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Justin Bieber, perché ha silurato H&M

Author: Wired

Justin Bieber ha invitato tutti i suoi follower a non acquistare nessun articolo tra quelli realizzati da H&M ispirandosi a lui e alle sue canzoni. Attraverso alcune storie Instagram pubblicate il 20 dicembre, la popstar canadese ha infatti annunciato di “non aver approvato nessuna delle collezioni di merchandising allestite” dal brand svedese.

Bieber ha affermato che i prodotti del colosso mondiale di fast fashion sono stati interamente realizzati senza il suo permesso e la sua approvazione. “Il merchandising H&M che hanno fatto su di me – ha ammonito sul social network – è spazzatura, non compratelo”.

Della collezione finita sotto l’occhio del ciclone dopo le accuse dell’artista facevano parte alcune felpe di cotone e magliette, una shopping bag e una cover per smartphone. Su tutti i prodotti e gli accessori era stampato il volto di Bieber o alcuni versi delle sue canzoni, come per esempio il successo del 2021 Ghost.

H&M ha immediatamente rimosso dai propri store online tutti gli articoli, pur specificando in una nota pubblicata dall’agenzia Reuters di “aver seguito tutte le fasi di approvazione” e che tale comportamento sarà “verificato con tutte le parti interessate”. L’azienda non è peraltro nuova a operazioni di questo tipo: solo nel recente passato ha infatti dedicato collezioni a Billie Eilish e Ariana Grande.

I numeri

Quello che volge al termine non è stato un anno semplice per il colosso svedese. Secondo i dati raccolti dalla piattaforma di investimenti eToro, H&M è stata infatti colpita sia dall’invasione russa in Ucraina, sia dal calo dei suoi margini lordi. Dopo essere scivolata in borsa nella pubblicazione della sua terza trimestrale del 2022 e aver annunciato lo scorso 15 dicembre una chiusura dell’esercizio con vendite a 223.571 milioni di corone svedesi, il 12% in più rispetto al 2021 ma ancora meno rispetto agli standard del pre covid, l’azienda deve far fronte adesso alle conseguenze dell’attacco frontale subito da Justin Bieber.

L’account Instagram dell’artista canadese può contare su 270 milioni di follower, che lo rendono l’undicesimo più seguito al mondo. “In attesa di maggiori delucidazioni” su quanto accaduto, spiega l’analista di mercato italiano di eToro Gabriel Debach, “il titolo subisce un deciso effetto boomerang con una pubblicità che avrebbe voluto certamente evitare”.

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Greenwashing, l’Europa si prepara a un giro di vite

Author: Wired

Nel 2023, tutte le società quotate sui mercati regolamentati dell’Unione europea (Ue) inizieranno ad applicare la Corporate sustainability reporting directive (Csrd), una nuova norma che imporrà alle aziende di pubblicare a partire dal 2024 informazioni dettagliate sulla sostenibilità, il trattamento dei dipendenti, i diritti umani, la lotta alla corruzione e l’inclusione all’interno dei consigli di amministrazione. Si tratta di un passo positivo per migliorare il funzionamento di un mercato da miliardi di dollari noto come Esg (un acronimo inglese che sta per “ambiente, società e governance”), da tempo afflitto da incongruenze a livello di qualità dei dati, standard di rendicontazione e metodi utilizzati per generare i rating Esg delle aziende.

La nuova normativa Ue cercherà di fare ordine nel caos delle Esg in tre modi. In primo luogo, le aziende dovranno rispettare gli standard di sostenibilità obbligatori imposti dall’Ue, un aspetto che dovrebbe introdurre maggiore qualità e coerenza in fase di reporting. In secondo luogo, le informazioni riportate dalle aziende dovranno essere sottoposte a revisioni, che in teoria dovrebbero portare a un maggiore controllo (i precedenti delle società di revisione suggeriscono sarà necessario vigilare anche in questo nuovo settore). Terzo, le aziende dovranno espandere l’attuale rendicontazione sull’impatto dei fattori Esg sulle proprie attività, riportando anche gli impatti sull’ambiente, sulla società e sulla governance. Questa nuova prospettiva dovrebbe rendere più facile per investitori, enti regolatori e i consumatori premiare o penalizzare le aziende in base alle loro prestazioni sugli Esg.

