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Nuovi dati confermano che il nucleo interno della Terra sta rallentando

Author: Wired

Il nucleo interno della Terra non ruota più come prima. A confermare questa ipotesi sono oggi i nuovi dati provenienti da uno studio pubblicato sulla rivista Nature dai ricercatori della University of Southern California e della Chinese Academy of Sciences che hanno dimostrato, appunto, come il nucleo interno stia invertendo la sua direzione, rallentando, rispetto alla superficie del pianeta.

Come si muove il nucleo

Il movimento del nucleo interno della Terra, una sfera solida di ferro-nichel circondata dal nucleo esterno liquido, è al centro del dibattuto scientifico ormai da decenni in quanto è uno dei posti più misteriosi e difficili da raggiungere e, quindi, da studiare dell’interno Sistema solare. È per questo che gli scienziati ricorrono alle onde sismiche per creare diversi modelli del movimento del nucleo interno. Una tra le più recenti ricerche, ad esempio, era giunta alla conclusione, dopo aver analizzato appunto i percorsi delle onde sismiche dagli anni ‘60 a oggi, che il nucleo si stava fermando per fare dietrofront. In particolare, l’ipotesi dei ricercatori dell’Università di Pechino pubblicata su Nature Geoscience, suggeriva che intorno al 2009 il nucleo interno avesse rallentato e che la sua rotazione si fosse interrotta per iniziare a invertirsi. Un fenomeno ciclico, secondo gli autori, che si verificherebbe ogni poche decine di anni e che potrebbe essere connesso ad altri cambiamenti periodici sulla superficie terrestre.

La conferma

Il nuovo studio oggi fornisce le prove che confermano che il nucleo interno ha iniziato a diminuire la sua velocità intorno al 2010, muovendosi più lentamente della superficie terrestre. “Quando ho visto per la prima volta i sismogrammi che suggerivano questo cambiamento, sono rimasto perplesso”, ha commentato il co-autore John Vidale. “Ma quando abbiamo trovato altre due dozzine di osservazioni che segnalavano lo stesso modello, il risultato era inequivocabile. Altri scienziati hanno recentemente sostenuto modelli simili e diversi, ma il nostro ultimo studio fornisce la risoluzione più convincente”.

Un nuovo modello

I ricercatori del nuovo studio, differentemente da quelli precedenti, si sono focalizzati sui terremoti multipli, ossia eventi sismici che si verificano nello stesso luogo producendo sismogrammi identici. Hanno quindi passato in rassegna i dati sismici registrati attorno alle Isole Sandwich Australi, arcipelago nell’Oceano atlantico meridionale, da 121 terremoti multipli verificatisi tra il 1991 e il 2023. Dalle successive analisi, i ricercatori hanno potuto osservare che il rallentamento della velocità del nucleo interno è stato causato dal rimescolamento del nucleo esterno di ferro liquido che lo circonda, che genera il campo magnetico terrestre, nonché dalle attrazioni gravitazionali provenienti dalle regioni dense del mantello roccioso sovrastante.

Gli effetti in superficie

Le implicazioni di questo cambiamento nel moto del nucleo interno per la superficie terrestre possono essere solo ipotizzate. Secondo gli autori, infatti, la marcia indietro del nucleo interno potrebbe alterare la durata di una giornata di frazioni di secondo. “È molto difficile da notare, nell’ordine di un millesimo di secondo, perso nel rumore degli oceani e dell’atmosfera”, ha precisato Vidale. Il prossimo passo sarà quello analizzare la traiettoria del nucleo interno in modo ancora più dettagliato per rivelare esattamente il motivo per cui si sta spostando. “La danza del nucleo interno potrebbe essere ancora più vivace di quanto sappiamo finora”, ha concluso l’esperto.

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Gli astronauti potrebbero sopravvivere a un viaggio di andata e ritorno per Marte?

Author: Wired

Fantasticando attorno all’idea che l’essere umano possa un giorno mettere piede su Marte viene spontaneo fermarsi a ragionare sulle difficoltà tecniche che un viaggio del genere implicherebbe. Ma cosa sappiamo invece dell’impatto che una spedizione sul pianeta rosso avrebbe sulla salute di astronauti e astronaute? Secondo un ampio studio appena pubblicato su Nature Communication, la funzionalità dei reni potrebbe essere gravemente compromessa sia per effetto della microgravità che per l’esposizione agli alti livelli di radiazioni presenti nello Spazio. Insomma, non sarebbe proprio una passeggiata.

