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L’Europol dichiara guerra alla crittografia end-to-end

Author: Wired

L’Ufficio di polizia europeo (Europol) ha diffuso una dichiarazione per chiedere la rimozione della crittografia end-to-end dalle app di messaggistica istantanea come WhatsApp e Messenger, in quanto la tecnologia starebbe minando la capacità dell’ente di garantire la sicurezza dei cittadini europei. “Le nostre case stanno diventando più pericolose delle strade perché il crimine si è spostato online. Le aziende tecnologiche hanno la responsabilità sociale di sviluppare un ambiente più sicuro in cui le forze dell’ordine e la giustizia possano svolgere il loro lavoro“, ha detto Catherine De Bolle, direttore esecutivo di Europol.

L’appello dell’Europol

Il documento sottolinea che l’Europol è a favore dello sviluppo di innovazioni che rafforzino la privacy dei cittadini online. “Tuttavia, non accettiamo che sia necessario fare una scelta tra sicurezza informatica e sicurezza pubblica”. L’organizzazione ha invitato le aziende tecnologiche a incorporare strumenti di sicurezza nella progettazione delle proprie applicazioni in modo da “garantire la capacità di identificare e segnalare attività dannose e illegali”, e ha esortato i governi europei a definire quadri normativi che “forniscano le informazioni necessarie per mantenere la sicurezza dei cittadini“.

Per stessa ammissione dell’Europol, l’allarme è stato innescato dalla decisione da parte di Meta, all’inizio di quest’anno, di implementare la crittografia end-to-end nel suo ecosistema di comunicazione. Il colosso di Mark Zuckerberg ha adottato un protocollo Signal chiamato “perfect forward secrecy” che nel caso di una compromissione di una chiave a lungo termine assicura che le chiavi di sessione rimangono riservate. La mossa dell’azienda risponde in parte alla necessità di conformarsi ai requisiti del Digital markets act, la normativa europea che prevede che i principali servizi di messaggistica siano interoperabili. La stessa direzione in cui va lo standard di Signal, che consente agli utenti di comunicare tra le varie piattaforme con lo stesso livello di sicurezza e privacy.

Quando un’app di messaggistica viene installata su uno smartphone, la maggior parte dei sistemi di crittografia genera una coppia di chiavi: una pubblica e una privata. La chiave pubblica viene inviata al server della piattaforma di comunicazione e utilizzata per identificare l’utente, mentre quella privata rimane sul dispositivo dell’utente per convalidare l’autenticità. Se la chiave privata viene compromessa, tutti i messaggi possono essere esposti alla decrittazione. Anche se l’utente ha cancellato le informazioni dal dispositivo, il codice può comunque rivelare qualsiasi messaggio. Il protocollo Signal, invece, utilizza un sistema che genera password private temporanee per ogni messaggio e utente. Il meccanismo garantisce che solo le persone coinvolte in una conversazione conoscano il contenuto della stessa. Le informazioni sono inaccessibili anche alle società che gestiscono i servizi.

Attacco alla crittografia end-to-end

Le misure di privacy attualmente in fase di implementazione, come la crittografia end-to-end, impediranno alle aziende tecnologiche di rilevare eventuali illeciti sulle loro piattaforme. Inoltre, ostacoleranno la capacità delle forze dell’ordine di ottenere e utilizzare queste prove nelle indagini per prevenire e perseguire i reati più gravi, come gli abusi sessuali sui minori, il traffico di esseri umani, il contrabbando di droga, gli omicidi, la criminalità economica e il terrorismo“, ha avvertito Europol.

La dichiarazione dell’ufficio di polizia dell’Unione europea è una delle più esplicite prese di posizione pubbliche contro la crittografia. Nell’aprile dello scorso anno, la Virtual global taskforce, l’agenzia internazionale di polizia che si occupa di contrastare gli abusi sessuali sui minori online, si è scagliata contro le big tech per la massiccia implementazione della crittografia al fine di garantire il massimo livello di privacy per gli utenti. Secondo l’associazione le funzioni che garantiscono la privacy “mettono a rischio la sicurezza dei bambini“, rendendo molto più complesso per la polizia identificare i colpevoli di abusi.

