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Cosa sappiamo sull’agenzia con cui il governo vuole controllare il calcio

Author: Wired

Una Agenzia per la vigilanza economica e finanziaria delle società sportive professionistiche nel calcio e nel basket. È questo, come sottolinea La Repubblica il nome previsto per l’organo governativo che dovrebbe essere chiamato a vigilare sui conti delle società professionistiche del panorama calcistico e di quello della pallacanestro del nostro paese, i cui contorni sono stati connotati nella bozza di un articolo di un decreto legge al vaglio del ministro dello Sport Andrea Abodi.

In seguito alla divulgazione del documento alla stampa, avvenuto secondo il ministro “senza autorizzazione e non dagli uffici del mio dicastero”, egli ha poi proceduto a inviare la bozza agli enti sportivi interessati, tra i quali la Federazione italiana giuoco calcio (Figc) e il Comitato olimpico nazionale italiano (Coni). Una mossa, quest’ultima, che ha portato il presidente della Figc Gabriele Gravina a convocare d’urgenza il 6 maggio tutte le componenti federali.

I club di serie A, intanto, “fermo restando – si legge in una notal’impegno già più volte manifestato per migliorare la sostenibilità economico-finanziaria e la trasparenza dei controlli nel calcio italiano, hanno espresso all’unanimità la contrarietà rispetto alla proposta di istituirel’agenzia, “rivendicando l’autonomia dell’ordinamento sportivo dalla politica”. Il nuovo organo sostituirebbe di fatto la Commissione di vigilanza sulle società di calcio professionistiche (Covisoc), che è interno alla Figc.

Ma come sarà l’Agenzia?

Stando a quanto si apprende dalla prima bozza, l’agenzia sarà un ente pubblico non economico e avrà sede a Roma. Esso dipenderà immediatamente dal ministero dello Sport, se non proprio da Palazzo Chigi, e avrà “autonomia regolamentare“. L’organo avrà il compito di controllare i bilanci delle società professionistiche, indicare gli eventuali correttivi da apportare, ordinare il deposito di documenti ed effettuare ispezioni nelle sedi dei club. Non solo, però: l’agenzia avrà il potere di convocare i vertici federali e delle leghe ed esprimerà pareri vincolanti sulle iscrizioni ai campionati.

Per quanto riguarda la sua gerarchia interna, l’agenzia sarà formata da un presidente e due componenti nominati dalla premier Giorgia Meloni e dal ministro Abodi con mandato quadriennale e non rinnovabile, oltre che da un segretario generale e trenta dipendenti. Il costo di tale struttura ruoterà intorno ai 2,5 milioni all’anno, che dovrebbero essere sborsati non dai cittadini ma dalle stesse società, con proporzioni ancora da stabilire.

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In Europa ci sono meno colonnine di ricarica del necessario

Author: Wired

Il numero delle colonnine di ricarica pubblici per le automobili elettriche nel territorio dell’Unione europea è molto più basso di quello necessario per raggiungere effettivamente gli obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica che la stessa Unione si è posta. A rappresentare tale allarmante situazione è un rapporto dell’Associazione europea dei produttori di automobili (Acea).

Secondo quanto si evince dallo studio, tra il 2017 e il 2023 nel territorio comunitario si è venduto un numero di auto elettriche cresciuto in una misura tripla rispetto a quello dei punti di ricarica installati. Un dato che certifica l’esigenza della costruzione di una quantità annuale di nuove colonnine otto volte superiore da qui al 2030. In particolare, il direttore generale di Acea Sigrid de Vries si è definito molto preoccupato “che la realizzazione delle infrastrutture non abbia tenuto il passo con le vendite di auto elettriche negli ultimi anni. Inoltre, questo ‘gap infrastrutturale’ rischia di ampliarsi in futuro, in misura molto maggiore di quanto stimato dalla Commissione Europea”.

I numeri

Entrando più nel dettaglio, in tutta l’Unione europea nel 2023 sono state installate poco più di 150mila colonnine di ricarica pubbliche, per una media di meno di 3.000 a settimana. Il numero totale delle colonnine è in tal modo salito a oltre 630mila unità. Secondo la commissione europea, entro il 2030 dovrebbero essere installati in tutto 3,5 milioni di punti di ricarica. Di fatto, per raggiungere un obiettivo di tale portata servirebbe costruire circa 410mila colonnine pubbliche all’anno, quasi 8.000 alla settimana. Questo significherebbe andare a un ritmo quasi tre volte superiore all’ultimo tasso di installazione annuale.

