Categorie
Economia Tecnologia

Ci serve anche l’AI per risolvere il problema della plastica

Author: Wired

Abbiamo un problema con la plastica che è ben più profondo di quello che crediamo. Quando pensiamo alla plastica, infatti, pensiamo soprattutto alla sua dispersione nell’ambiente e alla necessità di ridurne lo spreco, magari favorendo il riciclo. Oltre all’impatto ambientale, però, esiste anche un impatto climatico della plastica, che è un derivato del petrolio e del gas naturale e che vale il 3,4 per cento delle emissioni globali di gas serra.

Secondo un vecchio ma ricco studio del World Economic Forum, nel 2014 la produzione della plastica assorbiva il 6 per cento della domanda petrolifera mondiale; nel 2050 potrebbe arrivare al 20 per cento, considerata la tendenza all’aumento dei consumi di questo materiale. L’Ocse prevede che al 2060 i rifiuti plastici triplicheranno a livello internazionale, stimolati dalla crescita demografica e dei redditi: la metà di questi scarti finirà in discarica, e meno di un quinto verrà avviato a riciclo.

Già oggi il riciclo è disincentivato in quanto antieconomico. La plastica vergine costa infatti molto meno di quella riciclata perché c’è una sovrabbondanza di etilene – il composto chimico di base, ricavato dagli idrocarburi – sul mercato. Prima del 2019 era il contrario, faceva notare il Financial Times. Poi però si è verificato un forte incremento della produzione petrolchimica in Cina e negli Stati Uniti, e tutto questo surplus di capacità ha fatto crollare i prezzi dell’etilene. In un contesto del genere, i riciclatori faticano a operare e le aziende sono meno propense a distaccarsi dal materiale vergine.

La transizione ecologica ha bisogno dell’industria chimica

La transizione ecologica ha bisogno del riciclo per ridurre i rifiuti di plastica e l’impronta carbonica delle economie in direzione della cosiddetta “circolarità”. E ha bisogno di un’industria chimica in buona salute: c’è plastica nelle automobili elettriche, nelle torri eoliche e nei pannelli solari, solo per limitarci alle principali “tecnologie pulite”; le turbine che trasformano l’energia del vento vengono lubrificate con prodotti a base di petrolio. Invece il settore chimico europeo non è messo bene: a causa di uno squilibrio di competitività rispetto alla Cina e all’America, dove i costi di produzione sono nettamente inferiori, l’Europa si ritrova a importare le plastiche che consuma. Meno produzione petrolchimica interna può significare meno posti di lavoro e meno sicurezza economica; e probabilmente anche più emissioni, considerato il trasporto marittimo di etilene e polimeri vari verso il Vecchio continente.

La petrolchimica potrebbe insomma rivelarsi l’ennesima industria critica – dopo la siderurgia e il fotovoltaico, per esempio – che l’Europa cede all’Asia e in particolare alla Cina. Tra il 2012 e il 2022 gli impianti europei sono passati dal produrre il 20 per cento della plastica mondiale al 14 per cento, secondo Plastics Europe; nello stesso periodo la quota cinese è cresciuta dal 23 al 32 per cento. Lo sbilanciamento sembra destinato ad aggravarsi perché tra il 2019 e il 2024 Pechino si doterà di tanta nuova capacità produttiva di etilene e propilene quanta ne esiste attualmente in Europa, Giappone e Corea messi insieme, dice l’Agenzia internazionale dell’energia. Poiché gas e petrolio sono sia la materia prima delle plastiche e sia il combustibile che ne alimenta i processi manifatturieri, è lecito aspettarsi un aumento delle emissioni.

I nuovi processi di riciclo della plastica

La questione industriale e la questione climatica si intrecciano, dunque; a queste se ne aggiunge una terza, di tipo tecnologico. Il settore ha infatti bisogno di sviluppare metodi di riciclo nuovi e “sostenibili” perché quelli odierni sono poco efficienti: sono costosi, complessi nello svolgimento e limitati nel risultato, dato che la plastica può venire riutilizzata giusto un paio di volte prima che si degradi troppi. Così, al tradizionale riciclo meccanico si stanno affiancando processi nuovi e – in teoria – migliori.

