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L’innovativa terapia a mRna che “sabota” i tumori

Author: Wired

Philip Santangelo, ricercatore specializzato in mRna del Winship cancer institute dell’Emory university, sostiene che l’approccio di Strand comporti dei benefici anche quando la terapia viene iniettata direttamente nel tumore: “Se quando viene iniettato il farmaco dovesse fuoriuscire dal tumore, probabilmente [il suo effetto] resterà comunque limitato al cancro”, commenta.

L’Il-12 inoltre ha il vantaggio di poter essere rilevata attraverso le analisi del sangue; ai ricercatori quindi basterà un prelievo per accertare la presenza o l’assenza della proteina. Strand si assicurerà anche di monitorare diversi organi per seguire il percorso tracciato dalla proteina man mano che circola nel corpo dei pazienti. Se funzionerà come previsto, la terapia non verrà rilevata in parti dell’organismo diverse da quella in cui si trova il tumore.

Ma proprio come quelli di un computer, anche i circuiti genetici a volte possono commettere degli errori, afferma Ron Weiss, professore di ingegneria biologica del Massachusetts institute of technology che ha co-fondato Strand e ora lavora come consulente: “Se il circuito genetico dovesse sbagliare una volta ogni dieci, nessuno vorrà affidarsi a questa terapia – riflette Weiss –. Se invece l’errore fosse solo uno ogni milione di utilizzi, allora potrebbe essere accettabile”.

La sperimentazione di Strand, insieme ad altri studi analoghi sull’uso dei circuiti genetici, serviranno a valutare l’adeguatezza di questo tipo di terapie: “I circuiti genetici potrebbero avere un impatto significativo per quanto riguarda la sicurezza e l’efficacia”, continua Weiss, uno dei pionieri dei circuiti genetici, che inizialmente erano basati sul dna. Quando nel 2013 ha iniziato la specializzazione, Becraft è entrato nel laboratorio di Weiss per lavorare sui circuiti genetici basati sull’mRna. All’epoca molti scienziati avevano ancora dubbi sul potenziale di questo approccio.

Adesso, Weiss immagina di poter utilizzare i circuiti genetici per programmare azioni sempre più sofisticate e progettare terapie estremamente precise. “Questo approccio apre la strada allo sviluppo di terapie sufficientemente avanzate da rispondere alla complessità delle funzioni biologiche”, spiega il docente.

Questa articolo è apparso originariamente su Wired US.

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Gli animali domestici che mangerebbero il tuo cadavere

Author: Wired

Se una persona muore improvvisamente in casa, c’è la possibilità che il suo animale domestico mangi parti del suo corpo, come gli arti e il viso. Non si tratta di casi aneddotici: esiste un’ampia documentazione di cani, gatti e addirittura criceti che si sono nutriti del cadavere del loro ex proprietario. Per la scienza forense è un problema non indifferente, che il campo si sta già attrezzando per affrontare. Un articolo pubblicato su Forensic, Science, Medicine and Pathology propone infatti uno sistema per identificare i morsi degli animali sui cadaveri, in modo da non intralciare le analisi.

Tre ricercatori dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Berna, in Svizzera, hanno esaminato 20 anni di registri nazionali, selezionando sette esempi notevoli in cui gli scienziati forensi hanno trovato corpi alterati dagli animali domestici. Ad alcuni dei cadaveri erano stati rimossi il volto, la gola, le labbra e le dita.

Riordinando i dati e confrontandoli con l’animale domestico che aveva prodotto le lesioni, il team ha creato un diagramma di flusso che potrebbe aiutare gli scienziati forensi del futuro. Seguendo lo schema, gli investigatori non avranno problemi a reperire le informazioni corrette sulla scena del decesso e non rischieranno di interpretare erroneamente tagli e ferite prodotti da cani e gatti.