Obiettivo trasparenza 

La mancanza di trasparenza, chiarezza e responsabilità del mercato degli Esg è una fonte di rischio per gli investitori e le aziende. Quest’anno, negli Stati Uniti, la Securities and exchange commission (Sec, l’agenzia l’agenzia americana che supervisiona i mercati finanziari) ha multato per 1,5 milioni di dollari una divisione per gli investimenti della banca Bny Mellon per aver falsificato le informazioni relative agli Esg, avviando anche un’indagine su Goldman Sachs. Anche in Germania l’autorità di regolamentazione ha aperto un’indagine su Dws Group, l’unità di gestione dei fondi di Deutsche Bank.

È probabile che nel 2023 arrivino nuovi controlli, che metteranno ulteriormente a dura prova la credibilità del mercato Esg. L’anno scorso il capo della Sec Gary Gensler ha ritenuto necessario pubblicare un post su Twitter per denunciare il possibile greenwashing (l’ecologismo di facciata delle aziende che dichiarano falsamente di essere “verdi” o “sostenibili”) e la mancanza di consenso sul significato degli investimenti nel settore degli Esg. Il nuovo proprietario di Twitter Elon Musk ha invece dichiarato sulla piattaforma che “gli Esg una truffa, strumentalizzata dai finti guerrieri della giustizia sociale” dopo che l’indice azionario statunitense S&P 500 aveva rimosso Tesla, la sua azienda di veicoli elettrici, dall’indice Esg, inserendo però il colosso petrolifero ExxonMobil tra le migliori aziende. L’S&P 500 ha difeso la sua decisione facendo riferimento alle accuse di discriminazione razziale nelle fabbriche di Tesla, che hanno sollevato domande filosofiche, oltre che legali, per esempio, sull’opportunità di valutare i risultati delle aziende in materia di ambiente, società e governance separatamente piuttosto che in modo aggregato.

Ordine nel caos

Questi interrogativi circolano ormai da anni, ma sono visti con un rinnovato senso di urgenza dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Le agenzie che si occupano dei rating Esg si sono chieste se era il caso di continuare a non considerare i produttori di armi (in quanto realizzano prodotti deliberatamente progettati per ferire e uccidere gli esseri umani) o se al contrario aumentare i rating Esg di queste aziende per rispecchiare il loro ruolo nella difesa delle democrazie. Il dibattito ha spinto alcuni critici a sostenere che considerazioni etiche di questo tipo non dovrebbero essere responsabilità dei dipendenti delle agenzie di rating, bensì di rappresentanti eletti, una posizione che vede la forte contrarietà di molti dirigenti d’azienda, dipendenti, investitori e consumatori. Nel 2023, le discussioni sul tema sono destinate a intensificarsi ulteriormente quando le aziende e le agenzie di rating saranno chiamate a riflettere non solo sulle implicazioni a lungo termine dell’invasione russa dell’Ucraina, ma anche su altri rischi, come la possibilità che la Cina si muova contro Taiwan.

L’anno prossimo prenderanno il via anche altre iniziative per la regolamentazione degli Esg. L’anno scorso la Sec ha proposto una norma che obbligherebbe le società quotate a comunicare i rischi legati al clima, le emissioni e i piani di transizione a zero emissioni. In ogni caso, poi, le aziende dovranno fare i conti con una crescente pressione da parte delle banche centrali. La Banca centrale europea (Bce), la Banca d’Inghilterra e la Riksbank svedese hanno annunciato piani per imporre standard più elevati in materia di rendicontazione climatica per allinearsi all’Accordo di Parigi del 2015, che prevede di limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi Celsius. L’International financial reporting standards foundation, che stabilisce gli standard contabili globali, ha anche istituito un nuovo consiglio che sta lavorando alla definizione di standard globali per la rendicontazione degli Esg. Il caos nel settore, in altre parole, potrebbe aver vita breve.

Questo articolo è comparso originariamente su Wired UK.