Le stime di Acea rappresentano però un quadro ancora più problematico. Secondo i dati in possesso dell’associazione, entro il 2030 saranno 8,8 milioni i punti di ricarica necessari alla popolazione dell’Unione europea. Un target per il quale sarebbe necessaria la realizzazione di 1,2 milioni di caricabatterie all’anno, ovvero circa 22mila alla settimana. Si tratta di un numero otto volte superiore all’ultimo tasso di installazione annuale.

Un facile accesso ai punti di ricarica pubblici – avverte de Vries – non è ‘bello da avere’, ma una condizione essenziale per decarbonizzare il trasporto stradale, insieme al sostegno del mercato e a un quadro produttivo competitivo in Europa. Gli investimenti nelle infrastrutture di ricarica pubbliche devono essere aumentati con urgenza se vogliamo colmare il divario infrastrutturale e raggiungere gli obiettivi climatici”.

Le ragioni del ritardo

Sono numerosi i motivi per i quali le stime della commissione e quelle di Acea sono così differenti. Innanzitutto, secondo lo studio dell’associazione, la commissione sottovaluta il numero di veicoli che percorreranno le strade dell’Ue e avranno bisogno di un caricabatterie entro il 2030: la sua stima è di 30 milioni, contro i 65 milioni stimati da Strategy&Fraunhofer Isi e utilizzati nei calcoli Acea. Questi ultimi includono infatti i furgoni elettrici a batteria, che vengono ricaricati principalmente utilizzando la stessa infrastruttura delle automobili, nonché i veicoli elettrici ibridi plug-in, mentre la commissione conta solo le auto elettriche a batteria.

Le stime emesse dagli organismi comunitari ipotizzano inoltre un consumo energetico dei veicoli significativamente inferiore rispetto ai recenti dati di monitoraggio nel mondo reale (14,8 chilowatt ogni 100 chilometri per i veicoli elettrici a batteria e 19,2 chilowatt ogni 100 chilometri per veicoli elettrici ibridi plug-in, contro 20 chilowatt ogni 100 chilometri per entrambi secondo Acea. Insomma, sottovalutando così le necessità dei mezzi.

Acea rappresenta i 15 principali produttori europei di automobili, furgoni, camion e autobus: Bmw, Daf Trucks, Daimler Truck, Ferrari, Ford of Europe, Honda Motor Europe, Hyundai Motor Europe, Iveco Group , Jlr, Mercedes-Benz, Nissan, Gruppo Renault, Toyota Motor Europe, Gruppo Volkswagen e Gruppo Volvo.

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5 criptovalute da monitorare dopo l’halving del bitcoin

Author: Wired

Lo scorso 20 aprile è partito il quarto halving della storia del bitcoin. Il termine, che in inglese significa “dimezzamento“, si riferisce alle emissionidella criptovaluta. Di fatto, la ricompensa ottenuta dai miner per la estrazione di ogni blocco di transazioni sulla blockchain è stata da allora dimezzata da 6,25 a 3,125 bitcoin, determinando così una diminuzione dell’estrazione giornaliera da 900 a 450.

Come sottolinea Quartz, tale fenomeno è utile a controllare l’inflazione. In attesa di scoprire quali saranno gli effetti sul valore del bitcoin, che pure ha visto il suo valore salire di quasi 3.000 dollari tra la vigilia dell’halving e le quarantotto ore successive, la testata economica online ha segnalato altre cinque criptovalute da tenere d’occhio dopo il dimezzamento stesso.

  1. Bitcoin Cash
  2. Ether
  3. Solana
  4. Litecoin
  5. Dogecoin

Bitcoin cash

Nel 2017, alcuni anni dopo la nascita di bitcoin, i miner e gli sviluppatori della criptovaluta iniziarono a preoccuparsi per il suo futuro e in relazione alla sua capacità di crescere in maniera efficace. La moneta digitale fu dunque sottoposta a un hard fork, il fenomeno che si verifica quando la comunità apporta importanti modifiche alla rete blockchain, cambiando le regole.

Da tale processo nacque il bitcoin cash, che presentava velocità di transizione più elevate. Poiché la storia delle due criptovalute è collegata, il prezzo di quella nata sette anni fa fluttua spesso con quello della principale. Anche in occasione dell’halving del 20 aprile, il bitcoin cash è finito sotto la lente degli investitori. Il 18 aprile il suo valore era pari a 485 dollari, il 265% in più rispetto a dodici mesi fa.

