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L’assalto degli attivisti per il clima alla gigafactory di Tesla in Germania

Author: Wired

Nella giornata di venerdì, un gruppo di attivisti ambientali ha tentato di assaltare una fabbrica di Tesla a Gruenheide, in Germania, al culmine di una manifestazione di cinque giorni contro i piani di espansione locale della casa automobilistica di Elon Musk.

Il tentativo di irruzione nella gigafactory

I video diffusi sui social media mostrano una folla di manifestanti vestiti di nero correre verso uno degli edifici dell’impianto di Tesla.

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800 persone sono entrate nella proprietà della gigafactory“, ha dichiarato a Wired US Lucia Mende, portavoce del gruppo Disrupt Tesla. Mende ha aggiunto che al momento gli attivisti si stavano dirigendo verso un campo d’aviazione in disuso, che stando a quanto riferito recentemente dai media tedeschi oggi è usato da Tesla per stoccare migliaia di auto invendute. Vogliono impedire l’espansione della fabbrica“, ha continuato la portavoce del gruppo.

Diverse persone stanno cercando di entrare senza autorizzazione nella fabbrica Tesla –. ha dichiarato la polizia locale su X intorno a mezzogiorno –. Siamo al lavoro per impedirlo“. Mende ha riportato anche che diversi manifestanti sono stati arrestati, senza però riuscire a indicare un numero preciso. Né la polizia tedesca né Tesla hanno risposto immediatamente a una richiesta di commento di Wired US.

Dalla foresta abbiamo visto che i manifestanti hanno sfondato le linee della polizia per entrare nella fabbrica – ha raccontato a Wired una delle manifestanti, Mara, portavoce del gruppo Stop Tesla –. Siamo tutti uniti per fermare Tesla“.

I motivi della protesta

Lo stabilimento tedesco di Tesla, che produce sia auto elettriche che batterie, è da mesi oggetto di proteste da parte degli attivisti per il clima, che definiscono l’ambientalismo dell’azienda una farsa.

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Gli aiuti di guerra bastano all’Ucraina?

Author: Wired

In quanto al capo del Cremlino, sa bene che il pacchetto aumenta i costi associati al mantenimento di quella che chiama “operazione militare speciale”, e si è impegnato per una spesa bellica record del 6 percento del Pil nel 2024. L’economia russa sta attualmente vivendo un’impennata trainata da uno stimolo fiscale di tipo keynesiano (l’impatto della spesa governativa e delle politiche flessibili di bilancio) e dalla sostituzione delle importazioni, che ha spinto la domanda interna.

L’economia russa somiglia sempre più a un maratoneta che combatte contro l’influenza ma rafforzato dagli steroidi, che lo spingono avanti nella corsa”, scrive il Carnegie Endowment for International Peace di Washington. Occupazione, redditi medio bassi e gettito fiscale stanno beneficiando del boom bellico, riporta il Financial Times, secondo il quale, “per i cittadini russi, la decisione di sostenere la guerra non è più influenzata solo dalla retorica politica e dalla propaganda; è ora guidata anche dal pragmatismo”.

Se questa politica in qualche modo redistributiva sia sostenibile sul medio-lungo termine dipende da una varietà di fattori, come l’impatto delle sanzioni “secondarie” degli Stati Uniti sulle banche cinesi che fanno affari con la Russia, oppure l’adattamento delle catene di transazioni alla nuova realtà. Fatto sta che per ora le finanze della Russia appaiono stabili, l’economia non è completamente dedicata alla guerra e la mobilitazione totale non c’è ancora. Il che significa che il sostegno costante all’Ucraina da parte dell’Occidente rimarrà essenziale per i prossimi anni.

La ricostruzione ucraina

È una questione da quasi 500 miliardo di euro al momento affrontata con formule vaghe, e una retorica finanziaria che in Europa sembra tornare sparagnina: altro che Piani Marshall o “debito” comune in tutta l’Ue. Una specie di coupon, per Washington, è rappresentato da quei circa 5 miliardi di fondi russi congelati negli Stati Uniti, finiti in un disegno di legge separato dove si autorizza il presidente Biden a trasferirli all’Ucraina. Si tratta di una cifra irrisoria per le esigenze di Kyiv, e infatti gli Stati Uniti stanno esercitando pressioni per accaparrarsi il vero malloppo russo, congelato nell’Unione Europea, che ammonta a circa 280 miliardi di dollari.

