Categorie
Economia Tecnologia

Elon Musk ha portato internet fin nel cuore dell’Amazzonia. E diviso un popolo

Author: Wired

L’arrivo di internet sta cambiando le abitudini di un popolo della foresta amazzonica. È successo ai Marubo, connessi alla rete da Elon Musk con il suo sistema satellitare Starlink. Come riporta il New York Times, dallo scorso settembre il miliardario di Tesla e SpaceX ha connesso alla sua rete di telecomunicazioni anche il popolo Marubo, che da tempo vive in insediamenti sparsi lungo il fiume Ituí, nella foresta amazzonica.

Il popolo Marubo ha finora conservato abitudini di vita tradizionali. È composto da duemila persone circa ed è una delle centinaia di popolazioni che compongono il tessuto sociale del Brasile. La sua religione è animata da spiriti della foresta, con cui i componenti cercano di entrare in contatto assumendo un decotto di ayahuasca. E il popolo ha familiarità con le scimmie ragno, accudite come animali di compagnia.

A settembre ai Marubo è stata data la possibilità di connettersi a internet grazie a Starlink, il servizio internet satellitare di SpaceX, la compagnia spaziale privata del magnate sudafricano. Da quando è sbarcato nel paese sudamericano nel 2022, il servizio si è espanso in tutta la regione dell’Amazzonia, arrivando a coprire anche alcuni degli ultimi luoghi al mondo rimasti senza connessione.

Un reportage della testata statunitense ha fatto emergere lati positivi e negativi relativi al rapporto dei Marubo con internet. Quest’ultimo ha portato vantaggi evidenti, come le video chat con i propri cari lontani e le richieste di aiuto in caso di emergenza. Allo stesso tempo, però, secondo la 73enne Tsainama Marubo, “i giovani sono diventati pigri a causa di internet” e “stanno imparando i modi dei bianchi“. Ma “per favore”, ha aggiunto la donna, “non portateci via internet“.

Se tornare indietro è impossibile, dopo soli nove mesi con Starlink i Marubo sono già alle prese con i tormenti delle famiglie occidentali: adolescenti incollati ai telefoni, chat di gruppo piene di pettegolezzi, social network che creano dipendenza, estranei online, videogiochi violenti, disinformazione e minori che guardano materiale pornografico. Una piaga che rischia di mettere in discussione i fondamentali della comunità.

Categorie
Tecnologia

È ancora troppo facile ingannare l’intelligenza artificiale e farla andare in crisi

Author: Wired

Impieghiamo molte strategie per assicurare la sicurezza dei nostri sistemi e non possiamo rivelarle tutte” prosegue Anil. Si procede per strati, “e se ognuno ha una sicurezza del 90%, il sistema alla fine raggiunge il 99,99% di efficacia”. In pratica, tra le altre modalità, “controlliamo gli input prima che raggiungano il modello per accertarci che una richiesta sia sicura, insegnandogli al contempo a riconoscere quelle che non lo sono. Ma esaminiamo anche gli output a parte, isolandoli dal resto, per verificare che non siano presenti contenuti non sicuri”.

Rischi di lungo periodo

Il manager va oltre. “Siamo interessati anche ai rischi che derivano dalle capacità dei sistemi di intelligenza artificiale del futuro. In questo caso, l’obiettivo è cercare di comprendere in anticipo le possibilità dei prossimi modelli linguistici in modo tale da produrre dei rapporti che ci possano allertare quando alcune soglie accuratamente identificate vengono superate”.

Parlarne apertamente non rischia di danneggiare la vostra reputazione? “In realtà, no” spiega Anil. “Più i sistemi di intelligenza artificiale diventano potenti, più diventa essenziale che chi li sviluppa garantisca la sicurezza dei propri prodotti. Pensiamo che danneggerebbe molto di più l’immagine della società il fatto che, modelli così potenti sviluppati da noi possano essere usati per danneggiare seriamente il mondo in cui viviamo”.

Al di là del tecno ottimismo, il futuro spaventa anche la società di Amodei. “Una volta che i sistemi avranno superato una certa soglia di capacità, diventerà molto più difficile parlare apertamente e risolvere le vulnerabilità. Significa che dobbiamo fare ricerca sulla sicurezza ora, su modelli che non pongono rischi catastrofici”.

