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16 anni l’età minima per iscriversi ai social network: la proposta

Author: Wired

Sette proposte per rendere il web un luogo virtuale più sicuro per i minorenni. È il pacchetto di misure che il 6 e il 7 febbraio scorsi, in occasione del Safer Internet Day, ricorrenza annuale istituita dalla Commissione europea per promuovere un uso consapevole della rete, il Telefono Azzurro ha presentato nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera.

Il progetto, che come priorità ha identificato l’innalzamento dagli attuali quattordici ai 16 anni della cosiddetta età di connessione, nasce con l’obiettivo di tutelare i diritti dei bambini e degli adolescenti. “Sono – ha spiegato il presidente della onlus Ernesto Caffo – gli stessi ragazzi a chiederlo”. Ecco perché occorre “sensibilizzare – ha aggiunto – non solo l’opinione pubblica, ma anche i legislatori affinché adottino misure di maggiore tutela del minore che naviga sul web e utilizza i social network”.

Il Telefono Azzurro ha proposto al governo di rendere “invalidi” i contratti conclusi dai minori di sedici anni con i fornitori dei servizi delle società di informazione e di obbligare questi ultimi a verificare l’età dell’utente all’atto del perfezionamento del contratto stesso. La onlus ha inoltre invitato l’esecutivo a limitare la possibilità di manifestare il consenso al trattamento dei propri dati solo ai maggiori di 16 anni.

In materia di sextorsion, il Telefono Azzurro suggerisce di rafforzare il potere del garante della privacy. Questa particolare forma di estorsione si verifica quando alla vittima viene richiesto il pagamento di una somma di denaro sotto la minaccia di diffusione di video o immagini vere o presunte che la ritraggono in pose o atteggiamenti sessualmente espliciti

Le altre proposte della onlus riguardano poi il potenziamento del servizio del 114, Emergenza infanzia, attraverso la previsione del “contatto di emergenza in app” e l’introduzione dell’educazione civica digitale e di una nuova governance dell’agenda digitale dei bambini.

article imageI problemi della legge francese per vietare ai minori l’accesso ai siti porno

Il governo vuole introdurre nuovi meccanismi per verificare l’identità. Che comportano grossi rischi per la privacy degli utenti in rete

La posizione del governo

Le richieste dell’associazione presieduta da Caffo hanno trovato il pieno appoggio del governo. “La tutela dell’infanzia e dell’adolescenza rispetto al mondo digitale – ha infatti affermato nel corso dell’evento il viceministro del Lavoro e delle Politiche sociali Maria Teresa Bellucciè certamente una priorità di questo esecutivo”. 

Troviamo – ha aggiunto – che ci debbano essere una responsabilità e una consapevolezza della responsabilità a tutti i livelli: a livello istituzionale; a livello delle piattaforme, che devono essere sempre più capaci di introdurre dei sistemi di misurazione dell’età; a livello della scuola, che deve formare ed educare per fare in modo che le nuove generazioni che vivono in un mondo digitale possano vedere in quel mondo un luogo delle opportunità e non di malessere e devianza“. 

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Armi, le possiedono 1,2 milioni di italiani

Author: Wired

L’omicidio di Martina Scialdone, uccisa a Roma dall’ex compagno Costantino Bonaiuti con un’arma regolarmente detenuta, ha riaperto il dibattito sulle armi da fuoco presenti nel nostro paese. Quante sono, cioè, quelle presenti nelle case degli italiani? Rispondere a questa domanda è tutt’altro che semplice.

Un punto di partenza è certamente rappresentato dalle licenze in corso di validità, ovvero dai permessi di porto d’armi rilasciati dalle questure. Secondo la Polizia di Stato, nel 2021 erano 1,2 milioni. Si tratta, per la maggior parte, di permessi per gli appassionati di caccia (631mila) e di tiro a volo (543mila). Nel grafico sottostante il dettaglio.

Beninteso, si sta parlando di licenze, ovvero di persone cui è stato riconosciuto il permesso di acquistare un’arma. In realtà, il numero di pistole e fucili che questi soggetti possono comprare è maggiore: un’unica licenza permette di comprare fino a 3 armi comuni e fino a 12 armi da fuoco sportive. Oltre a un numero illimitato di fucili e carabine da caccia.

Affermare quindi che in Italia ci siano 1,2 milioni di armi da fuoco legalmente detenute, ovvero tante quanti i titolari di porto d’armi, rischia seriamente di essere una stima per difetto. Senza contare che a queste si aggiungono quelle illegali. Come per esempio la Smith&Wesson calibro 38 trovata in uno dei covi del boss Matteo Messina Denaro.

