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Insulina, come un “troll” del web ha fatto abbassare il prezzo

Author: Wired

Eli Lilly è un’azienda farmaceutica con sede negli Stati Uniti che produce insulina: è uno dei primi tre produttori mondiali di insulina. Ha già un account Twitter verificato con l’handle @LillyPad. Tuttavia, un account falso che si spaccia per Eli Lilly con il nome @EliLillyandCo ha pagato 8 dollari a Twitter per ottenere la verifica dell’account. Una volta ottenuto il famoso segno di spunta blu, ha twittato che l’insulina sarebbe stata gratis. “Siamo felici di annunciare che l’insulina è ora gratuita“, ha scritto la persona dietro il profilo. Il falso tweet è presto diventato virale e ha influito in modo significativo sulle azioni di borsa di Eli Lilly. La quota della società è scesa di oltre il 4%, cancellando oltre 15 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato. Il falso tweet non solo ha danneggiato Eli Lilly, ma ha anche influenzato i prezzi delle azioni di Novo Nordisk e Sanofi, gli altri due produttori di insulina. Secondo i report, le azioni di Novo Nordisk sono scese del 3,2% e quelle di Sanofi del 4%.

Il dibattito online sul prezzo dell’insulina

Il tweet falsificato e virale ha spinto in tendenza la discussione sul prezzo dell’insulina. Lo stesso Elon Musk e il senatore statunitense Bernie Sanders, del Partito democratico, sono intervenuti nel dibattito online. “Sia chiaro. Eli Lilly dovrebbe scusarsi per aver aumentato il prezzo dell’insulina di oltre il 1.200% dal 1996. Gli inventori dell’insulina hanno venduto i loro brevetti nel 1923 per 1 dollaro per salvare vite umane, non per rendere oscenamente ricco l’ad di Eli Lilly“, ha twittato Sanders.

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In seguito al dibattito online e alla marea di proteste ricevute sul proprio account ufficiale, Eli Lilly ha di recente dichiarato che abbasserà i prezzi dell’insulina. Dai 300 dollari per un kit, si passerà a 35 dollari per chi ha un’assicurazione medica Medicare, ma l’azienda ha spiegato che il costo sarà presto simile per tutti. Anche se dietro la riduzione c’è la pressione della politica, fra cui il presidente Joe Biden, e degli attivisti che da tempo chiedevano un prezzo minore, il tweet falso ha sicuramente velocizzato il procedimento. Si è scoperto che l’autore è il giornalista americano Sean Morrow che aveva deciso di spendere 8 dollari per ottenere un account verificato e impersonare Eli Lilly. “Mi sono emozionato quando ho saputo cosa era successo“, ha detto Morrow a BuzzFeed News. Grazie alla sua voglia di fare il troll sul web, milioni di americani potranno avere un medicinale a un prezzo più accessibile.

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Tumore del colon retto, al via la ricerca per una nuova cura

Author: Wired

È un’opzione terapeutica estremamente promettente per molte patologie tumorali, ma nel caso del tumore del colon retto, che rappresenta la seconda causa di morte per motivi oncologici a livello mondiale, l’impiego dell’immunoterapia è oggi fortemente limitato. Questo perché in gran parte dei casi – pari a circa il 95% dei pazienti metastatici – i tumori del colon sono immunologicamente “freddi”, ovvero refrattari all’immunoterapia, e solo il 5% sono invece tumori “caldi” in grado di trarre beneficio da questi trattamenti innovativi. La differenza è verosimilmente dovuta ai meccanismi di riparazione del dna e più precisamente a quello che gli scienziati chiamano mismatch repair (Mmr). 

