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Nella termodinamica il legame tra meccanica quantistica e realtà concreta

Author: Wired

Una delle più celebri frasi attribuite a Richard Feynman, tra i più importanti e geniali fisici del secolo scorso, recita più o meno così: “Penso di poter affermare tranquillamente che nessuno capisce la meccanica quantistica. Un po’ esagerato, un po’ provocatorio, come era nel suo stile; ma in fondo non troppo lontano dalla realtà. La meccanica quantistica – ossia la teoria che descrive il comportamento del mondo microscopico, quello fatto di molecole, atomi e particelle subatomiche – è certamente una delle discipline più complesse e controintuitive (ma proprio per questo estremamente affascinanti) della fisica moderna. Molte delle sue leggi e dei suoi postulati – pensiamo per esempio all’entanglement, la bizzarra interazione a distanza tra particelle “intrecciate”, o alla sovrapposizione degli stati e al collasso della funzione d’onda, ben illustrati dal famoso paradosso del gatto di Schrödinger, sono effettivamente così lontani dalla nostra esperienza quotidiana della realtà macroscopica da essere molto difficili da comprendere e digerire; tuttavia, come ha dimostrato oltre un secolo di rigorose prove sperimentali, la teoria è esatta. A quanto pare, è proprio così che funziona la natura, o almeno la parte di natura che abbiamo iniziato a comprendere. Come dicevamo, è quando si provano a mettere in relazione le leggi della meccanica quantistica all’esperienza del mondo macroscopico che emergono gli scenari più interessanti e complicati, che rischiano di diventare meccanismi insondabili, come il pensiero del pensiero: c’è chi si è chiesto, per esempio, se si possa parlare di realtà oggettiva e quale sia il rapporto tra osservatore e realtà (e ha condotto esperimenti per provare a rispondere), e chi, proprio pochi giorni fa, ha cercato di far chiarezza su come sia possibile che dal mondo quantistico, “regolato” da leggi probabilistiche, emerga il mondo reale e “concreto” con cui abbiamo quotidianamente a che fare. Si tratta di un gruppo di fisici del Quantum Information & Thermodynamics (QuIT), un dipartimento di ricerca dell’Università di Vienna, che ha provato a rispondere alla domanda in due articoli, ancora in fase di revisione dei pari. Il primo è stato caricato lo scorso anno su ArXiv e il secondo è in corso di scrittura; a darne conto, sulle pagine della rivista New Scientist, è Tom Rivlin, fisico di QuIT che è tra gli autori di uno dei lavori e si occupa (anche) di divulgazione scientifica.

Passeggiando nel cimitero di Vienna

Il lungo racconto di Rivlin comincia proprio a Vienna, nel cimitero più grande della capitale austriaca, e precisamente davanti alla tomba di uno dei fisici più importanti della storia, Ludwig Boltzmann, padre della termodinamica e del concetto di entropia (tanto che sulla sua lapide è incisa la formula S = k log W, che è proprio una delle definizioni dell’entropia). Perché è nella termodinamica, secondo gli studi di Rivlin e colleghi, che va cercata la risposta. “Ero andato a passeggiare nei pressi della tomba di Boltzmann – racconta – perché penso che le sue idee, vecchie di un secolo, possano aiutare a risolvere uno dei problemi più complessi della fisica: come è possibile che le particelle quantistiche, che esistono in una ‘nube confusa’ di stati possibili, diano origine al mondo solido, concreto e ben definito, fatto di neve, foglie, lapidi e tutto quello che ci circonda. Sono stati fatti molti tentativi per risolvere questo problema, tra cui anche proporre l’idea bizzarra che tutte le altre possibilità del mondo quantistico si realizzino in universi paralleli, o che semplicemente svaniscano. Io e i miei colleghi sospettiamo che la risposta giusta abbia invece a che fare con Boltzmann.