Sul tema, afferma Anil, Anthropic si confronta con governi e altre realtà di settore, oltre che con le università. Alla fine, “crediamo che la AI possa apportare grandi benefici alla società, migliorando la medicine, le scienze, la comunicazione e moltissimi altri campi. Ma sappiamo poco di come i sistemi di AI funzionano davvero, spesso si comportano in maniera sorprendente e non prevista e non abbiamo il controllo che ci piacerebbe sul loro comportamento. Ciò significa che c’è un rischio futuro che sistemi di AI ad alto potenziale siano usati da umani malintenzionati per scopi malevoli. Per questo facciamo così tanta ricerca sulla sicurezza: vogliamo che la AI sia un bene per la società e pensiamo che risolvere i problemi oggi pagherà dividendi in futuro proprio sotto questo aspetto”.

Chi stabilisce i limiti dell’AI

Resta una domanda fondamentale: chi deve stabilire i limiti dell’AI? “Crediamo che sia la società nel suo complesso a doverlo fare, in maniera democratica” replica Anil. “Uno dei modi che impieghiamo è intervistare un campione rappresentativo della popolazione statunitense e chiedere loro di aiutarci a scrivere la ‘carta costituzionale’ del nostro modello, i principi lo dovrebbero guidare e come comportarsi in vari scenari. Alla fine, una delle ragioni per cui siamo così tanto interessati a parlare coi decisori politici sull’AI è perché vogliamo che siano il più informati possibili sui possibili benefici e rischi, così come sulle ultime caratteristiche, in modo che possano legiferare nella maniera più consapevole e informata possibile”. La battaglia è agli inizi. L’intelligenza artificiale è nata negli anni Cinquanta del secolo scorso. Ma stiamo uscendo solo ora, quasi un secolo dopo, dalla preistoria.

Categorie
Economia Tecnologia

Piracy Shield, la piattaforma nazionale antipirateria, sta esaurendo il potere di oscurare siti

Author: Wired

Finora, in caso di errore, i titolari di domini censurati dall’Italia hanno avuto come unico strumento il ricorso legale entro cinque giorni dal blocco. Un problema cogente, se si considera che non è prevista alcuna notifica dell’oscuramento al titolare e che quest’ultimo potrebbe anche non accorgersene entro i tempi stabiliti dalla legge. Un altro effetto positivo di un cambio nella norma potrebbe riguardare gli operatori più piccoli tra gli Isp, tenuti a implementare i blocchi stabiliti da Piracy Shield entro trenta minuti. Questi hanno lamentato le difficoltà di rispettare le regole e hanno dovuto fare i salti mortali con un aggravio dei costi di gestione.

La strada che l’Autorità intende suggerire a Palazzo Chigi è quella di modificare l’oscuramento del sistema antipirateria in un blocco temporaneo, della durata di qualche mese, trascorso il quale l’indirizzo Ip torna disponibile. I tecnici consultati da Agcom, d’altronde, hanno spiegato che i pirati abbandonano gli indirizzi Ip bloccati per saltare su quelli ancora visibili con lo streaming illegale, in una rincorsa eterna tra guardie e ladri che rischia di ridurre sensibilmente, alla lunga, le risorse internet accessibili dall’Italia. E che a pagare siano siti innocui, mentre i criminali del pezzotto sbarcano su altri lidi dove proseguire indisturbati le loro trasmissioni.

Questo succede perché Piracy Shield è stata progettata come se a ogni indirizzo Ip corrispondesse un singolo dominio, mentre oggi la rete informatica è parecchio più complessa e a un solo Ip potrebbero corrispondere migliaia di risorse web, anche perfettamente lecite. È così che un singolo ticket di oscuramento brucia un sacco di risorse online, che spesso niente hanno a che fare con lo streaming pirata. Risorse che, non intervenendo in propria difesa entro cinque giorni dallo stop, si trovano con un blocco irrevocabile.

Cloudflare, multinazionale statunitense dei servizi di content delivery network (cdn, le reti di server che accelerano il caricamento delle pagine web scegliendo il più vicino all’utente) e della sicurezza in cloud, ha scritto ai gestori dei siti oscurati senza motivo da Piracy Shield il 24 febbraio, spiegando loro come far ricorso. Wired ha chiesto ad alcuni operatori che vendono domini online, come Ovh Cloud, Cloudflare e Akamai, se verificano prima la disponibilità del dominio in Italia dopo l’avvio di Piracy Shield, ma nessuno ha risposto alla nostra richiesta di commento.