Categorie
Tecnologia

Cosa si è deciso finora a Cop28, la conferenza sul clima dell’Onu

Author: Wired

DubaiCop28, la conferenza sul clima delle Nazioni unite, si avvicina al primo giro di boa a una settimana dall’inizio con la prima bozza del testo sul global stocktake, cioè il primo “tagliando” sugli impegni presi dai Paesi che hanno sottoscritto l’accordo di Parigi siglato nel 2015 per ridurre le emissioni e contenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi rispetto al periodo pre-industriale.

Definire il global stocktake è il compito di questa Cop. Il documento, di 24 pagine, contiene ancora molti punti controversi. La principale è l’eliminazione delle fonti fossili (il cosiddetto phase out), menzionata fin dalla prima bozza, un unicum nelle negoziazioni di Cop. Tuttavia alcuni paesi, Arabia Saudita in testa, hanno chiarito che non intendono accettare l’opzione. Vedremo dove arriveranno le negoziazioni.

Il nuovo fondo di compensazione

Cop28 è partita con il piede sull’acceleratore. Nella giornata di apertura è arrivato l’accordo sul nuovo fondo su loss and damage, ossia le compensazioni per le perdite e danni causati dalla crisi del clima. Lo strumento era nato a Sharm el Sheik nella passata edizione. Mancavano, però, i dettagli operativi. L’interim della gestione è della Banca Mondiale, con disappunto di un blocco di paesi che ritengono l’istituzione troppo prona agli interessi dell’Occidente. In compenso questa componente sarà ben rappresentata nel consiglio. Sono arrivate anche le prime promesse di finanziamento: gli Emirati Arabi mettono 100 milioni, così come la Germania, cui si è aggiunta l’Italia (stessa cifra). Gli Stati Uniti assicurano solo 17 milioni, il Giappone 10 milioni. Un primo passo, anche se nettamente insufficiente: secondo gli esperti potrebbero servire quattrocento miliardi all’anno.

Un accordo per triplicare le rinnovabili. E uno sull’agricoltura

Triplicare le rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030: questo l’impegno sottoscritto da 118 i paesi nella giornata di sabato 2 dicembre. La regia è stata di Europa, Stati Uniti ed Emirati arabi. Tra i firmatari anche Brasile, Nigeria, Australia, Giappone, Canada. Nel documento si parla anche di bloccare i finanziamenti agli impianti alimentati a carbone.

Sono invece 134 i paesi che hanno firmato un testo per integrare l’agricoltura nei piani climatici nazionali. Quella ad alto impatto ambientale è, infatti, responsabile di un quarto delle emissioni serra globali. L’agricoltura può avere un ruolo anche nel sequestro del carbonio attraverso il cosiddetto carbon farming, che sfrutta la naturale capacità del suolo di immagazzinare anidride carbonica e di utilizzarla per migliorarne alcune caratteristiche come la fertilità.

L’inclusione della salute nel programma

Per la prima volta a Cop28 è stata dedicata una intera giornata alla salute. Un passo che consente di allargare l’orizzonte delle conferenze al di fuori della nicchia degli specialisti del clima. Nella dichiarazione su clima e salute, firmata da 123 Stati, l’impegno è a considerare – oltre ai danni fisici causati da caldo, alluvioni, frane e altri eventi estremi – anche l’impatto psicologico. Non solo: tra gli obiettivi c’è anche la riduzione delle emissioni dell’industria sanitaria e del comparto ospedaliero.

Triplicare il nucleare

Venti paesi hanno firmato una dichiarazione con cui si chiede di triplicare il ricorso all’energia nucleare entro il 2050 e di riconoscere ufficialmente il ruolo dell’atomo nel raggiungere le zero emissioni nette, l’obiettivo principale di tutte le conferenze sul clima. Tra gli elementi chiave, anche l’invito alle istituzioni finanziarie internazionali, a partire dalla Banca Mondiale, a incoraggiare l’inclusione dell’energia atomica nella politiche di prestito. Tra i firmatari, Francia, Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, Marocco, Polonia, Romania, Svezia, Ucraina, Emirati arabi. Il problema sono i tempi: le emissioni vanno ridotte entro il 2030 e il piano rischia di non essere compatibile con queste necessità.