Una stima di quelle che possono essere le armi da fuoco effettivamente presenti nel nostro paese, contando quelle legali, quelle illegali e quelle in dotazione alle armi da fuoco la si trova sul sito GunPolicy.org, portale della University of Sidney dedicata a questo tema. La stima più recente, perché di questo si tratta, risale al 2017 e parla di poco più di 8 milioni tra fucili e pistole possedute in Italia. Il che significa 13,02 armi da fuoco ogni 100 abitanti. Va detto, però, che il numero di persone titolari di una licenza per possedere un arma è in diminuzione, come mostra il grafico sottostante.

Sempre secondo la Polizia di Stato, nel 2018 erano 1 milione e 343mila gli italiani cui era stato rilasciato il porto d’armi. Nel 2021 questo numero è sceso a 1 milione e 222mila. Si tratta di un calo dell’8,9%. Beninteso: si tratta di permessi per l’acquisto di armi da fuoco. Per come è fatta la normativa, paradossalmente il numero di armi detenute legalmente potrebbe anche essere aumentato. Per non parlare di quelle illegali per le quali, però, non esistono dati ufficiali.

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Tecnologia

Fratelli d’Italia vuole il carcere per i reati di buon costume

Author: Wired

Con una nuova proposta di legge, dai toni vagamente razzisti, Fratelli d’Italia vorrebbe introdurre il carcere per chi frequenta lavoratori o lavoratrici del sesso (sex workers) e per il nudismo, praticato, secondo i meloniani, soprattutto dagli immigrati. Il fautore dell’iniziativa, che difficilmente verrà mai votata, è Edmondo Cirielli, viceministro agli Affari esteri ed ex carabiniere.

Secondo Cirielli, “va contrastato il degrado morale che affligge la nostra collettività”, si legge su Repubblica, che per prima ha dato la notizia. E per farlo, l’idea è di reintrodurre il reato di buon costume, facendo scattare l’arresto solo per chi fa sesso in auto con un sex worker e non “appanna” o “copre” i vetri della vettura, in “pubblica via”. Mentre a oggi, chi fa sesso in auto viene punito con una sanzione amministrativa. 

Carcere, sempre dai 3 mesi ai 3 anni, anche per chi pratica il nudismo fuori dalle aree adibite, come alcune spiagge. Ma è in questa parte che la proposta svela il suo tono razzista e suprematista, infatti secondo il vice ministro di Fratelli d’Italia, il nudismo sarebbe praticato soprattutto da immigrati che non sono avvezzi ai costumi, alle consuetudini e alle norme etiche e giuridiche che regolano la convivenza civile nella nostra società”.

Un ragionamento che sa di colonialismo e dottrine suprematiste, secondo cui i migranti non conoscerebbero le regole della convivenza civile. Lo stesso che abbiamo già sentito più volte da vari politici di destra, che hanno spesso sostenuto come tutti i delitti commessi in Italia sarebbero responsabilità dei migranti. Mentre i dati sulla popolazione carceraria e sui responsabili effettivi dicono esattamente il contrario.

All’interno del testo si parla anche di punire con il carcere “atti osceni” come il toccamento lascivo delle parti intime del corpo anche qualora avvenga al di sopra degli abiti”, azione che potrebbe scoraggiare le molestie e consegnare più facilmente alla giustizia i molestatori. Tuttavia, in questo caso non si tratta di buon costume, ma, appunto, di molestie e assimilare le due cose non promette nulla di buono.

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Economia Tecnologia

Tv, la battaglia tra canali generalisti e streaming ora passa dal telecomando

Author: Wired

I nuovi smart tv commercializzati in Italia dovranno obbligatoriamente prevedere la presenza sulla propria home page di un’icona immediatamente visibile, in posizione principale rispetto alle altre, che dia accesso ai servizi di interesse generale (Sig), tra i quali rientrano Rai, Mediaset, La7, Sky e Discovery, radio nazionali ed emittenti tv locali. I produttori dovranno inoltre vendere, insieme a ciascun apparecchio, almeno un telecomando dotato dei tasti numerici dallo 0 al 9, per consentire agli utenti di sintonizzarsi sui canali del digitale terrestre.

La situazione:

  1. La consultazione pubblica
  2. Le icone
  3. Le motivazioni

La consultazione pubblica

Sono queste le principali linee guida sulle quali l’Autorità garante per le comunicazioni (Agcom) ha approvato, il 25 gennaio, l’avvio di una consultazione pubblica. Lo scopo dell’autorità è quello di garantire il maggior risalto possibile sui televisori degli italiani a quelli che in una nota vengono definiti i “servizi di media audiovisivi e radiofonici di interesse generale”, forniti dagli editori della tv tradizionale.