Quanto vale Piracy Shield?

Per tutte queste ragioni si è resa necessaria una correzione di rotta. A quanto apprende Wired, Agcom sta discutendo come intervenire all’interno dei tavoli di confronto con gli operatori, nell’alveo di quello avviato lo scorso anno prima del lancio della piattaforma. Ma chi presidiava quelle riunioni? Attraverso una richiesta di accesso agli atti, Wired ha ottenuto la lista dei partecipanti, tra i quali Amazon, i rappresentanti dei fornitori di servizi internet e degli operatori di telecomunicazioni, rispettivamente Assoprovider e Asstel, il Comune San Benedetto del Tronto (che non ha mai risposto alla richiesta di Wired sulla sua presenza al tavolo), Confindustria, i detentori dei diritti come Dazn, Rti (gruppo Mediaset) le grandi compagnie di telefonia come Tim, Tiscali, Vodafone, Wind, Fastweb e Iliad e le leghe sportive del calcio (serie A, B e Pro) e del basket, Agenzia per la cybersicurezza nazionale (Acn),Guardia di Finanza, Polizia postale, associazioni antipirateria e del ministero delle Imprese e del made in Italy. Mancavano però gli Isp che non afferiscono a un’associazione di categoria. “Sto scoprendo ora che c’era una convocazione, ma io non ho mai ricevuto nulla e non sapevo nemmeno di dover andare a cercarmela”, spiega uno di loro a Wired.

Categorie
Economia Tecnologia

Internet “libera” e fondi per l’AI: cosa c’è nel patto digitale dell’Onu

Author: Wired

Stabile, sicura e non frammentata”. Descrive così internet la prima revisione del Global digital compact, il patto su digitale e AI che l’Onu, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, vuole votare in un vertice sul futuro della tecnologia a New York, il prossimo settembre. Possono sembrare tre aggettivi scontati, ma uno, in particolare, non lo è. Perché mettendo nero su bianco che internet deve essere una infrastruttura integra e non frammentata, per l’ennesima volta l’Onu sbarra la strada ai tentativi della Cina e di altre nazioni di rimettere in discussione l’architettura della rete. E in parallelo il Palazzo di vetro vuole creare un sistema di studio e governance dell’AI parallelo a quello del clima, con consulenti scientifici, un vertice annuale e un fondo di sviluppo da 100 milioni.

Il braccio di ferro su internet

Ma andiamo con ordine. E torniamo a internet libera. È dal 2019 che Pechino, in vari modi, insiste per un nuovo protocollo di internet. E un nuovo sistema di governance, da sottrarre al modello multilaterale che oggi fa capo all’Internet governance forum. Obiettivo: spezzare internet in tante isole, la cosiddetta splinternet, più semplice da sorvegliare da parte dei governi. Pur avendo il sostegno di Russia, Arabia Saudita e di alcuni paesi africani, la Cina non è riuscita a ottenere consenso intorno al dossier, sempre respinto dalle assemblee internazionali. Ma non è detto che rinunci. Per questo è importante che all’interno del Global digital compact il Palazzo di vetro insista a mettere nero su bianco che l’internet multilaterale non si tocca. È, nelle pieghe del lessico curiale della diplomazia, un altolà al Dragone.

Il Global digital compact, al contrario, riconosce che il luogo dove discutere il futuro della rete e le sue evoluzioni è l’Internet governance forum (e non altri enti dove Pechino ha cercato di forzare la mano), che per questo l’Onu si impegna a finanziarlo, allargando la partecipazioni ai paesi più fragili, e che i 193 paesi delle Nazioni Unite assicurano di “promuovere la cooperazione internazionale” con l’obiettivo di “prevenire, identificare e affrontare tempestivamente i rischi di frammentazione di internet.