Troppi partecipanti

Giovedì 7 dicembre è il giorno di pausa del carrozzone di Cop28. Ottantamila i partecipanti, nuovo record che praticamente raddoppia il precedente di Sharm el Sheik (cinquantamila). Un problema serio per gli organizzatori, specie che per chi dovrà accollarsi il compito in futuro. Peraltro, manca ancora la località di Cop29, che si sarebbe dovuta svolgere in Europa seconda la rotazione delle macro-aree mondiali che regola le assegnazioni, ma vede l’opposizioni della Russia.

È il paradosso dell’inclusività – dice Jacopo Bencini, policy advisor della rete di scienziati Italian Climate Network -. Si è risposto sì alle richieste di incremento badge da parte delle delegazioni, che si sono costruite delle professionalità di cui nei primi anni non disponevano e le portano con sé per dare forza all’azione negoziale; ma si è risposto in maniera affermativa anche alle nuove richieste di rappresentanza da parte di media, osservatori e società civile”. Senza parlare dei lobbisti, un esercito che cresce di anno in anno e comprende molti grandi gruppi coinvolti nelle fonti fossili, in grado di mettere pressione ai governi e ai negoziatori. Quest’anno si è toccato il numero record di 2.456 persone con legami con l’industria del petrolio e delle fonti fossili, secondo la stima della ong Global Witness. Molti di più dei negoziatori dei Paesi più vulnerabili: 1.509.

La conferenza di Schlein

A Cop28 si è palesata anche la segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, che in collegamento dall’Italia ha presentato le proposte sul clima. Stop a nuove trivellazioni, ha detto Schlein, e più aiuti economici per le fasce deboli, la ricetta per attirare anche gli scettici verso i temi della transizione energetica. La leader si è detta preoccupata per la risalita del populismo sulle tematiche ambientali. A domanda di Wired sulla riuscita delle buone intenzioni in voti a livello continentale alle prossime europee di maggio, Schlein ha allargato le braccia e affermato di non averne la certezza: “Ma non si può inseguire il quotidiano. Stiamo provando a seminare per il futuro, che è senz’altro questo”.

Le ipotesi sull’esito

Difficile fare previsioni sull’esito. La certezza è che Cop28 vede contrapposti blocchi di paesi. Quelli più poveri, guidati da colossi come la Cina e India e da attori che vogliono smarcarsi dalla leadership statunitense, hanno la massa critica per far pesare la richiesta di una transizione energetica sostenibile sotto il piano socioeconomico. “Le semplificazioni giornalistiche non aiutano – afferma a Wired Chiara Martinelli, direttrice della rete di ong Can Europe -. Sento parlare di fallimento, ma per la prima volta, per esempio, si parla con questa forza di ritiro dai combustibili fossili”. Non resta che aspettare la fine, prevista per il 12 dicembre.

Categorie
Economia Tecnologia

Prima del nucleare del futuro, il governo deve risolvere la grana delle scorie

Author: Wired

Le reali intenzioni del governo Meloni sul nucleare si misureranno dalla capacità di chiudere l’annosa partita sul deposito nazionale delle scorie. Più della Piattaforma nazionale sul nucleare sostenibile, l’iniziativa del ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase), Gilberto Pichetto Fratin, per stabilire un piano per tornare all’energia atomica, conta la gestione dei rifiuti della precedente stagione nucleare. Un capitolo mai chiuso. Nemmeno ora che ci sarebbero tutti gli elementi per completare il puzzle. Ossia la lista delle 67 località idonee a ospitare il sito dove saranno stoccati 78mila metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media intensità e parcheggiati temporaneamente 17mila ad alta intensità provenienti dalle quattro ex centrali e da altri impianti della filiera dell’atomo.

Perché nessuno di questi 67 candidati vuole ospitare il deposito delle scorie. E siccome l’iter legislativo prevederebbe, a fronte del no comune, di indicare d’imperio da Roma un nome, per non scontentare nessuno, men che meno a pochi mese dalle elezioni amministrative e dalle europee del 2024, la maggioranza di destra apre alle auto-candidature. Sulla tattica c’è sintonia.

