo fanno ridere. Banali come poche altre cose.

Enea è Pietro Castellitto che alza il tiro e le ambizioni

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Al festival di Venezia il film-testamento di William Friedkin

Author: Wired

Nella storia raccontata da William Friedkin, l’avvocato della Marina americana Barney Greenwald (Interpretato da Jason Clarke) assume controvoglia l’incarico di avvocato difensore di Steve Maryk (Jake Lacy), primo ufficiale che deve affrontare la corte marziale per il reato di ammutinamento nei confronti del suo capitano, Phillip Queeg (Kiefer Sutherland).

Durante una tempesta i due si erano trovati in disaccordo sulla rotta da tenere per salvare nave ed equipaggio, ed è a quel punto che il primo ufficiale aveva comunicato di volersi avvalere della possibilità, prevista dal regolamento della Marina, di assumere il controllo nel caso che il comandante dimostri di non essere nel pieno delle sue funzioni mentali, insomma, in caso di “impazzimento”.

Il problema è che Queeg ha alle spalle una lunga carriera immacolata e che, i testimoni e gli esperti convocati in aula, non sembrano avallare la presenza di nessun sintomo di malattia mentale. O almeno così sembra…

Un successo lungo 70 anni

The Caine Mutiny Court-Martial di William Friedkin, che prossimamente verrà rilasciato su Paramount+, è arrivato postumo al festival del cinema di Venezia.

Il regista è morto il 7 agosto a 87 anni, pochi giorni dopo l’annuncio della sua presenza (fuori concorso) al festival che, tra l’altro, gli ha riservato anche un omaggio con la riproposta del film L’esorcista, a cinquant’anni dalla prima uscita.

Il film è ambientato tutto all’interno dell’aula di tribunale dove si svolge il processo ed è solo dialogo e praticamente zero azione, mettendo in evidenza soprattutto la bravura degli interpreti. Un impianto da palcoscenico non a caso, perché The Caine Mutiny Court-Martial era nato come testo per il teatro.

La prima messa in scena del dramma scritto dal premio Pulitzer Hermon Wouk risale al 1953 e fu un successo. Lo spettacolo venne riproposto in tour in giro per gli Stati Uniti fino all’approdo a Broadway l’anno successivo.

E, successivamente, ne fu tratto anche un film, nel 1954, interpretato da Humphrey Bogart e, quindi, nel 1988, un altro film, questa volta per la Tv, diretto da Robert Altman.

L’ambiguità del bene e del male per Friedkin

Da tempo William Friedkin aveva in mente una sua versione del testo – che ha reso più contemporaneo ambientandolo nel 2022, invece che durante la seconda guerra mondiale – di cui lo affascinava l’ambiguità nel confine tra bene e male, tra giustizia e ingiustizia che, poi, è sempre stato un tema ricorrente nei film del regista.

E a tenere avvinto il pubblico è proprio il giudizio altalenante: le varie deposizioni forzano lo spettatore a prendere di volta in volta l’una o l’altra posizione. È possibile che il comandante Queeg avesse davvero perso la ragione o, comunque, il senso della realtà? E non solo durante la tempesta, ma da tempo, come farebbero pensare certe sue bizzarre ossessioni e la sua attenzione maniacale per l’ordine e la forma? Oppure il primo ufficiale si è lasciato sopraffare dalla paura e ha agito d’impulso?

La risposta arriverà solo quanto l’avvocato difensore chiamerà in aula a testimoniare lo stesso Queeg.

Ma il vero finale, a sentenza emessa, è ancora più sorprendente e costringe ancora una volta lo spettatore a rimettere tutto in discussione.

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Anche in un film imperfetto, Sofia Coppola trova il suo mondo

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La parte stupefacente dei film di Sofia Coppola è come riesca a mostrare qualcosa dell’animo delle ragazze così intimo e profondo che gli altri cineasti e cineaste non sembrano nemmeno conoscere, figuriamoci poter raccontare! Ci riesce anche nei film non riusciti, come Priscilla, è proprio una capacità di comprensione di quell’animo unita a una capacità altrettanto grande di racconto. Anche per questo, alle volte e solo per la durata dei suoi film, si può avere l’impressione che i suoi siano i soli film al mondo che parlino realmente dell’essere donna.

È un’iperbole, ma nemmeno troppo. Come tutti grandi registi e registe, Sofia Coppola racconta sempre un mondo interiore molto specifico, cosa significhi essere donna (e molto spesso diventare donna) in mondi amplificati, particolarmente grandi, particolarmente stringenti, particolarmente potenti, come se in quelle situazioni emergessero con maggiore evidenza questioni e problemi che si trovano nelle vite di tutte. E in quello non la batte nessuno.

Così anche Priscilla, la storia della prima moglie di Elvis Presley, è un film che già sulla carta è perfetto per lei. La trama adatta l’autobiografia della stessa Priscilla Presley, quindi è la sua voce e il suo punto di vista sul tempo che ha passato con Elvis, dai 15 ai 27 anni. Il film inizia quando lo conosce e finisce quando lo lascia. Anche per questo (è facile immaginare) in Priscilla non ci sono le musiche di Elvis, perché la famiglia non ha acconsentito all’uso. Un film approvato dalla protagonista ma non dalla famiglia dell’ex marito. Non ne esce benissimo infatti Elvis, per quanto essendo un film di Sofia Coppola, la visione sia molto complicata e non a senso unico.

