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Israele ha ordinato un’evacuazione parziale di Rafah

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L’esercito di Israele ha ordinato a decine di migliaia di persone nella città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, di iniziare l’evacuazione, segnalando che un’attesa invasione terrestre potrebbe essere imminente. L’annuncio potrebbe complicare i colloqui per mediare un cessate il fuoco promossi dagli intermediari internazionali: il Qatar, mediatore chiave, ha avvertito che un’invasione di Rafah potrebbe far fallire i colloqui. Israele ha indicato quest’area come l’ultimo bastione significativo dopo i sette mesi di guerra a Gaza, e i suoi leader hanno ripetutamente affermato di voler effettuare un’invasione terrestre per sconfiggere i militanti di Hamas.

Il tenente colonnello Nadav Shoshani, portavoce dell’esercito israeliano, ha dichiarato che circa centomila persone hanno ricevuto l’ordine di spostarsi dalla parte orientale di Rafah in una zona umanitaria suggerita da Israele e chiamata Muwasi. Il tenente ha detto che Israele si sta preparando a un’operazione “di portata limitata” e non ha specificato se questo possa essere l’inizio di un’operazione più ampia nella città. Shoshani ha dichiarato che Israele ha pubblicato una mappa dell’area di evacuazione e che gli ordini sono stati impartiti attraverso volantini lanciati dal cielo, messaggi di testo e trasmissioni radiofoniche. Inoltre, Israele avrebbe esteso gli aiuti umanitari a Muwasi, compresi ospedali da campo, tende, cibo e acqua.

L’allarme umanitario

La mossa arriva un giorno dopo l’attacco missilistico di Hamas del 5 maggio, che ha ucciso tre soldati israeliani. Le forze di Tel Aviv hanno dichiarato attraverso X che avrebbero agito con “estrema forza” contro i militanti, esortando la popolazione a lasciare l’area immediatamente per la propria sicurezza. L’offensiva israeliana a Rafah nelle ultime settimane ha suscitato un allarme globale, a causa del potenziale danno umanitario, con oltre un milione di civili palestinesi rifugiati in quest’area.

Circa 1,4 milioni di palestinesi sono ammassati nella città e nei suoi dintorni. La maggior parte di loro è fuggita dalle proprie case in altre zone del territorio per sfuggire all’assalto di Israele e ora si trova ad affrontare un altro trasferimento o il rischio di subire un nuovo assalto. Molti si sono rifugiati in tendopoli e rifugi delle Nazioni Unite, e dipendono dagli aiuti internazionali per il cibo, con sistemi igienici e infrastrutture mediche paralizzate. L’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che ha aiutato milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania per decenni, ha avvertito riguardo alle conseguenze devastanti di un’offensiva a Rafah, tra cui i rischi umanitari e la morte di civili.

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Gli aiuti di guerra bastano all’Ucraina?

Author: Wired

In quanto al capo del Cremlino, sa bene che il pacchetto aumenta i costi associati al mantenimento di quella che chiama “operazione militare speciale”, e si è impegnato per una spesa bellica record del 6 percento del Pil nel 2024. L’economia russa sta attualmente vivendo un’impennata trainata da uno stimolo fiscale di tipo keynesiano (l’impatto della spesa governativa e delle politiche flessibili di bilancio) e dalla sostituzione delle importazioni, che ha spinto la domanda interna.

L’economia russa somiglia sempre più a un maratoneta che combatte contro l’influenza ma rafforzato dagli steroidi, che lo spingono avanti nella corsa”, scrive il Carnegie Endowment for International Peace di Washington. Occupazione, redditi medio bassi e gettito fiscale stanno beneficiando del boom bellico, riporta il Financial Times, secondo il quale, “per i cittadini russi, la decisione di sostenere la guerra non è più influenzata solo dalla retorica politica e dalla propaganda; è ora guidata anche dal pragmatismo”.