Lo scenario:

  1. Il progetto della Lega
  2. L’iter futuro

Il progetto della Lega

In commissione Ambiente alla Camera è stata incardinata una proposta di legge della Lega per aprire ai volontari. Relatore è il deputato del Carroccio, Alessandro Benvenuto. Il progetto, depositato a ottobre dello scorso anno da Riccardo Molinari (capogruppo alla Camera della Lega), punta a riscrivere l’articolo 7 del decreto legislativo 31 del 2010, che definiva le regole per individuare il sito del deposito delle scorie nucleari. La bozza prevede una finestra di 60 giorni per presentare le auto-candidature a Sogin, la società pubblica incaricata del decommissioning nucleare.

I Comuni che vogliono farsi avanti devono dimostrare che il territorio risponda ai criteri ambientali e di sicurezza richiesti dall’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin), l’autorità per la vigilanza dell’atomo in Italia. A quel punto Sogin redige un supplemento della Carta nazionale delle aree idonee (la lista dei siti candidabili) e la invia al Mase, che, dopo l’ok dell’Isin, in 30 giorni dà l’ok alla pubblicazione dell’elenco. Dopodiché Sogin ha un mese per avvertire i Comuni, che a loro volta avranno 60 giorni per alzare la mano, auto-candidarsi e avviare le trattative per la costruzione. Un emendamento simile intende proporre Pichetto Fratin all’interno di un decreto energia. Il governo conta sulla presenza di Comuni intenzionati ad accogliere l’impianto. Ce ne sarebbero almeno quattro Comuni, di cui uno è venuto allo scoperto: è Trino Vercellese, in Piemonte, dove sorge una delle quattro ex centrali nucleari italiane.

L’iter futuro

Ad ogni modo la procedura dell’auto-candidatura allunga di quattro mesi l’iter per situare l’infrastruttura, almeno sulla carta. E occorre capire come si relazionerà con la piattaforma sul nucleare del Mase. L’iniziativa di Pichetto Fratin si articola in sette gruppi di lavoro, che si occuperanno di fusione, fissione ma anche decommissioning. Un lavoro che Sogin ha già fatto. La tabella di marcia dell’iniziativa prevede che entro tre mesi dalla prima riunione, avvenuta il 21 settembre, si concludano le attività di ricognizione. All’inizio del 2024 si raccoglieranno proposte ed entro la metà dell’anno prossimo si passerà a scrivere linee guida su azioni, risorse, investimenti e tempi. Insomma, se la piattaforma vorrà dire la sua sullo smaltimento delle scorie e sul piano di Sogin, che ha accumulato notevoli ritardi, bisognerà attendere il 2024. Come ha detto nei giorni scorsi in un convegno Antonio Zoccoli, presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, riferisce l’agenzia Gea, “se davvero si vuole dare un segnale per investire dobbiamo dire dove le smaltiamo. Se non siamo in grado di farlo non sarà mai possibile costruire una centrale”. Insomma, il governo italiano che più di tutti sta spingendo sul ritorno all’atomo non può tirarsi indietro sulla collocazione delle scorie, se vuole dare un messaggio coerente con i proclami sulle centrali del futuro.

Il deposito comporta un cantiere da 900 milioni di euro, quattromila operai e quattro anni di durata, per realizzare novanta costruzioni in calcestruzzo armato, dette le celle, che a loro volta conterranno i moduli in cemento, dove saranno collocati i contenitori di metallo con i rifiuti. Un sistema a matrioska per sigillarli per i successivi 300 anni. Nell’ultima previsione, l’apertura del deposito è stata prevista per il 2030 ma, a causa degli ultimi 12 mesi di impasse e in attesa che arrivino le auto-candidature, la data va aggiornata. L’impianto porterà in dote anche un parco tecnologico per la ricerca e lo studio sui rifiuti nucleari e, soprattutto, un ristoro economico da contrattare con Sogin.

Categorie
Economia Tecnologia

L’iconico bicchiere di Starbucks ha i giorni contati?