Nel 2022 la Commissione europea ha presentato una bozza che mirava a eliminare di fatto la crittografia end-to-end sulle piattaforme di messaggistica istantanea. Il regolamento sugli abusi sessuali sui minori (Csar) è stato valutato e votato dal Parlamento in ottobre, ma i legislatori hanno respinto la proposta della commissaria europea per gli Affari interni Ylva Johansson.

Questo articolo è apparso precedentemente su Wired en español.

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Economia Tecnologia

Sul futuro dell’auto e dell’inquinamento l’Europa ha fatto un gran pasticcio

Author: Wired

Cinque anni dopo, il mondo è profondamente diverso. Pandemia, inflazione, invasione dell’Ucraina, crisi energetica, assedio a Gaza hanno precipitato il mondo in un’incertezza da Guerra fredda: archiviato il sogno della globalizzazione e di un governo mondiale, il declino dell’occidente è ormai un fatto acclarato. Il baricentro sta in Asia. Le materie prime, che un tempo arrivavano senza problemi sulla scorta di eredità coloniali e accordi vantaggiosi, sono diventante un problema strategico: il petrolio  (e quindi il Medio Oriente) non è più centrale, il gas russo è inutilizzabile, le nuove vetture necessitano di biocarburanti, litio, cobalto provenienti da Cina e Africa. Non funzionano più neanche le catene logistiche, su cui negli ultimi vent’anni ha riposato il commercio internazionale e che sono diventate, improvvisamente, inaffidabili.                                                                                      

Le auto inquinano come 12 anni fa

Il rapporto della Corte dei conti europea riconosce che l’Unione ha compiuto progressi nel ridurre le emissioni di gas a effetto serra in generale, ma non nel settore dei trasporti, che sul continente assomma circa un quarto delle emissioni carboniche. Di tale quota, metà proviene dalle sole autovetture. “Il Green Deal non porterà alcun frutto, se non verrà affrontato il problema delle emissioni delle macchine. Dobbiamo però riconoscere che, nonostante le nobili ambizioni e i requisiti rigorosi, la maggior parte delle auto convenzionali emette ancora la stessa quantità di anidride carbonica di 12 anni fa”, riprende Nikolaos Milionis. La spiegazione c’è, ed è semplice, prosegue: “Nonostante l’accresciuta efficienza dei motori, le auto pesano in media circa il 10 % in più e hanno bisogno di maggiore  potenza per spostarsi (circa +25 %)”.

Considerazioni che non piaceranno all’industria automotive, e che rispondono a chi vorrebbe ridurre la posizione a un servizio ai grandi gruppo. Non solo. Si legge nel rapporto: “Gli auditor hanno riscontrato che le auto ibride ricaricabili (plug-in), un tempo ritenute un’alternativa più ecologica dei veicoli tradizionali, sono ancora classificate ‘a basse emissioni’ anche se il divario tra le emissioni misurate in condizioni di laboratorio e quelle misurate su strada è in media del 250%”. Significa che gli esami vengono fatti male. E per chi ricorda il Dieselgate (lo scandalo sulle emissioni delle auto diesel), non è difficile immaginare attività di lobbying in questo senso.

Combustibili alternativi

Sul fronte dei combustibili alternativi (biocarburanti, elettrocarburanti e idrogeno) non va meglio. Sui biocarburanti, la Corte rileva la mancanza di una tabella di marcia “chiara e stabile per risolvere i problemi di lungo termine del settore: la quantità di combustibile disponibile, i costi e la compatibilità ambientale”. In poche parole, “non essendo disponibili su vasta scala, i biocarburanti non possono rappresentare un’alternativa affidabile e credibile per le nostre auto”, riprende Milionis. E poi: la biomassa prodotta sul mercato interno non è sufficiente per offrire una valida alternativa. “Se questa biomassa è prevalentemente importata da paesi terzi, viene meno l’obiettivo dell’autonomia strategica in materia di energia. Inoltre, altri settori produttivi (per esempio, industria alimentare, farmaceutica e dei prodotti cosmetici) fanno concorrenza al settore automobilistico per l’uso delle stesse materie prime”. “I biocarburanti non sono ancora competitivi dal punto di vista economico: sono semplicemente più cari di quelli a base di carbonio, e le quote di emissioni costano attualmente meno che ridurre le emissioni di CO2 utilizzandoli”. ce n’è anche per la sostenibilità: “La compatibilità ambientale dei biocarburanti è sovrastimata”. “Le materie prime per la produzione di biocarburanti possono essere distruttive per gli ecosistemi e nocive per la biodiversità nonché la qualità del suolo e delle acque: sollevano quindi inevitabilmente questioni etiche sull’ordine di priorità tra beni alimentari e carburanti”.