Lo studio

La ricerca ha visto la partecipazione di un enorme numero di scienziati e scienziate di oltre 40 istituzioni sparse per tutto il globo, coordinati da Keith Siew e Stephen Walsh del dipartimento di medicina renale della Ucl (University College London, Regno Unito). Il gruppo di ricercatori ha condotto una serie di esperimenti e analisi biomolecolari, fisiologiche e anatomiche su diverse coorti (o gruppi) che hanno incluso sia esseri umani che topi e ratti. In particolare, sono stati utilizzati i dati relativi ad astronauti e astronaute che hanno partecipato a missioni spaziali in orbita terrestre bassa e quelli provenienti da simulazioni condotte su topi e ratti. In alcune di queste simulazioni i topi sono stati esposti ad alti livelli di radiazioni, paragonabili a quelle a cui ci si esporrebbe durante missioni di un anno e mezzo o due anni e mezzo su Marte.

I risultati

Complessivamente, i risultati mostrano che sia i reni degli esseri umani che quelli di topi e ratti subiscono dei cambiamenti durante i viaggi (o le simulazioni di viaggio) nello Spazio. In sostanza, la capacità dei reni di processare le sostanze saline viene fortemente alterata, con la conseguente formazione di calcoli renali. Il meccanismo alla base di quest’alterazione dovrà essere ulteriormente chiarito, ma il dato che sorprende è che i topi esposti al livello più alto di radiazioni (paragonabile a quelle che riceveremmo in due anni e mezzo di viaggio su Marte) hanno subito danni permanenti ai reni.

Sappiamo cosa è successo agli astronauti durante le missioni spaziali relativamente brevi condotte finora, in termini di aumento di problemi di salute come i calcoli renali. Quello che non sappiamo è perché questi problemi si verificano, né cosa succederà agli astronauti durante voli più lunghi, come la missione proposta per Marte”, spiega Siew. “Se non sviluppiamo nuovi modi per proteggere i reni – prosegue -, direi che anche se un astronauta potrebbe farcela ad arrivare su Marte, al ritorno potrebbe aver bisogno della dialisi”.

Secondo Walsh, un’idea potrebbe essere quella di sviluppare dei farmaci in grado in qualche modo di proteggere i reni schermandoli dall’elevata quantità di radiazioni presenti nello Spazio: “I farmaci sviluppati per gli astronauti potrebbero essere utili anche qui sulla Terra – conclude -, ad esempio consentendo ai reni dei pazienti oncologici di tollerare dosi più elevate di radioterapia, essendo i reni uno dei fattori limitanti in questo senso”.

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E se i buchi neri in realtà fossero gravastar?

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Tra tutti gli oggetti cosmici scoperti (o ipotizzati) dai fisici nell’ultimo secolo, i buchi neri sono certamente i più affascinanti, misteriosi e complessi. Come spesso è accaduto nella storia della scienza, la loro esistenza è stata predetta molto prima della loro effettiva osservazione: il primo a farlo, nel 1915, fu l’astronomo e fisico tedesco Karl Schwarzschild, che la dedusse direttamente dalle equazioni della relatività generale di Albert Einstein. Dalla prima dimostrazione teorica di Schwarzschild la comunità scientifica ha fatto molti passi avanti, arrivando nel corso degli anni a caratterizzare, descrivere, simulare e fotografare queste misteriose entità. Eppure, qualcosa ancora non torna: in particolare non abbiamo ancora idea di cosa succeda al “centro” di un buco nero, dove si accumula tutta la sua massa e dove le equazioni dicono si arrivi a una cosiddetta singolarità, ossia a un punto di densità infinita. Ma un conto sono le equazioni, un altro la realtà: al momento non abbiamo idea di cosa voglia dire dal punto di vista fisico, e di cosa comporti, avere una massa infinita concentrata in un punto. E questo potrebbe voler dire che la teoria è ancora incompleta o, peggio, sbagliata. Poche settimane fa, un gruppo di scienziati della University of Gdańsk, in Polonia, ha proposto – o meglio: riproposto – un’ipotesi che potrebbe risolvere il problema della singolarità: secondo gli autori dello studio, pubblicato sulla rivista Physical Review D, quelli che chiamiamo buchi neri sarebbero in realtà un’altra cosa, un oggetto chiamato gravastar (che sta per GRAvitational VAcuum STAR), con caratteristiche del tutto diverse.

