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Perché le persone smettono di usare l’Ozempic

Author: Wired

Nel febbraio 2021 i primi esiti di un trial clinico sulla semaglutide – il principio attivo di farmaci come l’Ozempic o il Wegovyper il trattamento dell’obesità si erano rivelati a dir poco sorprendenti. Lo studio in questione mostrava che le persone che assumevano settimanalmente il medicinale perdevano in media il 15% del loro peso corporeo: un risultato straordinario per un farmaco dimagrante.

La ricerca in questione e la successiva approvazione del Wegovy negli Stati Uniti per la terapia contro l’obesità hanno dato il via a una domanda senza precedenti di questa nuova generazione di farmaci. La richiesta del Wegovy è stata talmente alta da costringere la sua casa produttrice, Novo Nordisk, a sospenderne la pubblicità in televisione nel maggio 2023 in modo da guadagnare il tempo necessario a produrre scorte sufficienti. Il problema è che la semaglutide viene utilizzata anche per il trattamento del diabete di tipo 2, e in diversi paesi – tra cui l’Italia – le persone affette dalla patologia ora faticano a reperire i medicinali necessari per le loro cure.

A complicare la situazione, è probabile che le persone che utilizzano questi farmaci con lo scopo di dimagrire dovranno continuare la terapia a oltranza per mantenere il loro peso sotto controllo. Non si tratta di un fatto sorprendente – lo stesso vale anche per altri tipi di trattamenti dimagranti – ma rappresenta un problema spinoso se si considera che un numero significativo di persone smette di assumerli dopo periodi relativamente brevi. Insomma, potremmo disporre di farmaci in grado di produrre perdite di peso significative, ma dovremmo anche chiederci cosa accada alle persone che interrompono il trattamento.

Tassi di abbandono elevati

Questi nuovi medicinali rientrano in un gruppo di farmaci chiamati agonisti del recettore GLP-1 (GLP-1 RA), che funzionano imitando un ormone che regola i livelli di zucchero nel sangue e sopprimendo l’appetito tramite il rallentamento del rilascio del cibo da parte dello stomaco. Sebbene il loro utilizzo per il trattamento dell’obesità sia una novità, questi farmaci vengono utilizzati per la gestione del diabete di tipo 2 già da tempo: il primo GLP-1 RA è stato approvato dalla Food and Drug Administration statunitense nel 2005. Da allora disponiamo di alcuni dati reali sulla durata media delle terapie a base di GLP-1 RA e sui motivi per cui le persone le interrompono.

Uno studio ha analizzato i dati relativi alle prescrizioni di GLP-1 RA nel Regno Unito tra il 2009 e il 2017, scoprendo che dei 589 pazienti che avevano iniziato ad assumere questo tipo di farmaco, il 45% aveva interrotto la cura entro 12 mesi e il 65% entro 24. Lo stesso gruppo di scienziati ha condotto la medesima ricerca anche negli Stati Uniti, includendo però un campione molto più ampio di pazienti diabetici. Il nuovo studio ha rilevato un tasso di abbandono del farmaco simile a quello osservato nel Regno Unito: dopo 12 mesi dall’inizio della terapia, il 47% dei pazienti aveva smesso di prendere il GLP-1 AR, mentre dopo 24 mesi la percentuale saliva al 70%. In media, la durata del periodo di assunzione del farmaco era di circa 13 mesi.

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Il nuovo farmaco per dimagrire che sfida Ozempic

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Il Wegovy, un farmaco di successo per la perdita di peso molto popolare negli Stati Uniti, ha un nuovo rivale. Mercoledì 8 novembre la Food and drug administration (Fda), l’agenzia statunitense che si occupa di regolamentare farmaci e prodotti alimentari, ha approvato un nuovo farmaco per la gestione del peso chiamato Zepbound, prodotto dalla casa farmaceutica americana Eli Lilly.