Ether

Per alcuni addetti ai lavori, se il bitcoin è l’oro, l’ether è l’argento. Creato dalla rete blockchain Ethereum, esso è infatti la seconda maggior criptovaluta al mondo per capitalizzazione di mercato e rappresenta un importante indicatore per la salute complessiva del mercato delle criptovalute.

Prima dell’halving di bitcoin, ether veniva scambiato a circa 3.000 dollari, un valore superiore del 46% rispetto allo stesso periodo del 2023.

Solana

Come la rete blockchain di ether, quella di Solana ospita diverse app decentralizzate, o dApp. Al contrario di quella di Ethereum, essa è descritta da alcuni come più veloce ed economica. Solana è ormai da anni tra le prime dieci criptovalute mondiali e spesso il suo valore aumenta quando aumenta quello del bitcoin. Il 18 aprile il suo valore si aggirava intorno ai 140 dollari, segnando un +462% rispetto a un anno prima.

Litecoin

Il litecoin è una delle prime valute digitali create in seguito alla nascita del bitcoin. Fu Charles Lee, ex ingegnere di Google, a darle vita nel 2011, definendolo peraltro “l’argento rispetto all’oro di bitcoin”. Di certo c’è che la criptovaluta è sopravvissuta a tutti gli alti e bassi del settore e continua a collocarsi tra le prime venti al mondo.

Bitcoin e litecoin utilizzano entrambe un sistema di convalida Proof-of-Work (PoW). Nel dettaglio, il processo di mining o creazione delle due criptovalute e la loro aggiunta a un registro pubblico o a una blockchain è lo stesso. Anche per questo, le loro fluttuazioni sono spesso abbinate. Litecoin valeva il 18 aprile 80 dollari, il 20% in più rispetto al 2023.

Dogecoin

Volatilità e fluttuazioni nel mondo delle criptovalute fanno spesso rima con dogecoin. La moneta meme riceve ormai da anni il sostegno dell’amministratore delegato di Tesla Elon Musk, oltre che di quello di altre celebrità. Nato per scherzo, dogecoin ha mantenuto per diverso tempo una posizione tra le principali criptovalute. Alla vigilia dell’halving di bitcoin il suo valore si aggirava intorno agli 0,15 dollari, facendo segnare un aumento del 58% rispetto a dodici mesi prima.

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Perché è importate sapere se l’autovelox che ti ha multato è omologato

Author: Wired

Le multe per eccesso di velocità rilevate dagli autovelox non sono valide se l’apparecchio non è stato omologato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione pronunciandosi a favore del ricorso presentato da un automobilista di Treviso, contro una multa presa in questo modo. Ora le amministrazioni comunali temono l’innesco di una reazione a catena, che potrebbe causare una moltiplicazione esponenziale dei ricorsi. Prima di farlo però, è meglio prima verificare che l’autovelox sia stato semplicemente approvato e non sia omologato.

Cos’è l’omologazione dell’autovelox

In base a quanto hanno riportato diversi giornali, la Corte di Cassazione ha verificato come alcuni autovelox sarebbero stati autorizzati dal ministero delle Infrastrutture, ma non sottoposti alle verifiche tecniche necessarie alla loro omologazione. L’assenza dell’intervento del ministero ha quindi creato un vuoto normativo, che permetterebbe agli automobilisti fotografati in contravvenzione per eccesso di velocità, dagli autovelox non omologati, di evitare le multe.

Come riporta Repubblica, l’omologazione serve ad accertare che l’apparecchio rispetti tutti i requisiti tecnici previsti dalla normativa e ne consenta la riproduzione in serie. Al contrario, l’approvazione serve solo ad autorizzare il prototipo secondo gli standard previsti. La legge italiana sul tema non è però molto chiara e approvazione e omologazione vengono spesso trattate come fossero la stessa cosa.

Secondo la Corte di Cassazione, invece, esiste tra le due cose una differenza netta e sostanziale, per cui se non viene verificato che tutti i macchinari hanno le stesse caratteristiche e operano allo stesso modo ci potrebbero essere differenze nella rilevazione della velocità. Così, per questa mancanza di uniformità, l’automobilista trevigiano è riuscito a vincere il suo ricorso. Per provare a fare la stessa cosa è però consigliato verificare su internet se l’autovelox che ci ha colto in contravvenzione sia omologato o meno.

Come si controlla se un autovelox è stato omologato?

Per farlo si può inserire il numero di autovelox su internet e verificare se esistono già pronunce su quell’apparecchio, oppure si può richiedere un accesso agli atti per verificare se abbia o meno un certificato di omologazione. In molti casi i Comuni potrebbero aver reso queste informazioni disponibili online, per questioni di trasparenza.