Cosa sono le gravastar

L’ipotesi dell’esistenza delle gravastar è stata avanzata per la prima volta nel 2001 dagli astrofisici Pawel Mazur ed Emil Mottola, che proposero l’esistenza di “stelle gravitazionali condensate” proprio come “alternativa ai buchi neri”. Nella teoria “classica”, i buchi neri si formano in seguito al collasso gravitazionale di masse sufficientemente elevate: sostanzialmente, in questo modello, la gravità domina su tutte le altre forze e fa “implodere” la massa, che viene progressivamente attratta verso un unico punto (la singolarità, per l’appunto). Nell’idea di Mazur e Mottola, invece, in un certo momento del collasso la gravità smetterebbe di comportarsi secondo le regole “classiche” della relatività generale e assumerebbe un comportamento quantistico, del tutto diverso (avverrebbe quella che i fisici chiamano transizione di fase quantistica); e che tale comportamento eviterebbe la creazione della singolarità.

Ma qui si incontra il primo problema: al momento non esiste una teoria quantistica conclusiva e verificata della gravità: per dirlo in altre parole, non abbiamo ancora unificato la meccanica quantistica con la relatività generale di Einstein. E per questo non è possibile stabilire se la transizione di fase proposta dai due scienziati sia effettivamente plausibile. Di più: nel loro modello, Mazur e Mottola postulano anche che a seguito di questa transizione di fase tutta la materia “ingurgitata” dalla sua stessa gravità vada a finire in una sorta di “bolla” sferica di vuoto. Il che suona ancora più paradossale: come può una quantità enorme di massa trasformarsi in un vuoto? La risposta degli scienziati è che si tratterebbe del cosiddetto vuoto quantistico, pieno, a dispetto del suo nome, di una forma di energia chiamata energia del vuoto; e sarebbe proprio questa energia a “tenere in equilibrio” la gravistar, controbilanciando l’effetto attrattivo della gravità. Colpo di scena finale: questa energia potrebbe essere quella che da decenni cerchiamo invano di individuare, responsabile dell’espansione accelerata dell’Universo, quella che abbiamo chiamato energia oscura. “Le gravastar – ha spiegato a Live Science João Luís Rosa, uno degli autori del lavoro appena pubblicato – sono oggetti astronomici ipotetici introdotti come alternativa ai buchi neri. Possono essere immaginate come stelle fatte di energia del vuoto o di energia oscura: lo stesso tipo di energia che alimenta l’espansione accelerata dell’Universo”.

Diciamo no alla singolarità

“Il problema della singolarità – prosegue lo scienziato – indica che c’è qualcosa di sbagliato o di incompleto nel modello dei buchi neri, e che è necessario sviluppare modelli alternativi. Il modello delle gravastar è uno di questi, e il suo vantaggio principale è che non implica la presenza di una singolarità”. Rosa e colleghi hanno lavorato all’ipotesi di Mazur e Mottola provando a calcolare in che modo le particelle note e la radiazione elettromagnetica potrebbero interagire con le gravastar, se queste esistessero per davvero. In particolare, gli autori del lavoro hanno provato a prevedere come si comporterebbero le enormi masse di materia calda che circondano i buchi neri supermassicci se questi ultimi fossero in realtà delle gravastar. In questo modo hanno scoperto che effettivamente le osservazioni sperimentali sul comportamento di queste masse sono compatibili con il modello delle gravistar, ossia che, per lo meno, il modello non contraddice le evidenze sperimentali. Questo non vuol dire, ovviamente, che sia corretto, ma implica che, almeno da questo punto di vista, è possibile o, più precisamente, che non è impossibile.

Un buco nero allo specchio

C’è di più: secondo i calcoli di Rosa e colleghi, l’aspetto esteriore della gravastar dovrebbe assomigliare molto a quello degli oggetti che oggi chiamiamo buchi neri: “La gravastar” dice ancora Rosa “sarebbe molto simile a un buco nero: il suo aspetto sarebbe quello di una sorta di ‘ombra’ che però non sarebbe dovuto al fenomeno dell’‘aspirazione’ della luce, ma piuttosto a un meccanismo di redshift gravitazionale che fa sì che la luce perda energia quando si muove attraverso una regione con un forte campo gravitazionale”. Tutto molto suggestivo, certamente: ma, come dicevamo, tutto ancora da dimostrare. Prima di dire (eventualmente) addio al modello dei buchi neri sarà necessario affinare il modello, provare a inserirlo in impianti teorici più grandi e verificati e soprattutto verificarlo con osservazioni ed esperimenti. “Per testare sperimentalmente i nostri risultati” conclude Rosa “contiamo sulla prossima generazione di esperimenti nel campo della fisica gravitazionale, e in particolare l’Event horizon telescope e Gravity+, due esperimenti che mirano a osservare da vicino ciò che accade nel centro delle galassie e in particolare della nostra Via Lattea.