Il farmaco si somministra attraverso iniezioni settimanali ed è destinato agli adulti in sovrappeso o obesi con almeno una patologia legata al peso, come l’ipertensione, il diabete di tipo 2 o colesterolo alto. Il principio attivo di Zepbound, la tirzepatide, ha già ricevuto il via libera da parte dell’Fda negli Stati Uniti, dove viene venduto con il nome commerciale Mounjaro per il contrasto della glicemia negli adulti affetti da diabete di tipo 2 ed è ampiamente prescritto off-label per la perdita di peso.

Zepbound e Mounjaro sono simili ai più famosi Wegovy e Ozempic, entrambi prodotti dall’azienda danese Novo Nordisk. Questi farmaci imitano un ormone presente naturalmente nell’organismo e prodotto nell’intestino, il Glp-1, che abbassa la glicemia, rallenta lo svuotamento dello stomaco e regola l’appetito. Zepbound e Mounjaro agiscono su un ormone analogo chiamato Gip allo scopo ridurre l’assunzione di cibo.

Anche se in origine sono stati sviluppati per il trattamento del diabete di tipo 2, i farmaci che imitano il Glp-1 vengono sempre più spesso utilizzati anche per la perdita di peso (per la precisione, Wegovy è indicato per la gestione del peso mentre Ozempic è destinato al diabete). Per quanto riguarda il nostro paese, l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) sottolinea che “Ozempic è indicato esclusivamente per il trattamento di adulti affetti da diabete mellito di tipo 2 e che “ogni altro utilizzo, inclusa la gestione del peso, rappresenta un uso off-label e attualmente mette a rischio la disponibilità di Ozempic

Grazie all’aumento della domanda, nel marzo 2022 Ozempic e Wegovy sono stati inseriti nell’elenco dei farmaci carenti stilata dalla Fda. Dal momento che le richieste superano la produzione, Novo Nordisk ha cercato di limitare il numero di persone che possono iniziare ad assumere il Wegovy. Il farmaco viene fornito in dispositivi iniettabili pre-caricati che contengono diverse dosi; i pazienti devono iniziare con un dosaggio basso prima di passare gradualmente a dosi più elevate. Al momento Novo Nordisk sta limitando l’offerta dei dispositivi a basso dosaggio in modo da potersi concentrare sui pazienti attuali mentre lavora per aumentare la sua capacità produttiva.

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Scoperto un meccanismo che promuove la crescita del tumore al pancreas

Author: Wired

Per il tumore al pancreas, ancora oggi tra le neoplasie più letali, potremmo avere un’arma in più. Quella di riuscire a bloccare un nuovo meccanismo che promuove la crescita di questo tumore. A scoprirlo è stato un team di ricercatori dell’Ospedale San Raffaele di Milano, che in un nuovo studio (ancora in fase preclinica) suggerisce come questa potrebbe essere una potenziale strategia terapeutica capace di fermare l’insorgenza del tumore al pancreas in persone a rischio o per potenziare le risposta nei pazienti all’immunoterapia. La ricerca è stata pubblicata su Nature.

I macrofagi e il tumore al pancreas

I ricercatori si sono concentrati sul ruolo di un particolare tipo di cellule del sistema immunitario innato, i macrofagi, che hanno il compito di proteggere i tessuti e attivare rapidamente le risposte contro i patogeni. Nei tumori, tuttavia, sappiamo che i macrofagi possono riprogrammare la loro attività, arrivando addirittura a sostenere la progressione della neoplasia. In particolare, queste cellule associate ai tumori (chiamate Tam) sono già prese di mira dall’immunoterapia, dato che la loro quantità è associata generalmente alla resistenza ai trattamenti, metastasi e una minor sopravvivenza. Tuttavia, le complesse interazione dei macrofagi con l’ambiente tumorale hanno reso difficile fino ad oggi far sì che queste cellule diventassero un bersaglio terapeutico.

“Oltre a essere caratterizzato da un sistema immunitario compromesso che limita l’efficacia anche delle più avanzate immunoterapie, il tumore del pancreas presenta una forte componente infiammatoria”, spiega Renato Ostuni, coordinatore della ricerca. “Ciò è particolarmente rilevante poiché l’insorgenza di danni ai tessuti e le risposte infiammatorie che ne conseguono, quali le pancreatiti, sono noti fattori di rischio per lo sviluppo neoplastico”.