Una volta effettuate le verifiche si può o fare ricorso al prefetto o all’amministrazione comunale di riferimento, entro 60 giorni dalla sanzione, oppure fare ricorso davanti al giudice di pace, entro 30 giorni dalla sanzione. Nel primo caso il ricorso è gratuito, ma se si perde la sanzione raddoppia. Mentre nel secondo caso si deve pagare una marca da bollo e aprire un contenzioso, con il quale si possono però richiedere accertamenti tecnici che potrebbero dimostrare anche difetti nell’autovelox. Se la mancata omologazione viene verificata, la sanzione diventa nulla, perché dopo la sentenza della Cassazione si garantirà l’uniformità delle altre sentenze.

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Perché alcuni attori italiani hanno denunciato Netflix

Author: Wired

Dopo otto anni di trattative “sterili finalizzate a ottenere tutti i dati necessari a determinare il compenso per gli artisti previsto dalla normativa europea e nazionale, Artisti 7607 ha citato in giudizio Netflix presso il Tribunale civile di Roma. In particolare, la società cooperativa tutela e gestisce i diritti connessi dei propri artisti mandanti, tra i quali figurano centinaia di attori e doppiatori italiani e internazionali. Tra loro nomi del calibro di Neri Marcorè, Elio Germano, Michele Riondino,

Le parole degli artisti

Alcuni di questi, in una nota, hanno voluto spiegare le ragioni che li hanno spinti a scegliere di adire le vie legali per ottenere compensi adeguati e proporzionati dal colosso dello streaming di Los Gatos. Per Neri Marcorè, per esempio, la scelta di Artisti 7607 è “doverosa per difendere la dignità professionale non solo dei nostri artisti ma di tutta la categoria. Non vogliamo subire atteggiamenti ostruzionistici e accettare compensi irrisori da parte delle piattaforme streaming, per le stesse ragioni che hanno motivato il recente sciopero degli attori e sceneggiatori americani. Tutti reclamiamo trasparenza dei dati di sfruttamento delle opere audiovisive e adeguatezza dei compensi”.

Come sottolinea la sua collega Carmen Giardina, questi ultimi costituiscono infatti “il salario differito di una professione per sua natura saltuaria e precaria” e, poiché “i diritti connessi al diritto d’autore non sono altro che un credito da lavoro”, è “molto grave e pericolosa questa spinta a svalutare le prestazioni artistiche degli interpreti”. Una gravità sottolineata per Elio Germano dal fatto che “proprio le piattaforme che trattano e sfruttano dati si rifiutano, grazie al loro strapotere economico e contrattuale, di fornirci i dati previsti dalla normativa e di corrispondere conseguentemente i compensi agli artisti”. Tali piattaforme, “senza fornire tutte le informazioni previste dalla legge, chiudono – spiega Michele Riondinoaccordi al ribasso e poi cercano di imporre le stesse cifre a tutto il mercato, così da tenere i livelli dei compensi degli artisti sempre molto bassi”.

In questo senso, la presidente Cinzia Mascoli rivendica l’operato di Artisti 7607, spiegando che “da tempo fronteggiamo prassi di mercato al ribasso ma, tenendo posizioni ferme nell’interesse di tutti, siamo riusciti ad ottenere la giusta remunerazione. Molti artisti capiscono ciò che stiamo facendo e continuano a sceglierci”. La società cooperativa, come afferma Alberto Molinari, è convinta infatti che “accettare compensi che appaiono irrisori rispetto agli immensi guadagni generati da uno sfruttamento globale esponenziale delle opere audiovisive peserebbe come un grave precedente sul futuro di tutti gli artisti”.

Ci assumiamo questa responsabilità – dichiara invece Valerio Mastandreaperché le scelte che vengono fatte oggi riguardano tutti e avranno ripercussioni sul presente e sul futuro di tanti artisti e di tante generazioni. Anche quelle che verranno dopo di noi, quindi a brevissimo”. In questo senso, “gli artisti – conclude Paolo Calabresichiedono nuovamente che il governo e le autorità di settore prendano una posizione chiara nei confronti di questa prassi, così come è avvenuto per il settore dell’editoria”.

Come risponde Netflix

La convinzione di Netflix è quella di aver raggiunto accordi con tre diverse società che rappresentano gli artisti in Italia, tra le quali Imaie (Istituto mutualistico artisti interpreti esecutori), che di per sé dovrebbe raggruppare circa l’80% degli interpreti del Belpaese.