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È colpa dell’intelligenza artificiale se non riusciamo a contattare gli alieni?

Author: Wired

Oppure, se preferite, eccone un’altra versione, riformulata in termini più moderni (il paradosso è stato enunciato nel 1950): con 10 miliardi di (presunti) pianeti abitabili soltanto nella Via Lattea e miliardi di galassie nell’Universo, è mai possibile che la vita si sia sviluppata solo su questo insulso puntino roccioso che è la Terra? Se così fosse, per dirla con Carl Sagan, “sarebbe davvero un enorme spreco di spazio”. Ma allora, tornando a Fermi, se non siamo soli, come la matematica ci porterebbe a pensare, dove sono tutti quanti?

La formula degli alieni

Il più accreditato tentativo di quantificare il possibile numero di civiltà extraterrestri esistenti e in grado di comunicare con noi – ovvero abitanti della Via Lattea – si deve all’astronomo statunitense Frank Drake, che nel 1961 formulò l’equazione che porta il suo nome:

N = R* × fp × ne × fl × fi × fc × L

Come si vede, l’equazione contiene sette fattori: il tasso medio annuo di formazione di nuove stelle nella Via Lattea; la frazione di stelle che possiedono pianeti; il numero medio di pianeti che si trovano nella cosiddetta zona abitabile, cioè alla distanza giusta dalla propria stella, quella che consentirebbe la presenza di acqua liquida sulla loro superficie; la frazione di questi pianeti su cui effettivamente si è sviluppata la vita; la frazione di pianeti che ospitano vita intelligente; la frazione di pianeti in cui la vita intelligente è abbastanza evoluta da riuscire a comunicare con noialtri; la durata temporale di esistenza di queste civiltà. Alcuni di questi fattori, al momento, sono abbastanza noti: nella Via Lattea, per esempio, nasce in media una nuova stella ogni anno, e vi risiedono centinaia di miliardi di pianeti, un quinto dei quali si troverebbero nella zona abitabile. Sugli altri fattori, invece, brancoliamo ancora nel buio, e molte delle assunzioni avanzate finora sono semplici speculazioni o poco più: per questo, il valore di N è compreso in una forbice ancora molto allargata, che va da uno a diecimila. Certo è che se il numero fosse davvero dell’ordine delle decine di migliaia, la questione posta da Fermi suonerebbe ancora più paradossale: dove sono tutti quanti? Perché non siamo riusciti a comunicare con loro?

Il filtro dell’intelligenza artificiale

“L’ipotesi del grande filtro” spiega Garrett “è in definitiva una proposta di soluzione del paradosso di Fermi. Credo che l’arrivo delle Asi [acronimo di artificial superintelligence, cioè super-intelligenza artificiale, una forma di Ai non solo in grado di superare l’intelligenza umana – qualsiasi cosa significhi – ma anche di essere svincolata dalla curva di apprendimento degli esseri umani, nda] potrebbe proprio rappresentare uno tipo di filtro di questo genere. I recenti progressi nell’intelligenza artificiale, che potrebbero portare allo sviluppo di un’Asi, potrebbero ‘intersecarsi’ con una fase critica nello sviluppo di una civiltà, ossia il passaggio da specie monoplanetaria a specie multiplanetaria”. Che significa intersecarsi? Nella visione dello scienziato – che, per inciso, non è solo la sua: anche Stephen Hawking, tra gli altri, già nel 2014 aveva espresso il timore che l’intelligenza artificiale potrebbe portare alla fine della nostra civiltà – le super-intelligenze artificiali potrebbero progredire molto più rapidamente rispetto alle nostre capacità di controllarle e rispetto agli avanzamenti tecnologici che ci potrebbero permettere di esplorare e popolare altri pianeti. “Il rischio che qualcosa vada storto” scrive lo scienziato “è enorme e potrebbe portare alla caduta delle civiltà biologiche (ma anche di quelle basate sull’intelligenza artificiale) prima che abbiano la possibilità di diventare multiplanetarie. Ad esempio, se le nazioni si affidassero sempre di più a sistemi di intelligenza artificiale autonomi in competizione tra loro, le capacità militari potrebbero essere usate per uccidere e distruggere su una scala senza precedenti. Il che porterebbe alla distruzione della nostra civiltà, compresi gli stessi sistemi di intelligenza artificiale”.