Un bigino di termodinamica

Prima di andare avanti serve un conciso ripasso: la termodinamica – detto grossolanamente – è la branca della fisica che studia come quantità macroscopiche (calore, energia, pressione, temperatura, eccetera) siano connesse a proprietà microscopiche (per esempio la velocità con cui si muovono le particelle in un fluido). Uno dei concetti fondamentali della termodinamica è l’entropia, che è una misura del disordine di un sistema, ovvero dei “possibili modi” in cui un sistema può esistere. Più il sistema è disordinato, più è alto il numero di modi in cui può essere realizzato: l’esempio più classico è quello di un mix di latte e caffè. Il sistema “ordinato” può essere realizzato in un solo modo (tutte le molecole del caffè da una parte e tutte le molecole di latte dall’altra), mentre il sistema “disordinato” (il caffelatte, ossia un mischione dei liquidi) può essere realizzato in un numero molto più alto dei modi. Il sistema disordinato è quello che ha massima entropia; e il secondo principio della termodinamica sancisce che (in un sistema chiuso) qualsiasi processo evolve sempre verso lo stato di massima entropia. In altre parole, il mondo va nella direzione del disordine. In questo senso, l’entropia (e il secondo principio della termodinamica) stabiliscono una direzione obbligata (o meglio, privilegiata) per tutti i fenomeni della natura: sempre verso il massimo disordine, in modo irreversibile.

Le stranezze della meccanica quantistica

Lasciamo per un attimo riposare Boltzmann e torniamo alle bizzarrie della meccanica quantistica. La questione che disturba di più Rivlin e i suoi (e non solo) è il fatto che una delle leggi della meccanica quantistica postula che una particella può “esistere” in diverse posizioni nello stesso momento (è la cosiddetta sovrapposizione degli stati) ma che questo effetto non si manifesta nel mondo macroscopico. Per di più, c’è un “problema” con le misure: nel momento in cui si cerca di misurare la posizione di una particella, la si “inchioda” in un certo posto e da quel momento in poi sta solo là (è il cosiddetto collasso della funzione d’onda); come se l’atto della misura “distruggesse” tutte le altre possibilità – un processo rapido, istantaneo e irreversibile. Il problema è stato parzialmente risolto negli anni Settanta, quando diversi esperimenti hanno mostrato che il famigerato “processo di misura”, quello che distrugge le altre possibilità, non avviene soltanto in laboratorio, ma sempre e ovunque: anche una molecola d’aria che colpisce un elettrone lo “misura” e ne distrugge la natura quantistica. Questo processo si chiama “decoerenzae spiega il motivo del fatto che non vediamo effetti quantistici a livello macroscopico.

Decoerenza e darwinismo

La decoerenza è un meccanismo ancora in parte misterioso. Un significativo passo avanti nella sua comprensione risale al primo decennio di questo secolo, quando due fisici, Robert Blume-Johout e Wojciech Żurek, hanno mostrato che durante il processo di decoerenza tutte le informazioni relative a un sistema quantistico – compresa la sovrapposizione degli stati –non si distruggono, ma piuttosto si “diffondono” nell’ambiente circostante. Se non possiamo più vederle è solo perché non siamo in grado di farlo. “L’informazione quantistica”spiega Rivlin “è sempre lì, solo che è impossibile da vedere. Questa idea è stata chiamata ‘darwinismo quantistico’, in analogia all’idea dell’evoluzione dei sistemi biologici: in questo senso, l’ambiente intorno a un oggetto quantistico ‘seleziona’ solo le informazioni classiche [cioè non quantistiche, quelle che effettivamente vediamo nel mondo macroscopico] un po’ come un ecosistema (in senso però molto diverso) ‘seleziona’ il collo lungo per le giraffe”.