Sofia Coppola trova il suo mondo anche in un film imperfetto come Priscilla

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The Killer: David Fincher torna con un thriller immersivo

Author: Wired

Quando si parla di registi che non sbagliano un colpo si parla di David Fincher. Dopo i suoi vari (e memorabili) Se7en, Fight Club, Zodiac, The Social Network, Millennium e Gone Girl, porta adesso in concorso a Venezia The Killer, con Michael Fassbender e Tilda Swinton.

Un thriller tesissimo diviso in sei capitoli, tratto dalla graphic novel di Alexis Nolent e scritto da Andrew Kevin Walker di Se7en. Si regge in gran parte sulla performance di Fassbender, concentrato e algido più che in L’uomo di neve nei panni del sicario senza nome, un uomo assoldato per la sua maniacale precisione a uccidere e il suo talento a non lasciare tracce. Si mimetizza a Parigi con cappello e occhiali scuri, mirando a confondersi tra la folla e allenandosi a essere invisibile, cosa non facile nel 21mo secolo, sottolinea Fincher.

David Fincher torna con un thriller immersivo The Killer

Courtesy of Netflix

Il segreto del killer perfetto

Lo svela e ripete lui stesso fino allo sfinimento, come un mantra da tenere bene in mente nei momenti cruciali. Essere vigile, calmo ma sempre in movimento, non lasciare traccia ai “folletti” (agenti), nè alle telecamere. Non servire un dio, un Paese o una bandiera. Non provare empatia, che rende deboli e quindi vulnerabili. Giocare d’anticipo, non improvvisare, non fidarsi di nessuno, essere efficiente per un solo motivo: “Non me ne frega un c**o“. Infine chiedersi a ogni passo: “Io che cosa ci guadagno?“.

Peccato che la teoria sia puntualmente sconfitta dalla pratica: malgrado le buone intenzioni e gli anni di esperienza, qualcosa inevitabilmente va storto, a riprova che anche il killer più perfetto può sbagliare. Così, tra posizioni di yoga, sparachiodi, pittbull arrabbiati e cadaveri nel bidone il nostro anti-eroe si ritroverà in una spirale di situazioni sempre più problematiche e pericolose. Durante le quali incontrerà, tra l’altro, tutta una serie di personaggi preannunciati dai titoli dei capitoli, come “l’esperta” detta Cotton Fioc interpretata da Tilda Swinton. Scene di violenza nuda e cruda sono attraversate da battute di umorismo sparse qua e là, utili a spezzare la tensione e a rendere più vivace il ritmo della narrazione, sempre sospesa nell’atmosfera di tensione a cui ci ha abituato negli anni il cinema di David Fincher. È incredibile pensare che questo film sia stato girato “in pandemia e con una maschera addosso“, data la complessità e la riuscita qualitativa di una serie di sequenze d’azione più che credibili.

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Le vacanze di Capodanno di Roman Polanski

Author: Wired

Se qualcosa sembra questo film di Polanski è quindi un aggiornamento delle vecchie commedie nel segno dei film di Ruben Ostlund come The Square o Triangle Of Sadness, la quintessenza delle commedie d’autore contemporanee. A scanso di equivoci: Polanski non vuole giocare nel terreno di Ostlund, non vuole qualcosa di realmente sofisticato, semmai vuole aggiornare l’umorismo guardando a quello lì, vuole divertirsi un po’ con un film estremamente leggero che rida di ciò che, evidentemente, fa ridere anche lui. E per una gran parte di The Palace ci riesce, come quando dà una spallata all’attualità, mostrando il discorso di insediamento che proprio in quel giorno, il 31 dicembre del 1999, pronunciò Vladimir Putin introdotto da Boris Yeltsin. Sono le immagini reali e solo per la maniera in cui sono posizionate nel film (e per come parlano dell’oggi) fanno ridere.

Al netto di una fattura che sconta budget non stellari (alcuni momenti dell’hotel visto da fuori, costruito in computer grafica, gridano vendetta), il lavoro sugli attori e su un umorismo decisamente popolare nelle trovate ma molto sofisticato nell’esecuzione, è di primo livello. The Palace aggiunge infatti alla commedia viennese classica una fortissima critica sociale. Quel genere nasceva per far ridere le élite di se stesse, con garbo, era fatto di personaggi sofisticati e amori cortesi tra classici servitori sciocchi o nobiluomini scemi. Era un genere di parola che al cinema è stato reso alla perfezione da Ernst Lubitsch. Ora, quasi 90 anni dopo quelle commedie, Polanski non ride dei ricchi con i ricchi e per i ricchi; ride dei ricchi per chi ricco non è. Li ritrae come mostri della chirurgia con corpi che non fanno che tradirli.

Roman Polanski la nostra recensione di The Palace