Se questa politica in qualche modo redistributiva sia sostenibile sul medio-lungo termine dipende da una varietà di fattori, come l’impatto delle sanzioni “secondarie” degli Stati Uniti sulle banche cinesi che fanno affari con la Russia, oppure l’adattamento delle catene di transazioni alla nuova realtà. Fatto sta che per ora le finanze della Russia appaiono stabili, l’economia non è completamente dedicata alla guerra e la mobilitazione totale non c’è ancora. Il che significa che il sostegno costante all’Ucraina da parte dell’Occidente rimarrà essenziale per i prossimi anni.

La ricostruzione ucraina

È una questione da quasi 500 miliardo di euro al momento affrontata con formule vaghe, e una retorica finanziaria che in Europa sembra tornare sparagnina: altro che Piani Marshall o “debito” comune in tutta l’Ue. Una specie di coupon, per Washington, è rappresentato da quei circa 5 miliardi di fondi russi congelati negli Stati Uniti, finiti in un disegno di legge separato dove si autorizza il presidente Biden a trasferirli all’Ucraina. Si tratta di una cifra irrisoria per le esigenze di Kyiv, e infatti gli Stati Uniti stanno esercitando pressioni per accaparrarsi il vero malloppo russo, congelato nell’Unione Europea, che ammonta a circa 280 miliardi di dollari.

Ma il punto più controverso di questa situazione è senza dubbio la mancanza di una base legale per l’utilizzo di quei fondi, che secondo numerosi esperti aprirebbe la strada a potenziali dispute con paesi del Sud del mondo (che potrebbero vantare crediti sulla base di attacchi illegali subiti dall’Occidente in passato) e soprattutto indebolirebbe la capacità del mondo euro-atlantico di attrarre investimenti esteri, rafforzando valute alternative.

Se gli Stati Uniti potrebbero, tutto sommato, sopportare le conseguenze pratiche e legali di questo azzardo, dato che la maggior parte del pacchetto è destinata a rifornire la sua industria bellica, l’Unione Europea, già in preda a una crisi industriale e in una delicata posizione energetica, chiaramente non è disposta a farlo. Serve insomma una strategia diplomatica ed economica più ampia, che dopo due anni di guerra possa colmare il divario produttivo tra Russia e Ucraina, fare ammenda per le previsioni sbagliate e soprattutto offrire agli attori in guerra una piattaforma di convivenza credibile.

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In quali paesi non si festeggia il primo maggio

Author: Wired

Il primo maggio è la giornata in cui si celebra la lotta di chi si è battuto per avere migliori condizioni di lavoro. Le lotte operaie, contadine e poi di chiunque abbia subito salari miserabili, turni e orari di lavoro massacranti, discriminazioni, ricatti e soprusi da parte dei propri datori di lavoro. Una lotta necessaria ancora oggi, soprattutto in Italia dove il pil pro-capite è sceso sotto la media dell’Unione europea. Eppure, la Festa internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici è stata dichiarata il primo maggio di 135 anni fa, nel 1889 a Parigi, durante il congresso della Seconda internazionale socialista, per ricordare una lotta operaia avvenuta negli Stati Uniti, dove però il primo maggio non si è mai festeggiato nulla.

L’origine del primo maggio come Festa dei lavoratori e delle lavoratrici

Nel 1886 la gran parte delle persone lavorava per 12 o 16 ore al giorno: uomini, donne e minorenni, magari con un solo giorno di riposo a settimana. Le organizzazioni sindacali, socialiste e anarchiche all’epoca lottavano per una riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore, qualcosa che oggi sappiamo essere ancora eccessivo e molte aziende hanno cominciato a ridurre il lavoro a 4 giorni a settimana, con ottimi risultati. All’epoca, chi lottava per piccoli miglioramenti veniva represso, picchiato, a volte ucciso e le sue richieste venivano criticate come negative per l’economia. La storia ha insegnato che queste critiche erano false.

Il primo maggio del 1886 i sindacati scelsero di indire uno sciopero generale in tutti gli Stati Uniti per ottenere la giornata lavorativa da 8 giorni, chiamato la Grande rivolta. Le proteste durarono giorni e il 3 maggio gli operai dell’azienda McCormick furono attaccati dalla polizia, che sparò sui lavoratori uccidendone 6. Alla strage, un’associazione anarchica rispose con una nuova protesta pacifica, in piazza Haymarket. Alla manifestazione partecipò anche il sindaco di Chicago, ma alla fine la polizia decise di sgomberare gli operai e qualcuno tirò una bomba contro di loro, uccidendo 7 agenti e ferendone 60. La polizia uccise altri 3 manifestanti.