L’attività post mortem degli animali domestici rappresenta un ostacolo per i medici che sono chiamati a certificare un decesso. Lo studio dell’Università di Berna riporta che un animale può nutrirsi intorno all’area di una ferita riportata dal suo proprietario e distruggere così potenziali informazioni utili. I morsi inoltre tendono a essere simili alle lesioni causate da altri esseri umani, come decapitazioni, tagli, segni di graffi, ferite da arma da fuoco e persino morsi di un altro essere umano.

Ma l’azione degli animali su un corpo influisce anche sul processo di decomposizione. Se i tessuti molli come i vasi sanguigni, i muscoli o il grasso vengono rimossi (o divorati, in questo caso), la velocità di decomposizione della carcassa aumenta. Questo effetto è causato non solo dagli animali domestici, ma anche da qualsiasi vertebrato “spazzino”, come i roditori.

I modi in cui cani e gatti si nutrono di un cadavere sono diversi. Nel caso dei cani, uno schema ricorrente è l’attacco alla testa, al collo, alle mani, all’addome, ai piedi e all’area genitale. Per quanto riguarda i felini invece, sono più frequenti morsi e graffi. In generale, i gatti non sono interessati a una carcassa: se decidono di cibarsi di un corpo, è probabile che ne consumino la pelle del viso, della testa e del collo.

Analizzando la letteratura disponibile, gli autori concordano sul fatto che la fame non è l’unica ragione che spinge un animale domestico a cibarsi del corpo suo proprietario. Il processo può essere innescato dalla curiosità. Un cane, per esempio, può leccare il padrone nel tentativo di ottenere una reazione, finendo per morderlo e lacerarne la pelle.

Con questo grafico, puntiamo a standardizzare l’identificazione e la gestione della necrofogia degli animali nei casi pratici e di migliorare i dati di riferimento disponibili per l’analisi comparativa“, conclude lo studio.

Questo articolo è apparso originariamente su Wired en español.

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Le forme di Alzheimer sono diventate 5

Author: Wired

Esistono almeno cinque varianti di Alzheimer con profili di rischio genetico e caratteristiche proteiche distinte, ognuna delle quali richiede probabilmente un trattamento specifico. È quanto emerge da un nuovo studio pubblicato su Nature Aging, in cui un team di neurobiologi ha eseguito un’analisi del liquido cerebrospinale di 419 pazienti affetti dalla malattia, con l’obiettivo di comprendere l’eterogeneità del disturbo e ottenere informazioni utili allo sviluppo di futuri farmaci per il controllo della patologia.

Le varie forme di Alzheimer

Dalla ricerca è emerso che i pazienti che soffrono di Alzheimer presentano cinque serie distinte di proteine e che le varianti sono associate a diversi processi molecolari all’interno dell’organismo. Il sottotipo 1, per esempio, contiene proteine legate all’iper-plasticità neuronale, mentre il sottotipo 2 comporta un’attivazione del sistema immunitario innato e il sottotipo 3 è associato a una compromissione della barriera emato-encefalica.

In passato erano già state individuate tre forme della malattia. Il nuovo studio, guidato dalla scienziata Betty Tijms, ora ne ha identificate altre due. Una è legata all’errata regolazione dell’Rna, mentre la seconda presenta una disfunzione del plesso coroideo (una rete di vasi sanguigni e cellule nei ventricoli).

Ogni sottotipo di Alzheimer presenta geni sensibili a diversi ambienti che producono varie forme di atrofia cerebrale. Mentre una variante causa l’attacco del tessuto cerebrale sano da parte del sistema immunitario, un’altra provoca l’accumulo eccessivo delle proteine amiloidi e Tau, che sono strettamente legate alla patologia. Dalla ricerca emerge che queste firme proteiche erano già presenti nelle fasi pre-cliniche e che sono rimaste stabili con il decorso della malattia. Sono state identificate fino a 3863 proteine, di cui solo 1309 erano presenti in tutti gli individui. La loro distribuzione non sembra essere legata al sesso o all’età.