Le ricadute della rete

Perché la formula funzioni, non bastano gli impegni di principio del documento. Come lo stesso patto riconosce, ancora oggi 2,6 miliardi di persone non hanno accesso a internet. La bozza di patto chiede che un abbonamento di base alla banda ultralarga costi al massimo il 2% dello stipendio medio per il 40% più povero della popolazione mondiale, una sfida finanziaria per gli operatori di telecomunicazioni mondiali. Specie quelli del vecchio continente, i cui investimenti languono, soprattutto sulle tecnologie 5G. Settore dove invece è forte il Dragone, in espansione nelle forniture fuori casa. Il patto fissa un minimo di 10 megabit al secondo (Mb/s) come accesso universale alla rete e connessione assicurata a tutte le scuole del mondo entro il 2030. Entro la stessa data, l’Onu vuole assicurarsi che l’80% della popolazione mondiale abbia competenze di base in ambito informatico.

Secondo l’Istituto internazionale per la democrazia e l’assistenza elettorale, un ente intergovernativo, il patto deve guardare anche agli aspetti “hardware” di internet. E prevedere politiche che mettano al sicuro l’uso delle materie prime per i chip, il consumo di acqua per raffreddare i data center o la costruzione di cavi sottomarini per le telecomunicazioni, onde evitare che manchino le salvaguardie per garantire una rete aperta.

Categorie
Tecnologia

Le ricerche su Google stanno per cambiare per sempre

Author: Wired

Le soluzioni di AI generativa stanno diventando motori di ricerca sostitutivi, rimpiazzando le query degli utenti che in passato potevano essere eseguite nei motori di ricerca tradizionali – ha spiegato l’analista di Gartner Alan Antin in una dichiarazione allegata al rapporto –. Questo costringerà le aziende a ripensare la loro strategia di marketing“.

Cosa significa tutto questo per il web? “È un cambiamento dell’ordine mondiale – afferma Yu di BrightEdge –. Siamo in un momento in cui tutto nella ricerca sta iniziando a cambiare con l’intelligenza artificiale“.

Otto mesi fa BrightEdge ha sviluppato un sistema che ha ribattezzato parser generativo, in grado di monitorare cosa succede quando gli utenti interagiscono con i risultati online generati dall’AI. L’azienda riferisce che nell’ultimo mese il parser ha rilevato che Google chiede meno frequentemente alle persone se vogliono una risposta generata dall’AI – come accadeva nella fase sperimentale delle ricerche basate sull’intelligenza artificiale generativa – ipotizzando più spesso che sia così .

Le modifiche a Google Search hanno anche importanti implicazioni per l’attività pubblicitaria dell’azienda, che rappresenta la maggior parte delle sue entrate. In una recente riunione con gli investitori sui risultati trimestrali della società, Pichai non ha voluto divulgare le entrate derivanti dagli esperimenti di Google con l’AI generativa. Ma come ha sottolineato Paresh Dave su Wired US, “Google potrebbe ritrovarsi con meno opportunità di mostrare annunci di ricerca se le persone passano meno tempo a fare ricerche aggiuntive e più raffinate”. Di conseguenza, le tipologie degli annunci mostrati da Google potrebbero vedersi costrette a evolvere insieme agli strumenti di AI generativa dell’azienda.

Google ha dichiarato che darà priorità al traffico verso i siti web, i creatori di contenuti e i commercianti anche durante la fase di implementazione delle novità, senza però spiegare come intende farlo.

Durante un incontro con la stampa prima dell’I/O è stato chiesto a Reid se Google ritiene che gli utenti continueranno a cliccare sui link anche in presenza dei riepiloghi AI. Nella sua risposta, la responsabile delle ricerche ha evidenziato che finora l’azienda ha osservato come con le novità le persone tendano “scavare più a fondo, iniziando con l’AI Overview per poi cliccare su altri siti web“. In passato, ha proseguito Reid, chi effettuava una ricerca doveva curiosare in giro prima di approdare a un sito che gli fornisse le informazioni desiderate, mentre ora Google assembla una risposta estrapolata da vari portali. Secondo la logica del colosso, questo favorirà l’esplorazione: “Le persone useranno la ricerca più spesso, e questo rappresenta un’ulteriore opportunità di incanalare traffico prezioso“, ha detto Reid.

È una visione rosea del futuro delle ricerche online, che presuppone che le risposte generate dall’intelligenza artificiale spingano le persone a dedicare più tempo all’approfondimento. Google Search, insomma, promette ancora di farci trovare le informazioni dal mondo a portata di mano. Ora però è meno chiaro chi davvero ci sia dietro.

Questo articolo è apparso originariamente su Wired US.