Ma il punto più controverso di questa situazione è senza dubbio la mancanza di una base legale per l’utilizzo di quei fondi, che secondo numerosi esperti aprirebbe la strada a potenziali dispute con paesi del Sud del mondo (che potrebbero vantare crediti sulla base di attacchi illegali subiti dall’Occidente in passato) e soprattutto indebolirebbe la capacità del mondo euro-atlantico di attrarre investimenti esteri, rafforzando valute alternative.

Se gli Stati Uniti potrebbero, tutto sommato, sopportare le conseguenze pratiche e legali di questo azzardo, dato che la maggior parte del pacchetto è destinata a rifornire la sua industria bellica, l’Unione Europea, già in preda a una crisi industriale e in una delicata posizione energetica, chiaramente non è disposta a farlo. Serve insomma una strategia diplomatica ed economica più ampia, che dopo due anni di guerra possa colmare il divario produttivo tra Russia e Ucraina, fare ammenda per le previsioni sbagliate e soprattutto offrire agli attori in guerra una piattaforma di convivenza credibile.

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L’anno nero di Gazprom

Author: Wired

Le conseguenze della guerra in Ucraina hanno avuto un grosso impatto nel 2023 sulle spalle di Gazprom. Infatti, le vendite del colosso energetico di San Pietroburgo sono diminuite lo scorso anno di circa 629 miliardi di rubli, pari a 6,4 miliardi di euro. Come sottolinea Il Sole 24 Ore, si tratta della peggiore perdita degli ultimi dieci anni ed è collegato al crollo delle vendite in Europa.

I ricavi della società sono diminuiti di quasi il 30% rispetto all’anno precedente, arrivando a quota 8.500 miliardi di rubli. A pesare su questo dato sarebbero proprio le vendite di gas, diminuite da 6.500 a 3.100 miliardi tra il 2022 e il 2023. Di fatto, come sottolineano gli analisti di mercato, Gazprom non è riuscita ad adattarsi alla perdita del mercato europeo. Un dato positivo arriva invece dai profitti del petrolio, del gas condensato e dei prodotti petroliferi, saliti a 4.100 miliardi di rubli (+4,3%), ma non abbastanza da compensare le perdite.

E mentre la Russia si trova in grande difficoltà, non avendo trovato canali alternativi di vendita, i paesi europei, invece, sono stati abili nel sostituire la propria dipendenza dal gas russo. Lo dimostrano i dati che dà l’Unione europea in cui si evince come la quota di importazioni dello vecchio continente dalla Russia è scesa dal 40% del 2021 all’8% del 2023. Dunque, neppure la costruzione del gasdotto Power of Siberia 2, che trasporterà il gas russo in Cina attraverso la Mongolia, sarebbe capace di compensare le perdite di Gazprom in Europa. La realizzazione dell’infrastruttura, che è stata rimandata a lungo, richiederà comunque diversi anni.

La perdita registrata nel 2023 da Gazprom è la prima conseguita da vent’anni a questa parte, da quando cioè nel 2001 ne ha preso il controllo Alexei Miller, alleato del presidente russo Vladimir Putin. Nel 2022 il gigante di San Pietroburgo aveva registrato un utile netto di 1.200 miliardi di rubli, pari a circa 12 miliardi di euro.

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In quali paesi non si festeggia il primo maggio

Author: Wired

Il primo maggio è la giornata in cui si celebra la lotta di chi si è battuto per avere migliori condizioni di lavoro. Le lotte operaie, contadine e poi di chiunque abbia subito salari miserabili, turni e orari di lavoro massacranti, discriminazioni, ricatti e soprusi da parte dei propri datori di lavoro. Una lotta necessaria ancora oggi, soprattutto in Italia dove il pil pro-capite è sceso sotto la media dell’Unione europea. Eppure, la Festa internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici è stata dichiarata il primo maggio di 135 anni fa, nel 1889 a Parigi, durante il congresso della Seconda internazionale socialista, per ricordare una lotta operaia avvenuta negli Stati Uniti, dove però il primo maggio non si è mai festeggiato nulla.