Trattamenti più mirati

Grazie all’identificazione di questi biomarcatori, i ricercatori ipotizzano che i pazienti debbano essere sottoposti a diversi tipi di trattamenti. Ulteriori ricerche contribuiranno inoltre a determinare gli effetti collaterali dei farmaci a seconda del sottotipo di Alzheimer.

Dati i modelli distinti dei processi molecolari e dei profili di rischio genetico dell’Alzheimer, è probabile che i sottotipi richiedano trattamenti specifici. Per esempio, gli individui che rientrano nel sottotipo 1 possono beneficiare dei trattamenti che attivano il recettore Trem2, il sottotipo 2 degli inibitori del sistema immunitario innato, il sottotipo 3 di oligonucleotidi antisenso che ripristinano l’elaborazione dell’Rna, il sottotipo 4 dell’inibizione dell’infiltrazione dei monociti e il sottotipo 5 di trattamenti cerebrovascolari“, propone lo studio.

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Perché abbiamo collegato un fegato di maiale ogm a una persona

Author: Wired

I chirurghi dell’Università della Pennsylvania hanno annunciato di essere riusciti a collegare esternamente un fegato di maiale geneticamente modificato a una persona cerebralmente morta, e che l’organo ha funzionato normalmente per ben 72 ore. Questo esperimento rappresenta un passo avanti verso l’utilizzo di organi di suini – l’animale più comune nello studio e nella applicazione di xenotrapianti – per aiutare pazienti affetti da gravi malattie e insufficienze epatiche.

I ricercatori responsabili dell’esperimento ritengono che i fegati di maiale potrebbero essere utilizzati per tenere in vita i pazienti che necessitano di un trapianto e sono in attesa di un donatore. Ma potrebbero offrire un supporto temporaneo ai soggetti che hanno problemi al fegato che però potrebbero risolversi: “Se si riesce a fornire un modo per aumentare le possibilità di recupero, forse si può anche evitare il trapianto“, afferma Abraham Shaked, chirurgo dell’Istituto dei trapianti dell’Università della Pennsylvania, che ha supervisionato lo studio.

Essendo l’organo più grande del corpo, il fegato svolge molte funzioni vitali. Produce la bile, necessaria per digerire il cibo e converte l’ammoniaca tossica in una sostanza che viene espulsa dal corpo con l’urina. Ma regola anche la coagulazione del sangue, tiene sotto controllo la glicemia, elimina gli scarti e aiuta a combattere le infezioni. L’abuso di alcol, le infezioni virali, obesità e un eccessivo uso di farmaci possono tuttavia causare il malfunzionamento di questo organo. Ogni anno, negli Stati Uniti, più di 330mila persone hanno bisogno di cure per l’insufficienza epatica. Alcuni si riprendono, ma i soggetti con danni a lungo termine spesso hanno bisogno di un trapianto, e i donatori scarseggiano. Al momento, nel paese ci sono più di 10mila pazienti in lista d’attesa.

L’esperimento

Nell’esperimento, condotto a dicembre dell’anno scorso, i medici hanno mantenuto il paziente collegato all’ossigeno anche dopo aver confermato la morte cerebrale. Il fegato del soggetto è rimasto così intatto, mentre il fegato di maiale è stato posizionato all’interno di un macchinario per la perfusione, comunicando con l’organo umano attraverso dei tubi. Da una vena dell’inguine, i medici hanno fatto fluire il sangue del paziente attraverso il fegato di maiale nella macchina, riportandolo poi nella persona deceduta attraverso la vena del collo. La procedura è stata condotta con il consenso della famiglia, interrompendola dopo tre giorni. In queste 72 ore, il fegato di maiale ha prodotto bile e ha contribuito a mantenere la normale acidità del sangue del paziente, che è rimasto in condizioni stabili per tutto il tempo. “Siamo stati tutti sorpresi perché il fegato aveva ancora un aspetto sano dopo tre giorni“, è stato il commento di Shaked.