Infiammazione e progressione della malattia

Nel nuovo studio, i ricercatori sono riusciti finalmente a capire da cosa dipenda la capacità dell’infiammazione nel promuovere la crescita tumorale. In particolare si sono concentrati sull’interazione dei macrofagi, chiamati IL-1β+, e alcune cellule tumorali caratterizzate da uno specifico profilo infiammatorio e da un’elevata aggressività nell’adenocarcinoma duttale del pancreas (Pdac). Servendosi di tecnologie innovative, quindi, i ricercatori sono riusciti a individuare un nuovo sottogruppo di macrofagi, chiamati IL-1β+ TAM, capaci di stimolare l’aggressività delle cellule tumorali nelle loro vicinanze. Come spiegano i ricercatori, infatti, gli IL-1β+ TAM sono localizzati in piccole nicchie vicino alle cellule tumorali infiammate ed è proprio questa vicinanza fisica tra macrofagi e cellule tumorali che potrebbe sostenere la progressione della malattia.

Più precisamente, i macrofagi inducono una riprogrammazione infiammatoria e promuovono il rilascio di fattori che, a loro volta, favoriscono lo sviluppo e l’attivazione degli IL-1β+ TAM. “Si tratta di una sorta di un circolo vizioso autoalimentato, commenta Ostuni. “I macrofagi rendono le cellule tumorali più aggressive, e le cellule tumorali riprogrammano i macrofagi in grado di favorire l’infiammazione e la progressione della malattia. Abbiamo condotto esperimenti per studiare come interferire con questo circuito”. E i risultati, seppure ottenuti per ora in studi di laboratorio, sono incoraggianti. “Questo approccio ha portato infatti a una riduzione dell’infiammazione e a un rallentamento della crescita del tumore del pancreas, aggiungono Nicoletta Caronni e Francesco Vittoria, tra gli autori dello studio.

Fermare il circuito

Bloccare questo meccanismo infiammatorio, quindi, potrebbe essere utile per aumentare l’efficacia delle immunoterapie contro il Pdac, ma anche come strategia di prevenzione nelle persone a rischio. “Le mutazioni del dna sono un elemento necessario ma non sufficiente per lo sviluppo di un tumore. Le risposte infiammatorie e i danni ai tessuti possono cooperare con le mutazioni per aumentare il rischio di molte neoplasie, tra cui quelle del pancreas”, conclude Ostuni. Sebbene sia stato fatto un importante passo in avanti, siamo, tuttavia, ancora in una fase preclinica ed è per questo che serviranno ulteriori indagini per comprendere meglio e agire su questo nuovo bersaglio terapeutico.

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Il premio Nobel 2023 per la medicina va a Katalin Karikò e Drew Weissman

Author: Wired

Il premio Nobel 2023 per la fisiologia o la medicina va a Katalin Karikò e Drew Weissman. Come ogni anno, ad assegnare il prestigioso riconoscimento (dal 1901 al 2022 sono stati consegnati 113 premi per questa categoria a 225 vincitori) è stata l’Assemblea Nobel formata dai membri del Karolinska Institutet, a Solna (Svezia), che con la cerimonia di questa mattina, cominciata alle 11.30, ha dato il via alla settimana di assegnazione degli ambitissimi Nobel (2-9 ottobre). Domani, infatti, sarà la volta del Nobel 2023 per la fisica e mercoledì per la chimica. Giovedì 5 ottobre, invece, verrà assegnato il premio per la letteratura, venerdì 6 ottobre per la pace, e infine, a chiudere la settimana dei Nobel lunedì prossimo, 9 ottobre, verrà assegnato il riconoscimento per l’economia.