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Protocollo di Kyoto: perché è stato fondamentale, 25 anni dopo

Author: Wired

La Convenzione quadro, come anticipato, riconosceva le particolari necessità dei Paesi in via di sviluppo, con il senso di non ostacolarne la crescita economica. L’allegato 1 contiene un elenco di Paesi che, sulla base dell’articolo 12, sarebbero stati tenuti a trasmettere regolari report in cui elencare le misure adottate per la riduzione dei gas serra. Si tratta, essenzialmente, dei Paesi industrializzati (tra cui l’Italia) assieme a quelli dell’ex blocco sovietico (la neonata Federazione russa e i paesi del fu Patto di Varsavia), che ai tempi erano correntemente definiti “secondo mondo” per la presenza di un’industria in qualche modo avviata. Il principio cardine, che caratterizzerà tutti i negoziati climatici a seguire seppur con diverse gradazioni, è che i Paesi industrializzati sono riconosciuti come principali responsabili delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera. Importante rilevare come manchino – e sarà un fatto rilevante fino a oggi – grandi Stati come Cina, India e Brasile.

article imageComprare e vendere permessi per emettere CO2 rende sempre di più

Nel 2050 potrebbero generare mille miliardi di dollari all’anno. Per questo alla Cop27, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite in Egitto, gli Stati puntano a trovare un accordo per regolare i mercati internazionali. Le sfide aperte ai negoziati

Il protocollo di Kyoto

Nel 1995, i partecipanti all’Unfccc si incontrano a Berlino alla prima Conferenza delle parti sul clima (Cop1) allo scopo di definire i principali obiettivi riguardo alle emissioni serra. Arriviamo quindi al 1997, quando, l’11 dicembre a Kyoto, viene firmato il protocollo omonimo, che fissava piani di riduzione delle emissioni per 37 Paesi industrializzati e con economie in fase di transizione. Si tratta dei Paesi inclusi nell’allegato B, elenco che rispecchia sostanzialmente la lista della Convenzione del 1992. 

Il trattato prevedeva l’obbligo di ridurre le emissioni di sei gas serra (anidride carbonica, metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo). La caratteristica principale del protocollo di Kyoto è che stabilisce obiettivi vincolanti e qualificati: ridurre le emissioni di almeno il 5% rispetto a quelle del 1990 nel periodo compreso tra il 2008 e il 2012. 

Il protocollo di Kyoto sarebbe enetrato in vigore il 16 febbraio 2005: perché il meccanismo scattasse, si richiedeva la ratifica da parte di non meno di 55 stati firmatari e che gli Stati che lo avessero ratificato producessero almeno il 55% delle emissioni inquinanti globali. Condizione, quest’ultima, raggiunta solo nel novembre del 2004, con il perfezionamento dell’adesione da parte della Russia. 

Il protocollo di Kyoto prescrive che la riduzione debba avvenire essenzialmente tramite misure nazionali, ma prevede anche una serie di  meccanismi basati sul mercato, i cosiddetti “meccanismi flessibili. Si può dire che nella città giapponese sia stato “inventato” il mercato del carbonio che sarebbe poi stato perfezionato a Marrakech nel 2001 e da lì fino a Glasgow. I “meccanismi flessibili” sono tre: meccanismo di sviluppo pulito, implementazione congiunta e scambio delle emissioni.

Attivisti chiedono fondi per il loss and damage tra i padiglioni di Cop27A Cop27 arriva l’accordo per risarcire i danni della crisi del clima

Unione europea e blocco africano fanno la differenza ai tavoli negoziali. Storico via libera al fondo sui loss and damage. Per il resto si fanno pochi passi in avanti e si rimane fermi a un anno fa. Pesa il ruolo della lobby delle fonti fossili

Successi e critiche

Sicuramente il protocollo di Kyoto ha rappresentato un passaggio fondamentale per la politica climatica – afferma Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano e membro fondatore del centro studi Italian Climate Network -. Di fatto, è stato il primo momento in cui i grandi emettitori si sono assunti impegni di riduzione delle emissioni“. 

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Obbligo vaccinale, la Corte costituzionale lo salva

La Corte Costituzionale si è espressa sulla legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale, introdotto nel 2021 come strumento per arginare la pandemia da Covid-19 e causa di forti polemiche e ricorsi giudiziari fin dai suoi primi giorni di “vita”.