Author: Wired

All’ultima voce dello scontrino stampato in cassa, dopo il cappuccino, il caffè lungo, il matcha tea o qualsiasi altra bevanda venga servita dalla sede di Starbucks nell’Arizona State University, c’è segnato uno sconto da un dollaro. È la politica che la catena applica a chi decida di farsi servire da bere in una tazza portata da casa. La caffetteria ha predisposto una lavastoviglie grande poco più di una scatola da scarpe: in pochi istanti igienizza la tazza del cliente, che poi la consegna al barista e attende di ricevere il proprio ordine. Questo incentivo ha un chiaro obiettivo: entro il 2030 Starbucks vuole abbandonare i bicchieri usa e getta, che rappresentano gran parte dei rifiuti complessivi e delle emissioni di gas serra in capo all’azienda.

Iconici, con il logo color smeraldo raffigurante una sirena dai capelli lunghi, i tradizionali bicchieri di carta rivestita sono a lungo stati considerati un vero e proprio accessorio del brand, arrivando a veicolare da soli un messaggio ben chiaro, soprattutto per chi sceglieva di ordinare da asporto e li portava con sé in strada: “Sto bevendo la marca di caffè più riconoscibile al mondo”. Per una generazione intera la “tazza” di Starbucks è stata una vera e propria pietra miliare della società dei consumi, negli Stati Uniti prima e nel mondo poi. Oggi, visto gli elevati standard di sostenibilità che l’azienda si è data, è destinata a scomparire.

Il lato green di Starbucks

Negli anni la multinazionale ha provato a perseguire diversi obiettivi in chiave ambientale. Alcuni sono stati raggiunti, come la certificazione di efficienza energetica per i nuovi negozi, mentre altri sono stati rivisti o eliminati del tutto. Per esempio, nel 2008 l’azienda dichiarò che entro il 2015 avrebbe voluto che il 100% dei suoi bicchieri fossero riciclabili o riutilizzabili, ma oggi è ancora molto lontana da questo traguardo. La spinta a dismettere le tazze in carta viene anche dai clienti, che dalle aziende ormai si aspettano che rappresentino una parte della soluzione al cambiamento climatico, piuttosto che contribuire a causarlo.

Nel negozio dell’Arizona State University, uno delle dozzine di progetti pilota sorti negli Stati Uniti negli ultimi due anni, se i clienti non portano la propria tazza, ne ricevono una di plastica riutilizzabile con il logo Starbucks. Se la restituiscono, ottengono comunque lo sconto di 1 dollaro. Le tazze troppo danneggiate per essere riutilizzate, insieme ai bicchieri usa e getta per le bevande fredde e ad altra plastica trovata nella spazzatura, vengono inviate al Circular Living Lab dell’università. Lì questi rifiuti vengono triturati, fusi ed estrusi in lunghi pezzi simili a legname, che formeranno poi i contenitori per la restituzione delle tazze riutilizzabili, andando a chiudere anche metaforicamente il cerchio del riciclo.

Il buon esempio

Starbucks non è la prima azienda a spingere verso il riutilizzo delle tazze: dalle grandi aziende in Europa, come Recup in Germania, che utilizza bicchieri riutilizzabili e altri imballaggi alimentari, fino alle caffetterie locali un po’ in tutto il mondo, l’obiettivo da anni è quello di eliminare carta e plastica usa e getta. Ma trattandosi della più grande azienda di caffè al mondo, con oltre 37mila negozi in 86 paesi e un fatturato di 32 miliardi di dollari lo scorso anno, potrebbe imporre un cambiamento in tutto il settore. Negli ultimi anni Starbucks ha costantemente aumentato la quantità di materiale riciclato nei suoi bicchieri di carta usa e getta.

In alcuni mercati lo scorso anno l’azienda ha iniziato a utilizzare bicchieri di carta monouso realizzati con il 30% di materiale riciclato, in crescita spetto al 10% di partenza. Il piano è quello di avere tutte le tazze contenenti il 30% di materiale riciclato in tutti i negozi statunitensi a partire dall’inizio del 2025. Entro la fine dell’anno invece Starbucks vorrebbe ridurre del 15% il quantitativo di polietilene nel rivestimento interno delle tazze che le rende resistenti al calore: per fare ciò, squadre di ingegneri stanno esaminano diverse parti del recipiente per capire dove è possibile utilizzare meno materiale senza indebolirne la struttura.