L’origine del primo maggio come Festa dei lavoratori e delle lavoratrici

Nel 1886 la gran parte delle persone lavorava per 12 o 16 ore al giorno: uomini, donne e minorenni, magari con un solo giorno di riposo a settimana. Le organizzazioni sindacali, socialiste e anarchiche all’epoca lottavano per una riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore, qualcosa che oggi sappiamo essere ancora eccessivo e molte aziende hanno cominciato a ridurre il lavoro a 4 giorni a settimana, con ottimi risultati. All’epoca, chi lottava per piccoli miglioramenti veniva represso, picchiato, a volte ucciso e le sue richieste venivano criticate come negative per l’economia. La storia ha insegnato che queste critiche erano false.

Il primo maggio del 1886 i sindacati scelsero di indire uno sciopero generale in tutti gli Stati Uniti per ottenere la giornata lavorativa da 8 giorni, chiamato la Grande rivolta. Le proteste durarono giorni e il 3 maggio gli operai dell’azienda McCormick furono attaccati dalla polizia, che sparò sui lavoratori uccidendone 6. Alla strage, un’associazione anarchica rispose con una nuova protesta pacifica, in piazza Haymarket. Alla manifestazione partecipò anche il sindaco di Chicago, ma alla fine la polizia decise di sgomberare gli operai e qualcuno tirò una bomba contro di loro, uccidendo 7 agenti e ferendone 60. La polizia uccise altri 3 manifestanti.

Nonostante il responsabile non sia mai stato trovato, il sentimento anti-operaio, anti-socialista e anti-anarchico si scatenò in una rappresaglia contro gli anarchici e otto di loro furono accusati di cospirazione e omicidio, nonostante molti di loro non fossero nemmeno presenti alla manifestazione di Haymarket. Furono condannati a morte. Due di loro ottennero il carcere a vita, uno 15 anni di prigione, uno morì in carcere in circostanze misteriose, gli altri furono impiccati. Tre anni dopo, tutti i partiti socialisti europei raccolti a Parigi per la Seconda internazionale, dichiararono il primo maggio Festa internazionale dei lavoratori.

Dove non si festeggia il primo maggio

Da allora, in quasi tutti i paesi europei come Italia, Francia o Germania e in tantissimi altri paesi di tutto il mondo come Tanzania, Messico, Cuba o Cina, il primo maggio si celebrano lavoratori e lavoratrici. In Francia si indossa un fiore di mughetto per buona fortuna, in Germania un garofano rosso in onore dei movimenti socialisti, in Finlandia, lo stesso giorno, si celebra anche l’inizio della primavera. Tuttavia, molti altri la festa del lavoro cade in altre giornate e tra questi si trovano proprio gli Stati Uniti.

Dopo la strage di Haymarket e la nascita della Festa internazionale dei lavoratori, per non legittimare l’origine socialista della festa del primo maggio, il presidente statunitense Grover Cleveland decise di far cadere per legge il Labour day durante ogni primo lunedì di settembre. Da allora, negli Stati Uniti la giornata dedicata a lavoratori e lavoratrici si celebra il primo lunedì di settembre. Stessa cosa accade in Canada. In altri paesi, sia per gli stessi motivi che hanno guidato i politici statunitensi dell’epoca, sia per commemorare episodi delle lotte sindacali nazionali, la festa cade durante altre giornate.

In Svizzera per esempio dipende dai Cantoni e in Australia dagli stati o dai territori di cui è composta, con alcune celebrazioni previste ad ottobre, altre a marzo oppure a maggio. Anche in Nuova Zelanda si festeggia in ottobre, mentre nei Paesi Bassi, in Danimarca e in Giappone il primo maggio non è considerato festa nazionale, ma si svolgono comunque alcune celebrazioni organizzate da partiti, sindacati o associazioni.