Il rompicapo elettrico

È il turno dei veicoli elettrici, definiti un “rompicapo”: L’industria europea delle batterie è in ritardo rispetto ai concorrenti mondiali. Meno del 10 % della produzione mondiale di batterie è localizzata in Europa e per la stragrande maggioranza è in mano ad imprese non europee. A livello mondiale, la Cina rappresenta un impressionante 76 % del totale”, si legge. “L’industria delle batterie dell’Ue è frenata in particolare dall’eccessiva dipendenza dalle importazioni di risorse da paesi terzi, con i quali non sono stati sottoscritti adeguati accordi commerciali. L’87 % delle importazioni di litio grezzo proviene dall’Australia, l’80 % delle importazioni di manganese dal Sud Africa e dal Gabon, il 68 % del cobalto dalla Repubblica democratica del Congo e il 40 % della grafite dalla Cina”. Il costo delle batterie in Europa è troppo alto rispetto ai produttori esteri, e “potrebbe anche rendere proibitivi i veicoli elettrici per gran parte della popolazione”: le vendite aumentano grazie alle sovvenzioni pubbliche, si spiega, ma a uscire dalle concessionarie e finire nei garage sono soprattutto veicoli sopra i trentamila euro.

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Economia Tecnologia

Cosa può fare l’Europa per smarcarsi dai pannelli solari cinesi

Author: Wired

Il 3 aprile la Commissione europea ha avviato due indagini su altrettante società cinesi produttrici di pannelli solari sospettate di aver ricevuto sussidi statali dall’estero. Benché possa apparire come una mossa motivata da intenti puramente economici – garantire la parità di condizioni tra le aziende che competono sul mercato unico –, la doppia inchiesta ha anche una ragione politica. Il commissario al mercato interno Thierry Breton ha infatti dichiarato che “i pannelli solari sono diventati strategicamente importanti per l’Europa”: le indagini non riguardano una merce qualunque, insomma, ma un prodotto critico per la generazione energetica, l’occupazione e la sicurezza del blocco.

I dispositivi fotovoltaici svolgeranno un ruolo primario nella decarbonizzazione del sistema elettrico europeo al 2030. Il problema è che l’anno scorso più del 97% dei pannelli solari installati nell’Unione erano stati precedentemente importati, innanzitutto dalla Cina che ne è la maggiore produttrice al mondo. È un problema perché la transizione ecologica, oltre a ridurre le emissioni, dovrebbe rafforzare la sicurezza energetica dell’Europa; ma allo stato attuale delle cose Bruxelles rischia di sostituire la dipendenza da Mosca per il gas con una dipendenza da Pechino per le tecnologie verdi: batterie, veicoli elettrici, turbine eoliche, moduli solari.

La crisi dell’industria solare europea

Per non mancare la rivoluzione industriale della sostenibilità, circa un anno fa la Commissione europea ha presentato una legge – il Net-Zero Industry Act – per stimolare la manifattura delle cosiddette clean tech, fissando anche degli obiettivi minimi di produzione interna: entro il 2030 l’Unione dovrà produrre da sé il 40% dei dispositivi utili alla decarbonizzazione.

A febbraio il Parlamento e il Consiglio hanno raggiunto un accordo sul Net-Zero Industry Act. Intanto, l’industria fotovoltaica europea è sull’orlo del precipizio. Lo dice l’European Solar Manufacturing Council, l’associazione di rappresentanza del settore, che avverte: in assenza di misure eccezionali di sostegno, l’impossibilità di competere con i materiali e i pannelli cinesi – abbondanti e a prezzi convenientissimi – porterà le aziende del Vecchio continente a dichiarare bancarotta oppure a trasferirsi negli Stati Uniti per accedere agli incentivi dell’amministrazione Biden. Effettivamente, la società norvegese Norwegian Crystals ha presentato richiesta di fallimento. Rec, norvegese anch’essa, ha interrotto le attività in uno stabilimento. La francese Systovi è in cerca di un acquirente. La svizzera Meyer Burger ha deciso di chiudere una grossa fabbrica in Germania per concentrare gli investimenti in America.