Lo zampino della termodinamica

L’équipe di Rivlin non crede molto all’ipotesi del darwinismo; piuttosto, cerca una spiegazione alternativa guardando alla termodinamica – ed è qui che rientra in scena Boltzmann. “Storicamente, termodinamica e meccanica quantistica non sono mai andate molto d’accordo. L’idea convenzionale delle misurazioni quantistiche sembra addirittura infrangere le leggi della termodinamica, che sono ‘sacrosante’ per i fisici”. E quindi? Torniamo all’esempio del caffè: dicevamo che lo stato in cui evolve un mix di latte e caffè è quello di massimo disordine, di massima entropia, una miscela indistinguibile delle due sostanze. Questo ce lo dice il secondo principio della termodinamica (oltre alla nostra esperienza quotidiana). Ma c’è una questione più sottile: lo stato di massimo disordine è quello di equilibrio, e su questo non ci piove, ma è anche vero che ogni sistema, pur andando sempre verso lo stato di equilibrio, potrà avere, di tanto in tanto, delle fluttuazioni attorno a quello stato. Portiamo più in là questo concetto: dato un tempo sufficientemente lungo, diciamo pure infinitamente lungo, una di queste fluttuazioni porterà il sistema di nuovo nello stato in cui latte e caffè sono perfettamente separati. Bisogna aspettare probabilmente un tempo più lungo dell’età dell’universo, ma in un certo momento accadrà. E lo stesso, a quanto pare, avviene anche per la decoerenza: un’équipe di scienziati, nel 2018, ha osservato che effettivamente un sistema può “de-decorentizzarsi”, almeno per brevissimi intervalli di tempo. “È un risultato incredibile, perché se è possibile recuperare la coerenza vuol dire che le informazioni quantistiche non sono mai state davvero distrutte: erano lì, nascoste, e a un certo punto riappaiono”.

I lavori di Birkin e colleghi partono proprio da qui: “La trattazione matematica è abbastanza complicata, ma sostanzialmente nel primo lavoro i miei colleghi hanno mostrato che l’equilibrio tra un sistema quantistico e un apparato di misura può far sì che un sistema che ‘sembra’ classico stia in realtà solo ‘nascondendo’ il comportamento quantistico, e non distruggendolo. Un apparato di misura abbastanza piccolo potrebbe, almeno in linea teorica, permettere agli effetti quantistici di tornare visibili. L’altro lavoro, ancora in corso, è relativo all’effettiva fattibilità di un esperimento per verificare questo effetto, e per comprendere se e come è possibile estrarre e informazioni quantistiche. Chissà cosa ne avrebbe pensato Boltzmann”.

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Velocità della luce, ecco come ci apparirebbe l’universo se potessimo superarla

Author: Wired

Tra le (poche) certezze della fisica, ce n’è una che sembra particolarmente granitica. È “scritta” nella teoria della relatività di Albert Einstein, e sancisce che niente può muoversi più velocemente della luce. La teoria del fisico tedesco, in particolare, mostra che man mano che ci si avvicina alla velocità della luce succedono cose molto strane: la massa tende all’infinito, per esempio, e il tempo relativo – cioè quello misurato nel sistema di riferimento dell’osservatore che si sta muovendo – tende a rallentare sempre più. Ancora: la velocità della luce nel vuoto è una costante, ossia è sempre uguale indipendentemente dal sistema di riferimento in cui la si misura. 

Ciò premesso, ci si può allora chiedere, per pura speculazione, cosa accadrebbe a un ipotetico corpo se viaggiasse più velocemente della luce: ed è proprio quello che ha fatto un’équipe di fisici dell’università di Varsavia, in Polonia, e della National University di Singapore: in un articolo pubblicato sulla rivista Classical and Quantum Gravity, gli scienziati hanno provato a “spingere” la relatività einsteiniana oltre il limite della velocità della luce, arrivando a mettere a punto un’“estensione” della teoria in cui esistono, udite udite, tre dimensioni temporali e una spaziale. Un mondo alla rovescia, insomma, dato che nel “nostro” universo le dimensioni spaziali sono tre e quella temporale è una sola. C’è di più: lo studio, dicono gli autori, rappresenta una possibile prova del fatto che sarebbe possibile per un oggetto viaggiare più velocemente della luce senza violare completamente le attuali leggi della fisica. Almeno in linea teorica.

