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Abbiamo visto in anteprima Supersex, la serie che racconta la costruzione del mito di Rocco Siffredi

Author: Wired

Diciamolo subito: portare sullo schermo una serie su Rocco Siffredi era un azzardo già sulla carta. Come si può raccontare la parabola di un pornodivo di fama mondiale – vivente, dettaglio non trascurabile – nonché di un uomo ha fatto del corpo il suo mestiere? Risponde Netflix con Supersex, nuova serie in sette episodi diretta da Matteo Rovere, Francesca Mazzoleni e Francesco Carrozzini, presentata oggi in anteprima mondiale alla 74ma Berlinale e dal 6 marzo disponibile sulla piattaforma.

Avvertenza: nei primi tre episodi – quelli mostrati al Festival – viene dato più spazio all’emotività che all’eros, raccontando come il piccolo Rocco sia diventato il fenomeno Siffredi, scoprendo tra le gambe un “super potere” che è stato dono e condanna della sua vita. Un poderoso flashback sulla sua infanzia presenta al pubblico un ragazzino vivace, poco considerato dalla madre e molto dallo scapestrato fratellastro Tommaso. La fratellanza è il valore portante di questo primo terzetto episodico, fin da quando Rocco adulto superstar sembra scorgere tra il pubblico il fantasma di suo fratello. Il flashback è teso a inquadrare la genesi del loro rapporto e approfondirlo, con tanto di “battesimo” di virilità del fratello maggiore sul minore, le prime esperienze sessuali condivise, gli abbracci, i baci, le pipì open air e l’affetto minaccioso. La scoperta del superpotere arriva anche grazie a un “giornaletto” (il Supersex del titolo, rivista di fotoromanzi porno in voga all’epoca) in cui Rocco trova conforto dai problemi di ogni giorno, e da lì cambia tutto.

Supersex abbiamo visto in anteprima la serie che racconta la costruzione del mito di Rocco Siffredi

Lucia Iuorio/Netflix © 2024

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Dune – Parte due completa il film di fantascienza più radicale dei nostri anni

Author: Wired

È davvero difficile rimanere indifferenti di fronte all’inizio di questo secondo film che completa la trasposizione del primo romanzo della saga di Dune. In una scena di attacco e difesa in cui i Fremen, popolazione indigena del pianeta sabbioso Arrakis a cui si sono uniti gli ultimi rimasti del nobile casato Atreides, attaccano e sabotano la raccolta della preziosa spezia, c’è un’unione di spettacolarità da cinema di grande incasso americano ed elevazione artistica da grandissimo regista di colori, design e soprattutto tempi e stasi di Villeneuve. È davvero difficile non essere subito trasportati da questo ritmo non per forza concitato ma sempre teso, fatto di soldati che levitano, di arancioni, visioni, sabbie e contaminazione di mistico e secolare, ma soprattutto dall’unione di audio e visivo che generano un senso dell’atmosfera lontana ed esotica della fantascienza, con un senso del pericolo avventuroso eccitante.

È la cifra di tutta questa seconda parte del racconto (abbastanza fedele al romanzo) di Dune, in un film che non cambia niente rispetto al primo, ha la medesima impostazione narrativa e visiva, la stessa concentrazione sul risultato e sul tenere insieme una visione realmente senza compromessi e la necessità di creare un blockbuster che possa appassionare un pubblico molto vasto e non per forza interessato alla forma del cinema. A farlo ci pensa la capacità di Villeneuve di creare gravitas, cioè quel senso di peso specifico che ogni evento ha nel film e che passa dal contrasto tra grande e piccolo, le immensità del deserto, la vastità degli stadi, le altezze degli interni e la piccolezza degli uomini che si muovono tra mezzi o vermoni giganti pilotandoli, guidandoli o abbattendoli, affermando cioè il loro dominio sulle cose più titaniche.