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In Europa ci sono meno colonnine di ricarica del necessario

Author: Wired

Il numero delle colonnine di ricarica pubblici per le automobili elettriche nel territorio dell’Unione europea è molto più basso di quello necessario per raggiungere effettivamente gli obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica che la stessa Unione si è posta. A rappresentare tale allarmante situazione è un rapporto dell’Associazione europea dei produttori di automobili (Acea).

Secondo quanto si evince dallo studio, tra il 2017 e il 2023 nel territorio comunitario si è venduto un numero di auto elettriche cresciuto in una misura tripla rispetto a quello dei punti di ricarica installati. Un dato che certifica l’esigenza della costruzione di una quantità annuale di nuove colonnine otto volte superiore da qui al 2030. In particolare, il direttore generale di Acea Sigrid de Vries si è definito molto preoccupato “che la realizzazione delle infrastrutture non abbia tenuto il passo con le vendite di auto elettriche negli ultimi anni. Inoltre, questo ‘gap infrastrutturale’ rischia di ampliarsi in futuro, in misura molto maggiore di quanto stimato dalla Commissione Europea”.

I numeri

Entrando più nel dettaglio, in tutta l’Unione europea nel 2023 sono state installate poco più di 150mila colonnine di ricarica pubbliche, per una media di meno di 3.000 a settimana. Il numero totale delle colonnine è in tal modo salito a oltre 630mila unità. Secondo la commissione europea, entro il 2030 dovrebbero essere installati in tutto 3,5 milioni di punti di ricarica. Di fatto, per raggiungere un obiettivo di tale portata servirebbe costruire circa 410mila colonnine pubbliche all’anno, quasi 8.000 alla settimana. Questo significherebbe andare a un ritmo quasi tre volte superiore all’ultimo tasso di installazione annuale.

Le stime di Acea rappresentano però un quadro ancora più problematico. Secondo i dati in possesso dell’associazione, entro il 2030 saranno 8,8 milioni i punti di ricarica necessari alla popolazione dell’Unione europea. Un target per il quale sarebbe necessaria la realizzazione di 1,2 milioni di caricabatterie all’anno, ovvero circa 22mila alla settimana. Si tratta di un numero otto volte superiore all’ultimo tasso di installazione annuale.

Un facile accesso ai punti di ricarica pubblici – avverte de Vries – non è ‘bello da avere’, ma una condizione essenziale per decarbonizzare il trasporto stradale, insieme al sostegno del mercato e a un quadro produttivo competitivo in Europa. Gli investimenti nelle infrastrutture di ricarica pubbliche devono essere aumentati con urgenza se vogliamo colmare il divario infrastrutturale e raggiungere gli obiettivi climatici”.

Le ragioni del ritardo

Sono numerosi i motivi per i quali le stime della commissione e quelle di Acea sono così differenti. Innanzitutto, secondo lo studio dell’associazione, la commissione sottovaluta il numero di veicoli che percorreranno le strade dell’Ue e avranno bisogno di un caricabatterie entro il 2030: la sua stima è di 30 milioni, contro i 65 milioni stimati da Strategy&Fraunhofer Isi e utilizzati nei calcoli Acea. Questi ultimi includono infatti i furgoni elettrici a batteria, che vengono ricaricati principalmente utilizzando la stessa infrastruttura delle automobili, nonché i veicoli elettrici ibridi plug-in, mentre la commissione conta solo le auto elettriche a batteria.

Le stime emesse dagli organismi comunitari ipotizzano inoltre un consumo energetico dei veicoli significativamente inferiore rispetto ai recenti dati di monitoraggio nel mondo reale (14,8 chilowatt ogni 100 chilometri per i veicoli elettrici a batteria e 19,2 chilowatt ogni 100 chilometri per veicoli elettrici ibridi plug-in, contro 20 chilowatt ogni 100 chilometri per entrambi secondo Acea. Insomma, sottovalutando così le necessità dei mezzi.

Acea rappresenta i 15 principali produttori europei di automobili, furgoni, camion e autobus: Bmw, Daf Trucks, Daimler Truck, Ferrari, Ford of Europe, Honda Motor Europe, Hyundai Motor Europe, Iveco Group , Jlr, Mercedes-Benz, Nissan, Gruppo Renault, Toyota Motor Europe, Gruppo Volkswagen e Gruppo Volvo.