Da tempo gli scienziati cercano di utilizzare gli animali per attutire il problema della carenza di donatori di organi umani. Secondo gli esperti i maiali sono stati presi in considerazione come donatori perché sono facilmente reperibili e hanno un’anatomia simile alla nostra. Tuttavia i loro organi non sono naturalmente compatibili con il corpo umano e verrebbero rapidamente rigettati dal sistema immunitario di una persona al momento del trapianto. Anche rimanendo all’esterno del corpo umano, come nell’esperimento condotto dall’università americana, c’è comunque un rischio di rigetto perché il sangue del paziente passa comunque attraverso il fegato del maiale e gli anticorpi presenti nel sangue possono riconoscere l’organo come estraneo e tentare di attaccarlo.

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La terapia psichedelica che aiuta chi soffre di stress post-traumatico

Author: Wired

Nel corso della terapia, tra i veterani sono stati rilevati casi di mal di testa e nausea. Ciononostante, non sono stati registrati effetti collaterali gravi come per esempio problemi cardiaci. I partecipanti allo studio sono poi tornati a Stanford per le valutazioni post-trattamento. A un anno di distanza, Hudak si sente ancora bene.

Sono risultati davvero impressionanti, considerando che i pazienti soffrivano di disturbi gravi e difficili da trattare”, afferma Conor Liston, professore di neuroscienze e psichiatria alla Weill Cornell Medicine, che non ha partecipato allo studio.

Le questioni irrisolte

Tuttavia, resta ancora da capire come esattamente l’ibogaina e gli altri psichedelici influiscano sulla salute mentale. Un’ipotesi è che incrementino la plasticità cerebrale, ovvero la capacità del cervello di rimodellare le proprie connessioni: “La formazione di nuove connessioni o sinapsi tra le cellule cerebrali potrebbe giocare un ruolo importante dal punto di vista terapeutico”, conferma Liston.

Un’altra tesi è che l’ibogaina agisca anche sui livelli della proteina che trasporta la serotonina, il Sert, che rappresenta il bersaglio terapeutico degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, o Ssri, farmaci comunemente usati per il trattamento della depressione.

Ma anche l’effetto dell’ibogaina sulle funzioni cognitive non è chiaro. Il gruppo di ricercatori di Stanford sta cercando di capire come la sostanza abbia migliorato la memoria di lavoro, la velocità di elaborazione e altri processi cognitivi analizzando l’attività cerebrale dei veterani attraverso tecniche di neuroimaging.

Amy Badura Brack, docente di psicologia presso la Creighton University che studia il Ptsd, resta comunque cauta di fronte alle nuove evidenze: “Sebbene i risultati siano significativi, la maggior parte degli studi psicologici riesce a dimostrare l’efficacia di qualsiasi tipo di intervento”, sottolinea. Inoltre, lo studio è stato condotto su un numero ridotto di partecipanti e non includeva né un gruppo di controllo (ovvero di un insieme di individui a cui viene somministrato un placebo al posto dell’ibogaina), né un gruppo di persone che ha ricevuto trattamenti standard con cui poter confrontare gli effetti sui pazienti che invece hanno assunto la terapia.

C’è anche da tenere in considerazione il fatto che per partecipare allo studio i volontari hanno fatto un viaggio in Messico; quest’esperienza potrebbe spiegare in parte i miglioramenti immediati: “Molti di noi sperimentano effetti psicologici positivi, e persino sottili miglioramenti neurologici, dopo un periodo di riposo e rilassamento“, afferma la professoressa.

Resta infine da capire quanto a lungo durino gli effetti della sostanza. Williams racconta di aver continuato a seguire i veterani per un anno insieme ai suoi colleghi, e prevede di pubblicare i dati del monitoraggio nel prossimo futuro. Lo studioso sostiene che i risultati della ricerca preliminare potrebbero aprire la strada a sperimentazioni più ampie, che spera possano avvenire negli Stati Uniti. “Credo che ci sia ancora del lavoro da fare – commenta Williams –, ma i risultati raccolti finora sono davvero incoraggianti”.

Questo articolo è apparso originariamente su Wired US.