Dune  Parte 2 completa il film di fantascienza più radicale dei nostri anni

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Perfect Days probabilmente è il miglior film di Wim Wenders

Author: Wired

Perfect Days probabilmente è il miglior film di Wim Wenders

In due ore Perfect Days fa innamorare di questa vita apparentemente priva di tutto (il protagonista abita in una casa spoglia in cui esiste solo l’essenziale) ma in realtà scremata del superfluo, in cui a trionfare è l’ideale del bene comune. Ci saranno difficoltà, questioni da risolvere, personaggi negativi e tutto quello che solitamente avviene nei film, eppure ciò che rimane più impresso è questa cura di qualcosa che appartiene a tutti, rappresentata nella maniera che meno ci si aspetta, dalla pulizia dei bagni. Questo, già nelle intenzioni di Wenders, è il punto del film: provare a girare una storia che riavvicini tutti quelli che la guardano all’idea di bene pubblico, alla sua cura e all’immensa soddisfazione che esiste nell’unire la coltivazione dei consumi culturali (il protagonista fa foto su rullino oltre come detto a leggere e ascoltare musica), a una routine lavorativa semplice e ai rapporti occasionali con le persone che incontra o i ristoranti in cui mangia.

Un po’ come per i primi minuti di Wall-E, anche qui lo svolgersi delle giornate non ha bisogno di grandi parole. Soprattutto non ne ha bisogno Koji Yakusho, veterano del cinema giapponese, star locale ma anche noto al pubblico occidentale perché negli anni Duemila è stato uno dei giapponesi ricorrenti a Hollywood, cioè uno dei 3-4 attori che vengono chiamati quando c’è da interpretare qualcuno che viene dal Giappone (sta in Babel, Memorie di una geisha e L’ultimo ballo, per fare solo alcuni titoli). Yakusho anima un film che lo prevede in quasi tutte le inquadrature recitando una serenità e una pace così contagiose, che nel vedere Perfect Days è veramente difficile non desiderare di essere al suo posto. A un livello più profondo di lettura poi esiste una passione per la possibilità di riprendere una città, i suoi ritmi e l’identità che può esistere tra lo spirito di quell’aggregato urbano e quello dei personaggi che sono inseriti che è un piacere nel piacere. Wenders trova la storia giapponese, per riprendere il Giappone, le sue armonie, il gusto estetico, la cura e la precisione. Tutto è sia nel personaggio sia in cio che è intorno a lui.

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Il libro delle soluzioni raccontato dal suo protagonista, Pierre Niney

Author: Wired

Il Libro delle soluzioni nasce da un magico incontro risalente a undici anni fa. Durante una cena a Parigi Pierre Niney incontrò il regista Michel Gondry e gli chiese di fargli da padrino nel mondo del cinema. Non solo è riuscito a farsi dirigere da lui, ma addirittura lo interpreta nel suo nuovo film “Ero un fan sfegatato dei suoi film, Se mi lasci ti cancello è una pietra miliare della mia vita. Lo trovo un genio, il suo cinema è artigianato puro di immaginazione”.

Il libro delle soluzioni raccontato dal suo protagonista Pierre Niney

Presentato con successo alla Quinzaine des Cinéastes del Festival di Cannes 76 e dal 1 novembre nelle sale italiane, Il libro delle soluzioni racconta di Marc, giovane regista indipendente ansioso e creativo, che decide di fuggire in campagna con il girato del suo ultimo film per terminare il lavoro in piena autonomia, senza pericolo di censure produttive. Metafora esilarante della libertà assoluta che deve essere garantita agli autori e, insieme, della fuga dalla routine per poter veramente creare qualcosa di originale, questo nuovo film di Gondry racconta anche un aspetto spesso trascurato nei film biografici sui registi, la loro salute mentale.