Nel 95% circa dei pazienti con tumore del colon retto metastatico – illustra Alberto Bardelli, direttore del programma di ricerca Ifom Genomica dei tumori e terapie anticancro mirate e professore ordinario all’università degli studi di Torino – questo meccanismo di riparazione è integro e funzionante. Pertanto questi tumori risultano immunologicamente freddi e refrattari all’immunoterapia con gli inibitori dei checkpoint immunitari. Solo nel restante 5% circa dei pazienti il tumore ha perso questo meccanismo di riparazione del dna e, di conseguenza, è caratterizzato da un’elevata produzione di proteine alterate che in gergo si chiamano neoantigeni. Tali proteine attraggono le cellule del sistema immunitario rendendo il tumore efficacemente trattabile con l’immunoterapia”. 

Due anni fa – spiega Vito Amodio, ricercatore di Ifom, università degli studi di Torino e Istituto di Candiolo Irccs – ci siamo chiesti se fosse possibile aumentare la percentuale dei pazienti che possono beneficiare dell’immunoterapia identificando quei tumori freddi che al loro interno nascondono una componente calda”. Proprio in questa direzione è andato questo studio, condotto sempre da Bardelli e dal suo gruppo all’Ifom di Milano e all’università degli studi di Torino con il sostegno di Fondazione Airc. “Abbiamo scoperto che nel piccolo gruppo di tumori eterogenei per lo status del Mmr – prosegue Amodio, primo autore dell’articolo e titolare di una borsa di studio Airc -, coesistono aree tumorali potenzialmente fredde e calde da un punto di vista immunologico. Ci siamo chiesti se ci fossero terapie già disponibili in grado di aumentare l’efficacia dell‘immunoterapia per i tumori del colon retto che al momento non ne beneficiano”.

I ricercatori hanno studiato in laboratorio questa condizione di eterogeneità molecolare quale potenziale bersaglio su cui agire per trasformare i tumori freddi e refrattari al sistema immunitario in tumori caldi e in grado di rispondere all’immunoterapia. Gli incoraggianti risultati ottenuti sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Cancer Cell, che ha dedicato allo studio anche la copertina del giornale. “Abbiamo progettato esperimenti appositi, in topi di laboratorio nei quali è stato possibile riprodurre almeno in parte la malattia osservata nei pazienti – racconta Giovanni Germano, ricercatore di Ifom, università degli studi di Torino e Istituto di Candiolo Irccs e coautore dell’articolo accanto a Bardelli -. Grazie all’utilizzo di tecniche di biologia molecolare e di analisi bioinformatiche abbiamo scoperto come la porzione di cellule con un Mmr alterato possa attivare una risposta immunitaria efficace anche contro la controparte caratterizzata da un Mmr funzionante”. 

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Medici, le 9 regione d’Italia in cui ne mancano di più

Author: Wired

A Bolzano c’è un cardiologo ospedaliero ogni 224mila abitanti, a Caltanissetta un ginecologo ogni 40mila e ad Asti un pediatra per ogni 1.813 minori. In tutta Italia, ma in particolare in nove regioni, di cui sette del nord, mancano medici di famiglia, ospedalieri, pediatri di libera scelta e infermieri. Si chiama desertificazione sanitaria e, come suggerisce il nome, non promette nulla di buono.

L’equazione è semplice: se non ci sono medici è più difficile accedere alle cure sanitarie. È questa la desertificazione sanitaria, ovvero una situazione di estremo disagio per i pazienti, dovuta alla mancanza di personale, di ospedali e altre strutture di cura abbastanza vicine ai centri abitati e a lunghi tempi di attesa. A farne maggiormente le spese sono le zone periferiche e ultra periferiche delle aree interne del paese.

Lo ha rivelato il rapporto Bisogni di salute nelle aree interne, tra desertificazione sanitaria e Pnrr – provincia che vai, carenza di personale sanitario che trovi, curato da Cittadinanzattiva nell’ambito del progetto europeo Action for health and equity: addressing medical desert (Ahead), finanziato da Eu4Health, il quarto programma dell’Unione europea dedicato alla salute per il periodo 2021-2027.