Categorie
Tecnologia

Come Siena è diventata la prima città d’arte sostenibile in Italia

Author: Wired

Nel Palazzo pubblico di Siena si trova un ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti intitolato Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo. L’opera descrive le conseguenze di una buona amministrazione cittadina e risale a quasi 700 anni fa. “Se guardiamo con attenzione questo quadro scopriamo quella che è stata definita come l’agenda 1338, cioè tra i tanti dettagli del dipinto di Lorenzetti del 1338 si trovano anche i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030”, spiega Federico Maria Pulselli, professore di chimica dell’ambiente e dei beni culturali all’Università di Siena.

Affreschi del Buono e del Cattivo Governo Ambrogio Lorenzetti

Affreschi del Buono e del Cattivo Governo – Ambrogio Lorenzetti (1338-1339)

Perché aldilà della tradizione del Palio e della ricchezza culturale senese, il capoluogo toscano si è distinto rispetto a tutte le altre città d’arte italiane per una qualità oggi sulla bocca di tutti: la sostenibilità. Quest’anno il Comune di Siena è stato la prima località artistica italiana ad essere riconosciuta come sostenibile secondo gli standard del Global sustainable tourism council (Gstc), che ha fissato dei criteri basandosi sui 17 Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite. “Il Gstc è nato da un’iniziativa dell’Onu e della United Nation World Tourism Organization, che chiede alle destinazioni di assolvere a 181 indicatori di sostenibilità che toccano tutti gli aspetti e non solo quelli ambientali come quello gestionale, culturale ed economico – spiega Susanna Gatti, direzione turismo, comunicazione e commercio del Comune di Siena, che ha fatto parte del gruppo operativo che ha intrapreso il percorso di certificazione nel 2021 – è stato un lavoro portato avanti da tutti: enti pubblici, associazioni e confederazioni aziendali”. Insomma, il riconoscimento del valore dell’impegno lungo un cammino di sviluppo sostenibile da parte della comunità cittadina. Ecco quali sono i motivi principali di questo riconoscimento:

  1. Città carbon neutral
  2. Spazi verdi ampi e funzionali
  3. Una città solidale e accessibile
  4. La tradizione culturale ed eno-gastronomica

Città carbon neutral

La storia di Siena come avanguardia italiana della sostenibilità inizia oltre vent’anni fa, nel 2001, con un progetto per comprendere i valori delle emissioni inquinanti nella provincia. “Attraverso il primo bilancio di CO2 abbiamo scoperto che la quantità di assorbimenti delle foreste locali era di circa il 72% rispetto alle emissioni. A quel punto il presidente della Provincia ha detto di voler diventare carbon neutral entro il 2015. – spiega Simone Bastianoni, presidente dell’Alleanza Territoriale Carbon Neutrality e professore all’Università di Siena E così sono state messe in campo le politiche vere, in pochi anni: il piano rifiuti che ha ridotto 40 discariche ad una e la realizzazione di un termovalorizzatore che serve 250mila persone. È stato fatto un Piano energetico provinciale e in 5 anni la Provincia da importatore è diventata esportatrice di energia, grazie allo sviluppo della geotermia, del fotovoltaico, dell’energia da rifiuti”.

Il risultato di questo sforzo massiccio è stato eccezionale, oltre le ambizioni iniziali: Siena è diventata carbon neutral, cioè ha compensato il 100% delle proprie emissioni a livello provinciale, già nel 2011. E da quel momento questo parametro ha continuato a migliorare.

Spazi verdi ampi e funzionali

Ogni senese ha mediamente 28 metri quadri di spazio verde a disposizione. In Italia la media pro-capite di spazio verde per ogni cittadino si aggira intorno ai 31, ma questa considera anche città dove la superficie di verde urbano a disposizione dei cittadini non raggiunge nemmeno i 9 metri quadrati, ovvero il limite minimo stabilito dalla legge. Si tratta in particolare di città d’arte, che per loro conformazione sono più carenti di spazi green. Siena, invece, fa eccezione grazie anche alle cosiddette valli verdi. Su un totale complessivo di circa 160 ettari di superficie racchiusa dalle mura, le valli verdi ammontano a circa 30 ettari, pari al 18 % del totale della superficie all’interno della cinta muraria. Zona in parte dedicata alle coltivazioni che sono approvvigionamento a chilometro zero per la città fin dal Medioevo.