“Pur essendo l’ufficiale fan boy di Gondry, mi ha colpito il modo in cui racconta la sua stessa ansia e depressione: è stato coraggioso a mettere in scena tutte le sue fragilità. Trovo fondamentale sottolineare che non siamo robot, gli artisti possono fallire e stare male, e non c’è niente di strano”. Un po’ lo ha addirittura contagiato: la notte prima di iniziare a girare non ha dormito: “Ero molto teso, ho dormito pochissimo: la mia preoccupazione era che non volevo imitarlo, ma creare un ibrido tra me e lui, così che la mia performance e la sua vita si incontrassero a metà strada». In comune hanno “il tempo comico, spero l’originalità, di sicuro la voglia di fare musica: abbiamo fatto un piccolo concerto insieme, io alla chitarra e lui alla tromba, il cast si è divertito molto”. Poi è arrivato Sting, per una scena che non sveleremo, “e io gli ho chiesto di firmarmi la chitarra, quando mi sarebbe ricapitato nella vita! E’ la magia di Gondry: tutti vogliono lavorare con lui”.

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Il documentario Life is not a competition, but I’m winning solleva la questione dei generi nello sport

Author: Wired

Life is not a competition, but I’m winning, però, non è solo un film di racconti in prima persona. La regista Julia Fuhr Mann, oltre alle testimonianze di Negesa e di e di e altr*, come la maratoneta transgender Amanda Reiter, ha messo insieme anche una sorta di coro di atlet* queer, che vediamo conquistare il proprio spazio in due “templi” dell’agonismo: lo stadio olimpico di Atene, “costruito”, di ricorda nel film “per celebrare unicamente eroi maschi, e il massiccio Olympiastadion di Berlino, realizzato durante il nazismo per i Giochi del 1936: “Una struttura che nei proclami del regime sarebbe dovuta durare per sempre, mentre, nella realtà, si sta poco a poco sbriciolando”.

Inoltre, nel documentario, la regista ci accompagna indietro nel tempo con immagini di repertorio per ricordarci che i “corpi non conformi” sono sempre esistiti e che il concetto di conformità varia nel corso del tempo.

Fino a meno di un secolo fa, per esempio, le donne erano considerate fisicamente non idonee a competere nella specialità degli 800 metri.

La mezzofondista Lina Radke fece giusto in tempo a vincere una medaglia d’oro ai giochi olimpici di Amsterdam nel 1928. In quell’occasione, la stanchezza manifestata da un gruppo di altre atlete al traguardo fu considerata una prova sufficiente per bandire le donne dagli 800 fino al 1960.

E altrettanto illuminante è la storia della velocista Stella Walsh, polacca, naturalizzata americana che, nel 1932, vinse la medaglia d’oro nei 100 metri, categoria femminile, all’Olimpiade di Los Angeles.

Soltanto una cinquantina di anni dopo, quando Walsh rimase uccisa nel corso di una rapina, l’autopsia rivelò che era nata con le caratteristiche genetiche di entrambi i sessi.

Sport Il documentario Life is not a competition but Im winning presentato a Venezia 2023 solleva la questione dei generi

Ma, tornando al presente, anche se il documentario non affronta in modo esplicito la questione della suddivisione delle competizioni fra generi e il divieto per le atlete transgender di partecipare alle competizioni femminili, la riflessione della regista sulla “segregazione dei sessi” suona come una una risposta indiretta ma chiarissima. “Se l’idea di dividere uomini e donne nasce con l’intento di garantire condizioni paritarie, la verità è che ci sono altri fattori oltre al genere che influenzano i risultati nelle gare”, dice. “Se sei un velocista, a prescindere dal sesso, avere le gambe più lunghe è un vantaggio. E lo, in certe discipline come la vela, venire da una famiglia agiata. In generale, il fatto di vivere in Paesi con tanti centri sportivi cui avere accesso è un aiuto”.

E conclude: “Credo che dovremmo prendere in considerazione tutto questo se vogliamo ridefinire in modo più creativo e più giusto le categorie nello sport”.