Nonostante il responsabile non sia mai stato trovato, il sentimento anti-operaio, anti-socialista e anti-anarchico si scatenò in una rappresaglia contro gli anarchici e otto di loro furono accusati di cospirazione e omicidio, nonostante molti di loro non fossero nemmeno presenti alla manifestazione di Haymarket. Furono condannati a morte. Due di loro ottennero il carcere a vita, uno 15 anni di prigione, uno morì in carcere in circostanze misteriose, gli altri furono impiccati. Tre anni dopo, tutti i partiti socialisti europei raccolti a Parigi per la Seconda internazionale, dichiararono il primo maggio Festa internazionale dei lavoratori.

Dove non si festeggia il primo maggio

Da allora, in quasi tutti i paesi europei come Italia, Francia o Germania e in tantissimi altri paesi di tutto il mondo come Tanzania, Messico, Cuba o Cina, il primo maggio si celebrano lavoratori e lavoratrici. In Francia si indossa un fiore di mughetto per buona fortuna, in Germania un garofano rosso in onore dei movimenti socialisti, in Finlandia, lo stesso giorno, si celebra anche l’inizio della primavera. Tuttavia, molti altri la festa del lavoro cade in altre giornate e tra questi si trovano proprio gli Stati Uniti.

Dopo la strage di Haymarket e la nascita della Festa internazionale dei lavoratori, per non legittimare l’origine socialista della festa del primo maggio, il presidente statunitense Grover Cleveland decise di far cadere per legge il Labour day durante ogni primo lunedì di settembre. Da allora, negli Stati Uniti la giornata dedicata a lavoratori e lavoratrici si celebra il primo lunedì di settembre. Stessa cosa accade in Canada. In altri paesi, sia per gli stessi motivi che hanno guidato i politici statunitensi dell’epoca, sia per commemorare episodi delle lotte sindacali nazionali, la festa cade durante altre giornate.

In Svizzera per esempio dipende dai Cantoni e in Australia dagli stati o dai territori di cui è composta, con alcune celebrazioni previste ad ottobre, altre a marzo oppure a maggio. Anche in Nuova Zelanda si festeggia in ottobre, mentre nei Paesi Bassi, in Danimarca e in Giappone il primo maggio non è considerato festa nazionale, ma si svolgono comunque alcune celebrazioni organizzate da partiti, sindacati o associazioni.

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Perché Eli Lilly sta crescendo vertiginosamente

Author: Wired

Un ultimo giorno d’aprile da ricordare per Eli Lilly. La multinazionale farmaceutica statunitense ha infatti aumentato il 30 aprile le proprie previsioni sui ricavi annuali a quota 2 miliardi di dollari, grazie alla forte domanda e al costante aumento della produzione del suo trattamento dimagrante Zepbound e del connesso farmaco per il diabete Mounjaro. Una situazione che, come riporta l’agenzia Reuters, ha fatto anche alzare del 7% il valore delle sue azioni.

Pur aspettandosi una scarsa disponibilità dei farmaci nel breve periodo, la società di Indianapolis ritiene che la loro produzione nella seconda metà del 2024 possa aumentare significativamente. La crescita effettiva delle vendite per i trattamenti per la perdita del peso e per il diabete dipenderà infatti soprattutto da quanto l’azienda sarà in grado di produrre e spedire nel breve termine.

La nostra massima priorità – ha detto alla Cnbc l’amministratore delegato di Eli Lilly David Ricksè realizzare più prodotti e stiamo facendo tutto il possibile per farlo“. La società si sta muovendo in questo senso forte della domanda alle stelle di Zepbound e Mounjaro, che hanno portato il suo valore di mercato a superare quelli di Tesla e Walmart, sfondando quota 700 miliardi di dollari.