Le icone

Secondo le disposizioni dell’Agcom, l’icona dovrà costituire l’accesso unico a tutti i Sig e portare a un sotto menu contenente altre icone: quella della Rai, quelle delle altre emittenti nazionali generaliste raggruppate per editori, una dedicata alle radio nazionali, una per le televisioni locali, oltre ad altre che potranno raggruppare i canali tematici.

Queste icone dovranno raggruppare tutti i servizi di interesse generale forniti gratuitamente dai singoli editori. Tra questi ultimi, quelli non previsti dal testo dell’autorità che desiderino essere qualificati come Sig dovranno presentare un’apposita richiesta entro trenta giorni dall’approvazione definitiva del provvedimento.

La previsione della presenza di un’icona sulle home page di tutte le smart tv commercializzate in Italia è utile, secondo l’Agcom, “per assicurare alla più ampia utenza possibile il pluralismo, la libertà di espressione, la diversità culturale e l’effettività dell’informazione“.

Le motivazioni

Il provvedimento, attraverso il quale “l’autorità intende garantire che determinati servizi e contenuti siano immediatamente accessibili agli utenti, pur continuando ad assicurare a questi ultimi la più ampia possibilità di scelta” rappresenta un toccasana per gli editori tradizionali, impedendo il rischio che i nuovi smart tv possano in qualche modo mettere in secondo piano i canali del digitale terrestre rispetto alle piattaforme dello streaming online.

A “preservare la disponibilità e l’accessibilità dei contenuti fruibili tramite la piattaforma digitale terrestre” servono anche gli altri paletti imposti ai produttori dal testo messo in consultazione, ovvero la fornitura ai clienti di almeno un telecomando che presenti i tasti numerici dallo 0 al 9 e la previsione di un sistema di numerazione automatica. Obblighi che incideranno sulle politiche delle aziende sia per quanto riguarda la produzione hardware, sia per quanto riguarda quella software.

Anche per questo, “nella consultazione è espressamente richiesto al mercato di proporre ipotesi migliorative o alternative a questa”. La consultazione pubblica prenderà avvio dalla data di pubblicazione della delibera e avrà una durata di 30 giorni.

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Economia Tecnologia

Google, perché gli Stati Uniti hanno fatto causa

Author: Wired

Google deterrebbe un monopolio illegale sul mercato della pubblicità online. Con questa accusa, il Dipartimento di giustizia e otto stati statunitensi hanno intentato una causa contro la società di Mountain View, proponendo peraltro una separazione netta tra le attività aziendali che riguardano tale settore e tutte le altre, perseguibile attraverso la cessione da parte del colosso dei prodotti tecnologici utilizzati per le prime.

Google, che attraverso i propri servizi di promozione per le aziende incassa più dell’80% dei propri ricavi, “ha utilizzato – osserva il procuratore generale Merrick B. Garlandcomportamenti anticoncorrenziali, esclusivi e illegali per eliminare o ridurre drasticamente qualsiasi minaccia al suo dominio sulle tecnologie pubblicitarie digitali”.

In particolare, “per 15 anni – prosegue – Google ha perseguito una condotta che le ha consentito di arrestare l’ascesa di tecnologie rivali, manipolare i meccanismi delle aste per isolarsi dalla concorrenza e costringere inserzionisti ed editori a utilizzare i suoi strumenti”.

La causa, che potrebbe approdare in tribunale nel prossimo settembre, non è la prima nei confronti della big tech californiana. Già nel 2020 il dipartimento aveva infatti denunciato la società con l’accusa di aver cercato di proteggere illegalmente la propria posizione monopolistica nel mercato dei motori di ricerca online.

Quella del Dipartimento di giustizia, secondo il vicepresidente per la pubblicità globale di Google Dan Taylor, “un’argomentazione errata, che rallenterebbe l’innovazione, aumenterebbe le tariffe pubblicitarie e renderebbe più difficile la crescita di migliaia di piccole imprese ed editori”.

Il dipartimento – prosegue Taylor – ci chiede di liquidare due acquisizioni che sono state esaminate dalle autorità di regolamentazione statunitensi 12 anni fa (AdMeld) e 15 anni fa (DoubleClick)” e “da allora, la concorrenza in questo settore è solo aumentata”. Il dipartimento starebbe quindi “tentando di riscrivere la storia a spese di editori, inserzionisti e utenti di Internet”.

L’attuale amministrazione – aggiunge il dirigente – ha sottolineato il valore dell’applicazione dell’antitrust nella riduzione dei prezzi e nell’ampliamento della scelta per il popolo americano. Siamo d’accordo. Ma questa causa avrebbe l’effetto opposto, rendendo più difficile per Google offrire strumenti pubblicitari efficienti”.