Il ruolo della Cina

La crisi, dunque, è generale. I cinesi hanno un vantaggio di costo che sembra imbattibile: riescono a costruire pannelli solari a 16-18,9 centesimi per watt di capacità di generazione, mentre le aziende europee sono intorno ai 24-30 centesimi per watt. In Cina la manodopera costa meno, ma soprattutto costa meno l’elettricità che alimenta le fabbriche, in gran parte fornita dal carbone; lo stato, poi, offre alle imprese terre a prezzi di favore e prestiti a tassi vantaggiosi. In Europa è il contrario: l’elettricità è cara – la produzione del polisilicio, la materia prima dei pannelli, ne consuma tanta – e i terreni industriali pure.

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Tecnologia

L’Europa vuole copiare lo scudo anti-missili di Israele

Author: Wired

In Europa l’industria della difesa è in fermento, spinta da nuove e vecchie sfide, come i due anni di guerra in Ucraina, le crescenti minacce che arrivano dalla Russia o la possibile vittoria dell’ex presidente Donald Trump alle prossime elezioni americane. Nuovi sistemi di difesa e nuovi player industriali si affacciano all’orizzonte, per migliorare e aggiornare le difese esistenti: di recente si è discusso molto dell’ipotesi di adottare nel Vecchio continente un sistema Iron Dome, il dispositivo israeliano progettato per contrastare le armi a corto raggio.

Iron Dome è uno strumento, fisso o mobile, che usa il radar per tracciare i razzi e può distinguere tra quelli che potrebbero colpire aree edificate: i missili intercettori vengono indirizzati solo contro i razzi che potrebbero minacciare zone popolate. Il sistema è costituito da batterie dislocate in tutto Israele, ciascuna con tre o quattro lanciatori che possono sparare venti missili intercettori. Da tempo, nelle capitali europee si discute di una sua possibile adozione sul territorio dell’Unione, con perplessità sulle applicazioni pratiche e tensioni diplomatiche sull’asse franco-tedesco.

La strategia europea

Ad aprile il dibattito in Europa sono state le parole di Armin Papperger, amministratore delegato di Rheinmetall, azienda tedesca leader in Europa nel settore della difesa. Papperger ha detto che la difesa aerea a corto raggio è “qualcosa che in Europa vorrebbero creare“, riferendosi all’iniziativa European Sky Shield, guidata dal governo tedesco e sostenuta da oltre venti Paesi, che punta allo sviluppo congiunto di nuovi sistemi di difesa aerea. “Penso anche che sia una buona idea avere una soluzione europea simile a Iron Dome“, ha aggiunto Papperger al Financial Times. Secondo molti analisti militari, però, schermare ampie zone dell’Europa continentale con un sistema analogo potrebbe essere molto complicato e presentare sfide differenti rispetto al territorio israeliano.

Quello che è certo è che lo sviluppo di sistemi di difesa aerea e missilistica è una priorità per Bruxelles, che sta spingendo le capitali europee a lavorare insieme sulle tecnologie per colmare le lacune militari dell’Unione. La strategia di difesa europea richiede un miglioramento delle “capacità relative alla difesa aerea e missilistica europea integrata” entro il 2035, e una nuova proposta industriale presentata recentemente dalla Commissione europea prevede un sostegno di bilancio a “progetti europei di difesa di interesse comune“. Bruxelles sta preparando anche una nuova strategia per incrementare gli acquisti congiunti e ha fissato l’obiettivo di rifornirsi da produttori europei anziché statunitensi.

L’idea di adottare Iron Dome sul suolo europeo non è però una novità. Da tempo si parla di questa possibilità e da quando il sistema è diventato operativo nel 2011, molti governi hanno acquistato o pensato di acquistare componenti del radar o l’intero Iron Dome per proteggere il proprio Paese. Negli ultimi dieci anni, nazioni come Ungheria, Romania e Cipro nel 2022 hanno mostrato interesse per il sistema; in generale, Israele ha trovato un numero significativo di acquirenti in tutto il mondo, dall’Asia al Medio Oriente, recentemente anche in Marocco e probabilmente negli Emirati Arabi Uniti. Il ministero della Difesa dell’Azerbaijan, per esempio, ha acquistato la sua versione dell’Iron Dome nel maggio 2021. Secondo gli esperti l’Azerbaijan sarebbe stato tra i primi Paesi a confermare l’acquisto del dispositivo, in risposta all’annoso conflitto con l’Armenia per il territorio del Nagorno-Karabakh.