I Nobel 2021 e 2022 per la medicina

Lo scorso anno il premio Nobel per la medicina è stato assegnato a Svante Pääbo per la nuova disciplina scientifica, la paleogenomica. “Per le sue scoperte riguardanti i genomi degli ominidi estinti e l’evoluzione umana”, così si è espressa la commissione. “Rivelando le differenze genetiche che distinguono tutti gli esseri umani viventi dagli ominidi estinti, le sue scoperte forniscono la base per esplorare ciò che ci rende unicamente umani”. A vincere l’ambito premio nel 2021, invece, sono stati David Julius e Ardem Patapoutian per le loro scoperte sui recettori per la temperatura e il tatto. Grazie a queste è migliorata la comprensione su come funziona il nostro sistema nervoso e sulle interazioni tra i nostri sensi e l’ambiente circostante.

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Cos’è il virus Nipah che sta mettendo in allarme l’India

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Anoop e il suo team sapevano di dover muoversi rapidamente: non esistono trattamenti autorizzati per il Nipah, né tantomeno vaccini. Se il virus avesse preso piede o si fosse diffuso al di fuori dell’area locale, gli effetti avrebbero potuto essere catastrofici. Ma prima avevano bisogno di una conferma.

I raggruppamento di casi sospetti nella stessa famiglia, il collegamento con Ali, i sintomi neurologici preoccupanti, la mancanza di una diagnosi appropriata: “Avevamo forti motivi per sospettare che fosse di nuovo il Nipah”, dice Anoop. “Un’altro campanello d’allarme era il rapido peggioramento del paziente“, continua il medico riferendosi ad Ali. Nel giro di pochi giorni, l’uomo si era ammalato ed era morto. E poi c’era un ultimo segnale: “Ali viveva vicino all’epicentro dell’epidemia di Nipah del 2018 in Kerala“.

Temendo il peggio, l’équipe ha immediatamente isolato i pazienti e inviato alla famiglia dei tamponi da analizzare. Da lì a poco, però, un altro paziente è stato ricoverato con sintomi simili. Il quarantenne Mangalatt Haris, che viveva ad Ayanchery, sempre nel Kerala, è arrivato all’Aster Mims in condizioni critiche ed è morto il giorno stesso. Anche nel suo caso, sono stati analizzati i tamponi nasale alla ricerca di Nipah.

I risultati sono arrivati il giorno successivo. Tre dei pazienti sono risultati positivi al virus: il figlio di Ali, lo zio e Haris, che non sembrava avere legami con la famiglia. L’ospedale in cui Ali era stato curato aveva prelevato dei campioni nasali dall’uomo per escludere la presenza di Covid e di altre infezioni. Anche questi tamponi sono risultati positivi al Nipah. Ali sembrava essere il primo caso della nuova ondata.

Ma era davvero così? Haris non aveva alcun legame con la famiglia di Ali e viveva in un quartiere diverso. Era possibile che avesse contratto il virus da uno sconosciuto. Forse non era il primo caso, ma solo il primo a essere stato individuato fino a quel momento. Anoop stava riflettendo anche sul periodo di incubazione. Il virus si diffonde nell’arco di 14-21 giorni, il che significa che possono passare settimane tra l’infezione e la comparsa dei sintomi della malattia. Se altre persone erano coinvolte nell’ondata, il virus avrebbe potuto essersi già diffuso su larga scala senza essere notato.

Codice rosso

La gravità della situazione non è sfuggita alle autorità statali. Con la conferma delle diagnosi di Nipah, l’ente di salute pubblica del Kerala si è messo in moto. Il 13 settembre, le autorità sanitarie hanno diviso il distretto in zone di contenimento e hanno istituito lockdown rigorosi come fatto per il Covid. Scuole, uffici e trasporti pubblici sono rimasti chiusi, gli spostamenti all’interno e all’esterno delle zone sono stati limitati e solo i negozi essenziali hanno potuto restare aperti, seppur con un orario ridotto. Per precauzione, i residenti hanno dovuto indossare mascherine, praticare il distanziamento sociale e usare disinfettanti per le mani. Gli operatori sanitari statali si sono poi dedicati all’arduo compito di rintracciare i contatti dei contagiati. Hanno isolato chiunque avesse la febbre e hanno rintracciato 1233 persone, ovvero tutte le persone entrate in contatto con Mohammed Ali, la sua famiglia e il secondo paziente Haris nel periodo in cui probabilmente erano contagiosi. Un operatore sanitario è risultato positivo.