Alla base dello studio appena pubblicato ci sono i risultati di un lavoro precedente, condotto dallo stesso gruppo di ricercatori nel 2020, che mostrava che l’ipotesi “superluminale” – così sono dette le particelle che viaggerebbero più veloce della luce – potrebbe aiutare a risolvere uno dei più grandi problemi aperti della fisica moderna, ossia la conciliazione tra la relatività di Einstein e la meccanica quantistica: due teorie che separatamente funzionano alla perfezione, ma che finora nessuno è riuscito a mettere insieme in un unico modello coerente e completo. Com’è facile immaginare, i dettagli del lavoro sono molto tecnici: l’idea alla base è che gli oggetti superluminali si comporterebbero come una sorta di bolla che si espande nello spazio “vivendo” in diverse linee temporali

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Reti quantistiche: circuiti fotonici a base di diamanti per quelle del futuro

Author: Wired

I processori e le reti quantistiche del futuro, forse, potranno essere fatti di diamante. Una sostanza che, oltre alla nota durezza da record, possiede anche altre proprietà che la rendono particolarmente interessante per la realizzazione di circuiti fotonici, il che apre la strada a nuovi e migliori sistemi di calcolo quantistico. A dimostrarlo uno studio appena pubblicato sulla rivista Acs Photonics da parte di un’équipe di ricercatori dell’Istituto di fotonica e nanotecnologie (Ifn) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e dell’Università di Ulm in Germania: gli scienziati sono riusciti a sviluppare un metodo di fabbricazione innovativo e ibrido per realizzare circuiti fotonici utilizzando il diamante: un passo essenziale, dicono, per sviluppare bit quantistici, o qubit, l’unità di informazione essenziale di un processore quantistico. 

Perché i diamanti

“Nel diamante – spiega Shane Eaton, ricercatore del Cnr-Ifn e co-autore del lavoro – sono presenti, e possono essere opportunamente ingegnerizzati, dei difetti reticolari in grado di essere utilizzati come qubit. Si tratta dei cosiddetti centri di colore, posizioni reticolari dove è presente un’impurezza e manda un atomo di carbonio, e nei quali è possibile codificare, controllare e manipolare l’informazione quantistica sotto forma di qubit. Tale particolare morfologia, e la presenza di questi difetti, rende il diamante un candidato promettente per le tecnologie quantistiche”

Per riuscire a “scrivere” sul diamante, trasformando le sue impurità in bit quantistici, gli scienziati si sono serviti di un laser a femtosecondi, in grado di emettere impulsi di luce brevissimi e molto ravvicinati (un femtosecondo corrisponde a un milionesimo di miliardesimo di secondo), che colpendo il diamante vi creano delle connessioni fotoniche, i “mattoncini” fondamentali al calcolo quantistico: la fattibilità della cosa era già stata dimostrata in uno studio precedente, condotto dallo steso gruppo nel 2016 e pubblicato sulla rivista Nature Scientific Reports. Ora, però, hanno fatto un passo avanti: “Un altro ingrediente fondamentale – continua Eaton – è quello di realizzare i qubit: con questa nuova tecnica abbiamo sviluppato un chip integrato in diamante, in grado di ingegnerizzare la luce a livello dei singoli fotoni”.

Uno step ulteriore

Ora è il momento di passare alla fase successiva, ossia di inserire questi chip in un circuito tridimensionale. Quando i ricercatori ci riusciranno potremo dire di essere davvero più vicini all’implementazione di questa tecnologia in un computer quantistico: “Il prossimo passo – conclude lo scienziato – sarà quello di fabbricare un circuito fotonico tridimensionale per rendere possibili sistemi per il calcolo quantistico di prossima generazione in diamante, tali da consentire l’elaborazione di una quantità notevole di dati contemporaneamente e con estrema velocità”. Da utilizzare, per esempio, per risolvere sempre più rapidamente problemi complessi o per mettere a punto canali di comunicazione sicuri per trasferire informazioni criptate, una delle più promettenti peculiarità delle reti quantistiche.