Nervosismo tra Berlino e Parigi

Anche la Germania non è nuova all’adozione di strumentazione israeliana. La Commissione per il bilancio del Bundestag, il parlamento tedesco, nel giugno scorso ha sbloccato una prima tranche da oltre cinquecento milioni di euro per l’acquisto del sistema antimissile Arrow-3 di fabbricazione israeliana. Arrow-3 è in uso in Israele dal 2017 come parte della rete di protezione ed è in grado di intercettare missili balistici sparati da una distanza massima di 2.400 chilometri. Questa operazione ha suscitato reazioni discordanti in Europa, suggerendo divisioni che potrebbero riproporsi nuovamente in caso di adozione dell’Iron Dome.

Il progetto aveva fatto infuriare i funzionari francesi, che avevano bollato l’idea come strategicamente confusa e mal concepita, poiché ometteva i sistemi di difesa aerea di fabbricazione europea. Il tema dell’autonomia strategica europea è uno degli assi portanti del pensiero del presidente francese Emmanuel Macron, che poco dopo l’annuncio tedesco aveva invitato le nazioni europee a cercare una maggiore indipendenza nella difesa dello spazio aereo, suggerendo di non fare troppo affidamento sugli Stati Uniti o su altri partner, una questione a lungo dibattuta che ha assunto una nuova urgenza a causa della guerra in Ucraina. Lo European Sky Shield infatti è composto da oltre quindici nazioni europee, ma non la Francia.

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I bombardamenti russi in Ucraina fanno impennare il prezzo del gas in Europa

Author: Wired

Gli attacchi della Russia contro le città e le infrastrutture energetiche dell’Ucraina stanno diventando più frequenti e devastanti. I rallentamenti nella fornitura di aiuti militari occidentali e le scorte in continua diminuzione hanno reso l’Ucraina più vulnerabile e con lei anche le forniture energetiche dell’Unione europea. Attraverso l’Ucraina transita infatti ancora molto gas diretto in Europa e a ogni attacco russo contro gasdotti o depositi i prezzi crescono irrimediabilmente.

Negli ultimi giorni i bombardamenti russi hanno gravemente danneggiato la più grande centrale elettrica della regione di Kyiv, lasciando tantissime persone senza luce. Nello stesso attacco, la Russia ha colpito anche due impianti di stoccaggio sotterraneo del gas ucraino, di proprietà della società statale Naftogaz Ukrainy, facendo impennare i prezzi del gas.

Per colpire le infrastrutture le forze russe hanno impiegato oltre 80 tra missili e droni, compiendo l’attacco alle prime ore dell’11 aprile. Come riporta Bloomberg, il direttore di Naftogaz, Oleksiy Chernyshov, ha fatto sapere che le strutture sono ancora operative, nonostante siano state danneggiate, e alcuni specialisti stanno valutando la portata effettiva dei danni. Fortunatamente, nessun civile o dipendente della compagnia è stato coinvolto nell’attacco.

I depositi ucraini vengono usate per stoccare gas acquistato da agenzie europee, che hanno affittato circa 2,5 miliardi di metri cubi di spazio di stoccaggio su circa 10 disponibili, come riporta il Kyiv Indipendent. Per questo motivo, contribuire alla difesa ucraina significa contribuire alla difesa di risorse e infrastrutture strategiche anche per l’Unione europea, tutelando quindi anche la popolazione da fluttuazioni di prezzo e da eventuali carenze energetiche.

Tuttavia, con il proseguire dell’invasione di Gaza da parte di Israele, l’aumentare delle tensioni in Medio Oriente e le prossime elezioni europee e negli Stati Uniti, che stanno distogliendo l’attenzione della politica dall’aggressione russa, gli alleati occidentali non stanno più garantendo un regolare flusso di aiuti militari all’Ucraina. Scarseggiano in particolare munizioni per l’artiglieria e per i sistemi antiaerei, vitali sia per respingere le offensive russe sia per proteggere città e infrastrutture ucraine.