Farmacista al lavoroLa storia dei farmaci carenti in Italia, spiegata con i dati

L’Agenzia del farmaco segnala che sono 3.200 i farmaci carenti in Italia, ma quasi la metà manca perché non è più in commercio e altri 400 saranno ritirati nei prossimi mesi. L’analisi dei dati e le spiegazioni sul fenomeno

Le regioni maglia nera

Secondo l’analisi, sono nove le regioni più colpite da desertificazione sanitaria, per un totale di 39 province dove gli squilibri tra il numero dei professionisti e cittadini sono più marcati. Al primo posto si trova la Lombardia, con Bergamo, Brescia, Como, Lecco, Lodi e Milano tra le peggiori. Segue il Piemonte, con Alessandria, Asti, Cuneso, Novara, Torino e Vercelli. Al terzo posto il Friuli Venezia Giulia, con Gorizia, Pordenone, Udine e Trieste.

Fuori dal podio abbiamo invece la Calabria, con Cosenza Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia. Il Veneto, con Treviso, Venezia e Verona. La Liguria, con Imperia, La Spezia e Savona. L’Emilia Romagna, con Parma, Piacenza e Reggio Emilia. E infine il Trentino Alto Adige, con entrambe le province autonome di Bolzano e Trento, e il Lazio, con Latina e Viterbo.

Rapporto mediciabitanti nelle province italiana

Rapporto medici/abitanti nelle province italiana (Foto: Cittadinanzattiva)

kevin carboni

Mancano i fondi

Una fotografia a tutto campo delle difficoltà che coinvolgono l’intero sistema sanitario nazionale e che, secondo Cittadinanzattiva, rischiano di non essere risolte con i fondi messi a disposizione dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Soltanto il 16% delle case e il 17% degli ospedali di comunità previsti per i prossimi anni sono stati pensati per essere realizzati nelle zone periferiche e più in difficoltà. Sul totale di 1.431 case di comunità, solo 508 saranno costruite nelle aree interne, lasciando circa 5 milioni di italiani e italiane senza qualsiasi presidio sanitario.

Inoltre, in 13 comuni periferici della Valle d’Aosta e in 36 della Liguria non è stata programmata la realizzazione di nessun servizio territoriale tra quelli finanziati dal Pnrr. Così come non è stata prevista la costruzione di alcun ospedale di comunità per le oltre 654 mila persone che vivono nelle aree periferiche di Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Umbria e Marche.

Fortunatamente però, la situazione non è così drammatica in tutto il paese. Alcune province e regioni continuano a lavorare in modo virtuoso per assicurare un facile accesso ai servizi sanitari a tutti e tutte. È il caso della provincia di Roma, dove c’è un ginecologo ogni 2mila persone, o Pisa, dove c’è un cardiologo ospedaliero ogni 3 mila persone. Dati che però sottolineano, ancora una volta, la forte disuguaglianza tra cittadini e cittadine rispetto al diritto alla salute, causata da anni di privatizzazioni dei servizi sanitari e tagli ai fondi destinati alla sanità pubblica.

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Vaccino contro l’Hiv: primi successi per una nuova strategia

La caccia a un vaccino contro l’Hiv ha una lunga storia, e costellata da fallimenti. Diverse caratteristiche del virus rendono infatti complesso raggiungere l’obbiettivo e la giornata mondiale dell’Aids, come ogni anno, è stata l’occasione per fare il punto su quella che probabilmente è la più lunga, e drammatica, epidemia dell’era moderna. Un bilancio fatto inevitabilmente di luci e di ombre. Con sforzi che andrebbero moltiplicati sul piano della prevenzione, visto che i nuovi casi di Hiv continuano purtroppo ad aumentare, in particolare nelle aree più povere del pianeta. Ma che vede anche continui successi sul piano terapeutico: oggi l’aspettativa di vita di un sieropositivo in terapia antiretrovirale è paragonabile infatti a quella di una persona sana; e i nuovi farmaci long acting stanno finalmente rivoluzionando la quotidianità dei pazienti. Dove la ricerca continua a faticare, invece, è nello sviluppo di un vaccino, traguardo che rappresenterebbe forse l’unica, vera, strada per arrivare all’eradicazione della malattia. Anche in questo campo, però, qualcosa sembra muoversi: sull’ultimo numero di Science è appena stata presentata una nuova strategia vaccinale che sembra, finalmente, dare risultati promettenti. Vediamo di cosa si tratta.