Per crescere ulteriormente sarà necessario aspettare almeno luglio, perché, come lo stesso Ricks ha avuto modo di affermare, la produzione di questo tipo di farmaci è un processo ad alta intensità di capitale, tecnicamente complesso e altamente regolamentato e, proprio in questo senso “stiamo facendo di tutto – ha spiegato – per produrre di più, ma il tempo di ritardo è significativo”.

Tra gennaio e marzo 2024 Zepbound ha registrato vendite pari a 517,4 milioni di dollari, contro aspettative che erano ferme a quota 418,20 milioni. Gli incassi relativi a Mounjaro sono invece saliti a 1,81 miliardi a fronte dei 568,5 milioni del 2023. Le stime erano tuttavia in questo caso più rosee (2,08 miliardi). Nel dettaglio, Eli Lilly prevede adesso per il 2024 ricavi compresi tra i 42,4 e i 43,6 miliardi, migliorando la forbice precedente, che si attestava tra i 40,4 e i 41,6 miliardi.

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Che cosa c’è dietro il ban della Cina sui microchip americani

Author: Wired

Dopo aver tentato a lungo di produrre internamente i chip più avanzati, ed essersi scontrata non solo con le contromosse americane ma anche col fatto che la supply chain dei semiconduttori di ultima generazione è così complessa e stratificata da non poter essere facilmente “appropriata”, nell’ultimo anno la Cina sembra aver cambiato strategia. Come ha dichiarato lo scorso dicembre Gina Raimondo, segretaria al commercio dell’amministrazione Biden: “la quantità di denaro che la Cina sta immettendo per il sostegno della sua industria causerà un eccesso di capacità di legacy chip”. Col termine “legacy chip” si intendono chip dalle prestazioni “standard”, quindi non l’avanguardia della tecnologia.

Dal punto di vista cinese, i “legacy chip” hanno il vantaggio di poter essere prodotti senza bisogno di ricorrere a macchinari e componenti sotto veto americano e di essere caratterizzati da uno yield molto alto (lo yield – traducibile come rendimento – è il dato che fornisce la percentuale di chip funzionanti sul totale di quelli prodotti ed è una misura importante per valutare la sostenibilità economica di un ciclo di produzione di chip).

Secondo stime di febbraio 2024, si prevede che la produzione cinese di questo tipo di chip crescerà del 60% nel corso dei prossimi tre anni, e potrebbe raddoppiare entro i prossimi cinque. A oggi la Cina possiede 44 fab, tutte in grado di produrre legacy chip, con “processi maturi” e quindi a rendimento elevato. A questi impianti già operativi, punta ad affiancare 22 ulteriori fab e, a questo scopo, nel 2023 ha aumentato gli ordini di macchinari litografici (seppure non di “ultima generazione”) del 1050% rispetto all’anno precedente.

Con queste cifre, è evidente che la Cina miri a divenire l’epicentro globale della manifattura di “legacy chip”. Circuiti con cui forse non si addestrano le AI ma si fa funzionare l’elettronica di tutti i giorni: smartphone, automobili, elettrodomestici intelligenti e così via.  Una categoria a cui appartengono gran parte dei chip usati nei processi basilari dei sistemi di telecomunicazione e nell’informatica di tutti i giorni, ovvero esattamente quelli di cui Xi Jinping ha di recente “bandito” l’importazione.

È dunque in quest’ottica che, come detto, si può leggere la notizia di questo ban, ovvero un modo di ottenere “due piccioni con una fava”. Non solo arrecare un danno economico ai grandi nomi del chipmaking americano ma anche assicurare una domanda tale da sostenere, insieme ai sussidi diretti, lo sviluppo dell’industria cinese dei semiconduttori in una fase in cui essa sta cercando di prendere possesso del maggiore numero possibile di quote del mercato dei “legacy chip”.

Se la strategia avesse successo la Cina riuscirebbe a esercitare un controllo sul prezzo e sulle dinamiche di domanda e offerta dei “legacy chip”, acquisendo di conseguenza un peso specifico rispetto all’intera supply chain, tale per cui guadagnerebbe una nuova, e notevole, leva negoziale per controbilanciare l’efficacia dei veti americani, soprattutto sulle esportazioni di tecnologie non prodotte direttamente dagli Usa.