Uno scenario kamikaze e apocalittico, insomma. A corredo del quale lo scienziato fornisce anche alcuni numeri: secondo le sue stime, la longevità tipica di una civiltà tecnologica sarebbe inferiore ai 100 anni, ossia il tempo intercorso tra il momento in cui siamo riusciti a ricevere e trasmettere messaggi nello Spazio (gli anni sessanta del secolo scorso) e il (presunto) momento di arrivo delle super-intelligenze artificiali (gli anni quaranta di questo secolo). Una finestra temporale decisamente piccola se confrontata con quelle cosmologiche e che ridimensiona drasticamente le possibili soluzioni dell’equazione di Drake, portando praticamente a zero il numero di civiltà con cui è possibile comunicare.

Speculazioni a parte, comunque, il lavoro di Garrett vuole essere più che altro un monito per uno sviluppo sostenibile e coscienzioso delle intelligenze artificiali: “Questa ricerca” conclude lo scienziato “non è semplicemente un avvertimento di una potenziale catastrofe. È più che altro un campanello d’allarme affinché l’umanità stabilisca quadri normativi solidi per regolare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e il suo utilizzo, specie in ambito militare. Siamo già pericolosamente vicini al precipizio in cui le armi autonome operano oltre i confini etici e aggirano il diritto internazionale. In un mondo del genere, cedere il potere ai sistemi di intelligenza artificiale per ottenere un vantaggio tattico potrebbe inavvertitamente innescare una catena di eventi altamente distruttivi in rapida escalation. In un batter d’occhio, l’intelligenza collettiva del nostro pianeta potrebbe essere annientata”. E non è quello che speriamo.

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Buchi neri, ecco come avremo immagini sempre più dettagliate

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EHT è una collaborazione internazionale di grandissime proporzioni: coinvolge 300 membri da 60 istituzioni e 20 nazioni diverse. Si tratta di una rete di radiotelescopi sparsi su tutto il globo, di cui fanno parte osservatori del calibro dell’Atacama Large Millimeter/Submillimeter Array situato nel deserto cileno a 5000 metri di altitudine, il South Pole Telescope nel continente antartico, il James Clerk Maxwell Telescope hawaiiano e molti altri. Lavorando insieme e unendo le informazioni di questa rete di radiotelescopi tramite le più complesse tecniche di interferometria e analisi dati, EHT può lavorare come un radiotelescopio virtuale grande quasi quanto l’intero pianeta. Ed è così che abbiamo ottenuto le prime (e uniche) due immagini della storia di buchi neri: quella di M87* e quella di Sagittarius A*. A rigore, nelle foto non vediamo i buchi neri ma solo la loro ombra all’interno del luminoso disco di accrescimento. Polvere e gas che ruotano rapidamente attorno al buco nero e che, per attrito, producono calore e quindi luce. Quello di EHT è stato uno sforzo titanico ben giustificato dalla difficoltà del compito: i buchi neri hanno masse enormi, ma sono compresse in uno spazio veramente piccolo. Le 4 milioni di masse solari di Sagittarius A* sono schiacciate in uno spazio grande appena quanto il Sistema Solare, nascoste tra le polveri della Galassia a 26mila anni luce di distanza da noi.

Il buco nero della galassia M87 nell'immagine storica pubblicata nel 2019.

Il buco nero della galassia M87 nell’immagine storica pubblicata nel 2019.Handout/Getty Images

Next Generation Event Horizon Telescope

EHT è un progetto in continua evoluzione. Nuovi osservatori si aggiungono di volta in volta alla collaborazione. Quando iniziò le sue osservazioni nel 2017, la rete contava 8 radiotelescopi: oltre a quelli già citati c’erano il Submillimeter Array alle Hawaii, il Large Millimeter Telescope in Messico, l’IRAM 30 Meter telescope nella Sierra Nevada in Spagna, APEX nell’Atacama e l’Arizona Radio Observatory negli Stati Uniti. A questi nel 2018 si sono uniti il groenlandese Greenland Telescope, l’IRAM NOEMA Observatory nelle Alpi francesi e il Kitt Peak in Arizona. L’aggiunta di nuovi osservatori aumenta le potenzialità di osservazione di EHT. Ecco perché anche con il Next Generation Event Horizon Telescope (ngEHT) la collaborazione si estenderà ancora con l’ingresso di ben 10 nuovi osservatori. I ricercatori potranno contare sul know-how ottenuto con EHT e anche su tecnologie nuove e più avanzate rispetto a quelle che c’erano al tempo. L’obiettivo è quello di ottenere immagini in risoluzione ancora più elevata e persino dei video dei buchi neri in movimento, così da ottenere dati che possano verificare alcune previsioni della Relatività per quanto riguarda la dinamica dei buchi neri.