Un obbiettivo difficile

Hiv è un retrovirus, cioè di un patogeno in grado di inserire il proprio materiale genetico nel dna delle nostre cellule, dove può rimanere dormiente per mesi o anni, e da dove è pressoché impossibile eliminarlo. Una volta che l’infezione ha avuto inizio, insomma, non c’è vaccino che tenga. Un vaccino contro l’Hiv per risultare utile deve quindi necessariamente essere un vaccino sterilizzante, capace cioè di azzerare il rischio di infezione (e non solo di evitare la malattia o mitigarne i sintomi). E come abbiamo scoperto con i vaccini contro Covid 19, non è affatto semplice ottenere un simile vaccino.

Il fatto che l’Hiv sia un retrovirus lo rende inoltre estremamente variabile. I suoi peculiari meccanismi di replicazione fanno infatti sì che il virus accumuli velocemente un alto numero di mutazioni, che lo aiutano a sfuggire all’azione del sistema immunitario. Come capita per altri virus estremamente mutevoli, come quello dell’influenza, sviluppare un vaccino che continui a funzionare nonostante le mutazioni a cui va incontro il patogeno è veramente complicato. Nel caso dell’Hiv inoltre non è ritenuto sicuro utilizzare una delle strategie vaccinali più tradizionali, ed efficaci, ovvero quella basata su virus vivi attenuati. I vaccini vivi attenuati presentano sempre, infatti, un rischio minimo di causare la malattia da cui vogliono proteggere. E visto che l’infezione da Hiv è un’infezione cronica ed estremamente pericolosa, non è considerato sicuro ricorrervi. A fronte di tanti problemi, ovviamente, la ricerca continua a lavorare. E quella descritta sulle pagine di Science è una delle nuove strategie vaccinali considerate più promettenti negli ultimi anni, definita dagli specialisti germline targeting.

Un vaccino in più fasi

Per capire di cosa si tratta, bisogna ripassare velocemente come funziona il nostro sistema immunitario e in particolare quella che viene definita immunità adattativa. Le cellule che producono gli anticorpi sono i linfociti B. In ogni momento, un ampio numero di queste cellule immunitarie si aggira per il nostro organismo, in uno stato che viene definito vergine, o “naive”. Si tratta cioè di linfociti B che vanno a caccia di virus e batteri che vengano riconosciuti dai loro recettori, ma che non sono ancora andati in contro al processo di maturazione con cui viene massimizzata l’affinità degli anticorpi che producono nei confronti del microorganismo invasore. Perché questo avvenga, è necessario che incontrino il nemico, e vadano poi incontro a delle mutazioni che rendono sempre più specifico il loro legame con l’antigene contro cui sono indirizzati.

Ogni linfocita B produce un diverso tipo di anticorpo, con un’efficacia differente, e indirizzato contro un antigene diverso. Nel caso dell’Hiv, molti di questi anticorpi riconoscono solamente un singolo ceppo del virus e quindi, anche se si rivelassero efficaci, non sarebbero sarebbero utili per proteggere dal rischio di infezione, vista l’elevata variabilità genetica dell’Hiv. Un piccolo sottogruppo di anticorpi, chiamati anticorpi neutralizzanti a largo spettro o Broadly neutralizing antibodies, è invece in grado di riconoscere e neutralizzare la quasi totalità dei ceppi di Hiv, perché ha come bersaglio alcune porzioni del virus che tendono ad avere una bassissima variabilità.

Source: wired.it