La vicenda:

  1. Il giudizio
  2. I ricorsi
  3. Evoluzione dell’obbligo vaccinale

Residenti romani ricevono il vaccino presso l'hub dell'Auditorium parco della musica a marzo 2021A dicembre scattano le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale

La sanzione da 100 euro interesserà le persone over 50 e il personale delle categorie per cui era previsto l’obbligo dei vaccini contro Covid-19, come personale sanitario, delle forze dell’ordine

Il giudizio

Come si legge in una nota, “la Corte ha ritenuto inammissibile, per ragioni processuali, la questione relativa alla impossibilità, per gli esercenti le professioni sanitarie che non abbiano adempiuto all’obbligo vaccinale, di svolgere l’attività lavorativa, quando non implichi contatti interpersonali. Sono state ritenute invece non irragionevoli, né sproporzionate, le scelte del legislatore adottate in periodo pandemico sull’obbligo vaccinale del personale sanitario. Ugualmente non fondate, infine, sono state ritenute le questioni proposte con riferimento alla previsione che esclude, in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale e per il tempo della sospensione, la corresponsione di un assegno a carico del datore di lavoro per chi sia stato sospeso; e ciò, sia per il personale sanitario, sia per il personale scolastico”.

I ricorsi

Contro la legittimità dell’obbligo vaccinale, si sono schierati i tribunali di Brescia, Catania e Padova, il Tar della Lombardia e il Consiglio di giustizia amministrativa della regione Sicilia. In particolare lo scontro si è acceso sul decreto legge del primo aprile 2021 numero 44 (convertito, con modifiche, dalla legge 28 maggio 2021, numero 76) e su quello del 24 marzo 2022 numero 24, che hanno istituito l’obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari, pena la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, fino al 31 dicembre 2022, ma fatto cessare dal governo Meloni il primo novembre scorso, con il decreto legge del 31 ottobre 2022, numero 162).

In sintesi, le istanze di questi uffici giudiziari possono essere raccolte in tre punti essenziali. La prima riguardava la mancata previsione, per i non vaccinati, della possibilità di essere impiegati in mansioni che non prevedessero il contatto con il pubblico, assicurandogli così l’accesso alla retribuzione. La seconda contestava l’obbligo vaccinale anche per chi svolgeva il proprio lavoro a distanza, e dunque senza alcun rischio di contagio. Infine, è stata impugnata anche l’imposizione della somministrazione delle dosi senza la garanzia che il vaccino non provocasse effetti collaterali, anche gravi.

La Corte costituzionale si è già espressa in passato a favore degli obblighi vaccinali, in nome del bilanciamento tra gli interessiindividuali, di chi non si vuole sottoporre a un trattamento sanitario, e quelli della collettività, che deve preservarsi nel suo complesso da una pandemia. L’impostazione delle Corte ha sempre rispettato l’autodeterminazionedel singolo cittadino o della singola cittadina, garantendola fino a quando non si fosse trovata in contrasto con la salvaguardia del benessere della comunità nel suo complesso. Per questo, le contestazioni e la discussione giuridica non hanno riguardato solo l’efficacia dei vaccini nel contrastare il virus, ma anche la loro efficacia nel limitarne la diffusione.

Il ministro della Salute, Orazio SchillaciCosa ha deciso il governo sulle misure contro Covid-19

Dopo lo scontro con le regioni, per l’obbligo di indossare le mascherine nelle strutture sanitarie, il governo ha fatto un passo indietro. Mentre è stato tolto l’obbligo di vaccinazione per il personale sanitario a partire dal primo novembre

Evoluzione dell’obbligo vaccinale

L’obbligo vaccinale non ha riguardato solo il personale della sanità, anche se, comprensibilmente, sono stata la prima categoria ad esserne interessata nella più dure fasi dell’emergenza sanitaria. Dopo di loro, a partire dal 15 dicembre 2021, l’obbligo è stato esteso anche al personale scolastico, a quello della difesa, della sicurezza, del soccorso pubblico, della polizia locale e al personale penitenziario.

A seguito dell’insediamento del governo Draghi, con un decreto del 5 gennaio 2022, il Consiglio dei ministri estese l’obbligo vaccinale anche al personale universitario, senza limiti di età, e a tutte le persone con più di 50 anni, pena una sanzione di 100 euro. Dopo poche settimane, il governo Draghi decise di rafforzare la misura introducendo l’obbligo, per tutti i lavoratori e le lavoratrici over 50, di presentare il green pass rafforzato sul luogo di lavoro, pena la sospensione del proprio incarico e dello stipendio e sanzioni dai 600 ai 1.500 euro per chi fosse stato trovato in violazione dell’obbligo.

Ad approvare queste misure concorse anche la Lega, che sedeva, che sedeva nel Consiglio dei ministri del governo Draghi, approvandone i provvedimenti, anche se ora si presenta al pubblico come se all’epoca si fosse trovata all’opposizione.

Source: wired.it